Nella convinzione, di stampo benjaminiano, che la storia, e con essa la storia della fotografia, debbano essere spazzolate contropelo (Benjamin, 1997, p. 31), Allan Sekula (1951-2013), fotografo e teorico statunitense, si interessa al ruolo che un’istituzione come l’archivio riveste nell’ambito del discorso fotografico. Sin dall’inizio della sua attività, dai primi anni ’70, egli inizia ad affermare la necessità di rileggere la storia della fotografia “dal basso” e di ripoliticizzare la pratica fotografica, soprattutto quella documentaria. Così, contro un’idea di fotografia come immagine autosufficiente e trasparente, indipendente dal contesto sociale ed economico della sua produzione, Sekula insiste, nei suoi scritti teorici e con la sua pratica, sull’opportunità di considerare la fotografia non solo come mero documento del reale, ma piuttosto come un artefatto culturale operativo. Nel mirino delle critiche formulate dall’autore si confrontano due stereotipi: da un lato quello dell’artista-fotografo e dall’altro quello del fotografo documentario, due figure che egli discute e decostruisce già nel suo primo saggio teorico del 1974, On the Invention of Photographic Meaning, qui riconoscendole esemplarmente in Alfred Stieglitz e Lewis Hine.
Come osserva lo storico della fotografia Olivier Lugon, non si trattava per Sekula semplicemente di comparare tra loro due “maestri” della fotografia americana, ma piuttosto di analizzare due ordini discorsivi, che «convenzionalmente identificati con la fotografia d’arte e con la fotografia documentaria, sarebbero fondati su due ‘miti’ fotografici fondamentali, egualmente nefasti: il mito simbolista e il mito realista, ciascuno dei quali legato a un tipo di credenza antagonistico, la fede nella ‘verità della magia’ e la fede nella ‘verità della scienza’». (Lugon, 2013, p. 64).
Contrariamente a questi due approcci, considerati troppo estetizzanti e formalistici, la sua opera si costruisce ed evolve come un’analisi costante del contesto sociale ed economico cui appartiene tutta la produzione artistica, sempre attenta ad affermare l’intimo legame tra estetica e politica, a sviluppare quello che egli stesso chiamò un realismo critico (Sekula, 1998). È in tal senso che egli si rivolge a Walter Benjamin e al suo approccio materialista alla storia, nonché alle implicazioni politiche e sociologiche del teatro epico di Bertolt Brecht: si tratta di prendere posizione nel tempo presente per articolare la conoscenza del passato, di descrivere e documentare il mondo, non per imitarlo, ma per osservare e mostrare le pieghe che lo strutturano e lo determinano storicamente e socialmente. «Consideriamo l’arte come un modo di comunicare, un discorso ancorato a precise relazioni sociali, e non questa entità vaporosa, mistica e astorica, determinata da un’esperienza o da un’espressione puramente affettive. L’arte, come la parola, è il risultato di uno scambio simbolico e allo stesso tempo di una pratica concreta. […] Le nostre letture della produzione culturale del passato sono subordinate alle velate esigenze del tempo presente. Un’interpretazione mistificante è quella che universalizza l’atto della lettura dissociandolo dal contesto storico» (Sekula, 2013, p. 143) [1].
Quindi, così come lo storico materialista deve, per Benjamin, lavorare con i materiali forniti dal passato, montandoli e rimontandoli tra loro “per far saltare il continuum della storia”, il tempo vuoto e omogeneo della narrazione dei “vincitori” (Benjamin, 1997), anche il teorico e fotografo Sekula agisce controcorrente, against the grain (Sekula, 2016), rispetto a una storia della fotografia che necessita una rilettura alla luce di questi presupposti. Parallelamente, anche Brecht diventa il tramite per ripensare le politiche della rappresentazione. «Una descrizione del mondo è un problema di ordine sociale» (Brecht, 1969, p. 20), e bisogna quindi descriverlo come un mondo che può essere cambiato, trasformato. Allo stesso modo, il documentario critico e sociale di Sekula vuole essere «operativo a tutti i livelli della nostra cultura» (Sekula, 2013, p. 157), prassi critica e non semplice rappresentazione aderente alla realtà: è la valenza sociale e politica delle relazioni, delle azioni e dei gesti che occorre documentare criticamente; fotografare come se anche le azioni più anodine fossero il risultato di una performance dalle più ampie ripercussioni sociali [2]. La teatralità insita nella vita quotidiana sarebbe ciò che il gesto sociale, quello che Brecht chiama Gestus [3], può rivelare, mostrando uomini con corpi che vivono, lavorano e agiscono collettivamente, secondo codici e regole storicamente determinati. Reinventare la tradizione, riscrivere la storia della fotografia dal basso significa quindi, per Sekula, «accettare la natura ibrida dei materiali: giocare con la relazione tra la messa in scena e il quotidiano e persino rendersi conto che l’evento quotidiano contiene già, in sé, un elemento di finzione o di teatro» (Sekula, 1998, p. 30).
Questo interesse per una storia “sociale e materialista della fotografia”, che prende in considerazione «le interazioni di determinazioni economiche e tecnologiche» (Sekula, 2013, p. 57), lo porta allora ad affrontare direttamente, soprattutto a partire dagli anni’80, la questione dell’archivio fotografico.
Nel noto testo The Body and the Archive (1986), che tematizza il rapporto tra fotografia, corpo e archivio, Sekula afferma che «in termini di struttura, l’archivio è al tempo stesso un’entità paradigmatica astratta e un’istituzione concreta» capace di stabilire rapporti di equivalenza e di intercambiabilità tra le immagini, anche fotografiche, «nonostante la natura circostanziale di tutto quello che può essere fotografato» (Sekula, 2013, p. 242). Questa idea di un’astratta “equivalenza visiva tra le immagini fotografiche”, stabilita dalla stessa istituzione archivistica, si ritrova anche in un precedente e importante testo, Reading an Archive. Photography Between Labour and Capital (1983), che accompagnava e analizzava l’archivio fotografico di Leslie Shedden, su cui torneremo (Sekula, 1983; 2002). In questo scritto, per rispondere a una serie di domande sul valore politico delle immagini fotografiche e sul loro rapporto con la “vita economica”, egli si chiedeva esplicitamente che cosa fosse un archivio fotografico e quale potere esso eserciti, mettendo così in luce tutta l’ambiguità di un tale dispositivo e la difficoltà di coglierne teoricamente le specificità.
«Il modello dell’archivio, dell’insieme quantitativo d’immagini, è un modello potente all’interno del discorso fotografico. Questo modello esercita un’influenza fondamentale sull’esperienza che si può fare del carattere di verità delle fotografie e del piacere che si prova guardandole, soprattutto oggi, quando i libri fotografici e le mostre vengono elaborati a partire dall’archivio a un ritmo senza precedenti. Si potrebbe anche sostenere che le ambizioni e le procedure d’archivio sono intrinseche alla pratica fotografica». (Sekula, 2002, p. 444).
All’idea, più volte sostenuta da Sekula, che l’istituzione archivistica e la pratica fotografica siano strettamente legate, fa eco, quasi negli stessi anni, anche Rosalind Krauss, che discute della dimensione archivistica della fotografia nel suo saggio Photography’s Discursive Spaces. Landascape/View (Krauss, 2013). Krauss sostiene in particolare che la dimensione museale in cui la fotografia ha fatto la sua comparsa per la prima volta all’inizio degli anni settanta e che la caratterizza oggi come pratica artistica è in realtà solo un calco mal riuscito della concezione modernista dell’opera d’arte. La dimensione specifica della fotografia, che per la sua natura ambigua, sempre a metà strada tra artefatto e documento, sfugge a qualsiasi normalizzazione disciplinare proveniente dalla storia dell’arte, non sarebbe affatto lo spazio della parete, dell’esposizione, ma quello dell’archivio. E questo, afferma Krauss, non nel senso del luogo fisico deputato a conservare un documento materiale, ma soprattutto nel senso della definizione di Michel Foucault, secondo cui l’archivio è «l’insieme delle condizioni secondo cui si esercita una pratica, secondo cui questa pratica dà luogo a enunciati parzialmente o totalmente nuovi, secondo cui infine essa può essere modificata» (Foucault, 2009, p. 272). Come “astrazione paradigmatica”, l’archivio sarebbe quindi il milieu specifico della fotografia, sia come condizione storica della sua nascita, sia come condizione formale del suo sviluppo: prima della standardizzazione museale e prima di essere accettata come «figlia legittima della tradizione pittorica occidentale» (Galassi, 1981, p. 12; Krauss, 2013, p. 57), la fotografia si costituirebbe allora come una vera e propria pratica discorsiva, ovverosia come un «insieme di pratiche, istituzioni e relazioni cui la fotografia del XIX secolo apparteneva originariamente» (Krauss, 2013, p. 74). Come istituzione concreta, l’archivio fotografico costituisce perciò, per continuare a usare i termini di Sekula, un ambiguo “territorio d’immagini”. L’archivio fotografico è ambiguo perché, come afferma il fotografo e teorico statunitense, esso è contraddittorio e tutt’altro che neutro: le immagini che ne fanno parte sono atomizzate e allo stesso tempo omogeneizzate, e l’archivio risulta così strutturato secondo un ordine, imposto da un’autorità che allo stesso tempo lo legittima e si legittima. L’archivio fotografico è ambiguo, inoltre, anche per il modo in cui veicola il significato: è una vera e propria cassetta degli attrezzi (Sekula, 1983), in cui si trovano sospesi tanto il significato quanto l’uso delle immagini in esso conservate.
«Nell’archivio il significato esiste in uno stato che è allo stesso tempo residuo e potenziale. La suggestione degli usi del passato convive con una pienezza di possibilità», e ciò accade perché «nonostante la potente impressione della realtà […] le fotografie stesse sono sempre espressioni frammentarie e incomplete […]» (Sekula, 2013, p. 445).
Gli archivi che il teorico e fotografo americano studia nei due testi degli anni ’80 sono, alla luce di queste considerazioni, singolari e al contempo emblematici. Si tratta, come già detto per il testo del 1983, del corpus di fotografie realizzate da Leslie Shedden; mentre il testo del 1986 prende in considerazione le pratiche di archiviazione e di campionamento delle presunte “devianze” morfologiche – e di quelle, inferite da quest’ultime, comportamentali – di Alphonse Bertillon e Francis Galton. Leslie Shedden fu un fotografo attivo tra il 1948 e il 1968 a Glace Bay, località mineraria della zona di Cape Breton, in Nova Scotia, Canada. Qui Shedden, come osserva lo stesso Sekula, era attivo su due fronti: da un lato lavorava su commissione per varie istituzioni e clienti privati locali, realizzando ritratti, fotografie di matrimoni ed eventi, pubblicità, foto di architettura; dall’altro aveva intrapreso un vasto lavoro di documentazione delle condizioni lavorative e sociali nelle miniere di ferro e carbone di Cape Breton. Questo secondo lavoro fu commissionato dall’impresa che gestiva le miniere, la Dominion Steel and Coal Company, cosa che permise a Shedden di entrare nelle aree di lavoro e di registrarne le peculiarità, così come la graduale trasformazione e meccanizzazione delle attività. Oltre alle condizioni di lavoro, una buona parte del corpus delle fotografie realizzate da Shedden illustra le condizioni sociali e familiari dei lavoratori, la loro vita nella città e nella comunità locale. Shedden è stato così, in un certo senso, l’artefice dell’immagine collettiva della città e ne ha prodotto, nel corso di vent’anni di attività, l’archivio, il dispositivo votato a custodirne la memoria. Come guardare a quest’archivio e che uso, storico e critico, poter fare delle immagini che esso contiene? Sekula si propone di rileggerlo a partire da un interrogativo chiaro, già enunciato in precedenza, ovvero: qual è il rapporto che sussiste tra cultura fotografica e vita economica? E, chiarita la natura di questo rapporto, in che modo la fotografia contribuisce a determinare e mantenere, “legittimare e normalizzare”, le relazioni di potere esistenti? Due ordini discorsivi possono, secondo Sekula, emergere da un simile archivio, se ingenuamente osservato – così come, potremmo dire, da ogni archivio fotografico. Le fotografie in esso contenute possono assumere la valenza e il peso di un documento storico, oppure possono essere considerate degli oggetti estetici.
Nel primo caso, le fotografie di Shedden sarebbero considerate come manifestazioni oggettivamente vere del passato e utilizzate per sostenere una narrazione storica basata su un approccio positivista o storicista ai fatti: così intesa, la fotografia, ricorda Sekula, diverrebbe l’aggancio perfetto al discorso tipico dello storicismo che, nella figura di uno dei suoi padri, Leopold von Ranke, affermava che il lavoro dello storico consisterebbe nel mostrare il passato esattamente come esso fu (wie es eigentlich gewesen war) – niente più di una fotografia potrebbe, in questo senso, svolgere pienamente la funzione di monumento della storia, di memoriale fedele e autentico del passato[4]. Le fotografie diventerebbero così delle fonti perfettamente intelligibili e trasparenti, delle evidenze, strumenti utili a costruire un tipo di conoscenza fattuale, secondo un approccio alla disciplina che vede nella storia una variante delle scienze esatte e conseguentemente, anche per il tramite delle “illustrazioni” che le fotografie contenute in un archivio sarebbero in grado di fornire, lineare nel suo sviluppo. Nel secondo caso, dice l’autore, l’attenzione si sposterebbe sul piano estetico della produzione di Shedden e le fotografie sarebbero considerate l’espressione della sua soggettività d’artista, oppure una perfetta manifestazione della cultura popolare, cadendo così nella trappola dell’autorialismo da un lato e del voyeurismo o del folklore dall’altro. In entrambi i casi si andrebbe insomma incontro a un’opacizzazione del dato fotografico e si soccomberebbe all’autorità inapparente dell’archivio, senza interrogarsi sulle sue origini, le sue funzioni e rinunciando a sfruttarne le potenzialità. Per queste ragioni Sekula ci esorta a considerare l’archivio un vero e proprio dominio, un territorio su cui e a partire da cui vengono esercitate forme di potere e di controllo. «In breve, gli archivi fotografici – afferma ancora l’autore – per la loro stessa struttura, mantengono una connessione nascosta tra sapere e potere» e per una simile ragione «l’archivio deve essere letto dal basso, assumendo una posizione di solidarietà con chi è sfollato, con chi è snaturato, messo a tacere o reso invisibile dalle macchine del profitto e del progresso» (Sekula, 2002, p. 447-452). Va in questo senso anche il più noto testo del 1986, The Body and the Archive, dove Sekula procede ad una rilettura degli archivi “dal basso” al fine di comprendere «le politiche della verità fotografica» (Muracciole, 2013, p. 226) celate in alcune pratiche di classificazione e archiviazione. In questo testo, è la capacità di generalizzazione di dispositivi e archivi fotografici ad essere tematizzata e ad essere stata ampiamente sfruttata, osserva Sekula, fin dai primi sviluppi del medium: tra il 1880 e il 1890 l’archivio diventa infatti «il sistema istituzionale a partire dal quale si è definito lo statuto del senso della fotografia» (Sekula, 2013, p. 276), quando quest’ultima era legata a due pseudo-discipline, la fisionomia e la frenologia, e serviva come strumento di indagine, osservazione e classificazione dei “tipi” umani.
Il corpo criminale, o più precisamente il volto criminale, era la superficie esterna, l’immagine visibile, la manifestazione naturale di caratteristiche interne che s’intendevano misurabili e archiviabili. Tutte le presunte devianze dovevano essere classificate e archiviate per essere dominate: dall’antropometria di Bertillon ai ritratti compositi di Galton, la fotografia ambiva a fornire un potenziale quanto generico archetipo visivo di volti e corpi umani. Si trattava, come scrive efficacemente Sekula, di due pratiche speculari: l’antropometria di Bertillon ha portato la fotografia nell’archivio, trasformando la ritrattistica in uno strumento di misurazione delle variabili morfologiche dell’uomo; Galton ha realizzato il contrario, portando l’archivio nella fotografia. In questo secondo caso, scrive Sekula, il funzionamento del dispositivo-archivio invadeva lo stesso processo fotografico, diventando operativo all’interno di un’unica immagine che «cerca di assumere l’autorità dell’archivio, quella di una codificazione generale e astratta» (Sekula, 2013, p. 273). In entrambi i testi citati, le analisi svolte sugli archivi servono a dimostrare fino a che punto la memoria storica e sociale dipenda dal modo in cui documenti e fotografie vengono prodotti, conservati e interpretati: in base a scelte di archiviazione e de-codificazione, la memoria può subire trasformazioni, riduzioni, obliterazioni (Sekula, 2002). Studiare l’archivio vuol quindi dire decostruire il processo di naturalizzazione culturale che potenzialmente può derivarne, in vista di una storia culturale materialista da opporre, nel caso di materiali ambigui come le fotografie, da un lato a una narrazione storica fatta di evidenze fattuali, e dall’altro a una forma acritica di storia dell’arte che occulterebbe le implicazioni sociali ed economiche della produzione fotografica. Al contrario, per Sekula, gli usi possibili del documento fotografico devono essere costantemente interrogati con riguardo alle sue condizioni materiali di realizzazione, esistenza e, soprattutto, circolazione. Questo è un tema al quale egli si mostra attento sin dall’inizio del suo percorso artistico, quando, assieme ad un collettivo militante di artisti che comprendeva anche Martha Rosler (Young, 2016), iniziava a criticare veementemente le influenze nefaste del modernismo sulla storia e la teoria della fotografia. Contrariamente quindi agli ideali di autonomia, di specificità del medium e a tutti quegli «occultamenti simbolici» (Muracciole, 2013, p. 225-226) che avevano dato origine da un lato al binomio fotografia-verità e dall’altro avevano ridotto la fotografia a produzione ancillare della grande storia dell’arte, egli afferma invece la “polisemia” dell’immagine fotografica, di ogni fotografia, e ne ribadisce il carattere tecnicamente e storicamente costruito. Pertanto, in alcun caso essa può essere considerata un’immagine trasparente, né un documento inerte, né l’archivio quel luogo neutro deputato alla sua conservazione. Il rapporto della fotografia con l’archivio è, perciò, tanto essenziale quanto problematico: è questa, come abbiamo già osservato, la conclusione cui giungono Sekula e Krauss. Entrambi evidenziano, infatti, una contraddizione che è ascrivibile a tutta la produzione fotografica, da un lato documento o registrazione del reale ma dall’altro sempre, potenzialmente, un oggetto estetico, quando non affettivo o sentimentale, come nel caso delle foto folkloristiche o di famiglia (Sekula, 2013, p. 186). Per Krauss il potere celato nell’archivio fotografico deve essere rivelato considerando quest’ultimo, foucaultianamente, come un dispositivo, o meglio, come un sistema sempre emendabile di funzionamento dei discorsi; anche Sekula si propone di scardinare il modello dell’archivio e dell’accumulazione fotografica, di rivelare i rapporti in esso celati tra potere e sapere, di mostrare i dispositivi di sorveglianza resi operativi proprio da dispositivi ottici (come nel caso del Panopticon), riferendosi anche lui esplicitamente al pensiero di Foucault (Sekula, 2013, p. 233-234). A quello che egli chiama un “realismo strumentale”, in altre parole quei «progetti figurativi votati a nuove tecniche di valutazione e controllo sociali, alla categorizzazione e all’isolamento sistematici di un’alterità considerata come determinata biologicamente e che il linguaggio del corpo manifesterebbe» (Sekula, 2013, p. 186), volti a codificare il visibile, occorre opporre “un realismo critico”, che deve invece coglierne la complessità, la polifonia e «scoprire l’intervallo in cui risiede l’idea di libertà» (Sekula, 1998, p. 26). Scegliere, nel presente, quello che deve essere preservato del passato, quello che deve essere mostrato e in che modo, diventa un’azione volta a tracciare scenari futuri. Del resto, Sekula si pone, proprio a partire dall’archivio di Shedden, una domanda sulla libertà politica di immaginare il futuro: che cosa ci è concesso immaginare, che cosa ci è imposto invece di dimenticare? Assumendo questa prospettiva critica sul reale, la fotografia che egli pratica si oppone alla fattualità e all’evidenza, e afferma la sua referenzialità al mondo attraverso un radicamento nel sistema economico e sociale che ne permette la produzione: i materiali sono ibridi, così come lo sono le forme possibili del documentario e della narrazione. Con la sua pratica artistica, quindi, Sekula ricerca questi intervalli, crea queste ibridazioni, sviluppando articolate narrazioni, montaggi, foto-testi e sequenze [5], progetti di lunga durata, come il monumentale Fish Story, volti a mostrare la complessità della rappresentazione e le stratificazioni del dato fotografico. Con la volontà di rivelare il potere esercitato dal dispositivo-archivio, di opporsi ad esso, nelle opere di Sekula le immagini fotografiche sono considerate nella loro polisemia, non sono mai presentate da sole: il loro modo di esistenza richiede da un lato la sequenza o la serie e dall’altro «testi per ancorare, contraddire, rinforzare, sovvertire, completare, precisare i significati» delle immagini stesse o, aggiunge, «per andare oltre» (Sekula, 2013, p. 153). Scardinare il modello dell’archivio vuol dire allora diluirne il senso e disperderne l’autorità, poiché «la stessa immagine» – scrive l’artista americano in un testo che è da considerare come il suo manifesto teorico – «può veicolare messaggi diversi in circostanze rappresentative diverse» (Sekula, 2013, p. 149), essa può subire interpretazioni variabili in base ai modi di ricezione e narrazione. Articolare materiali disparati, realizzare serie fotografiche, montaggi, sequenze di testi e immagini – quasi dei tableaux, proprio come nel teatro brechtiano – rappresenta quindi il modo in cui Sekula si fa carico della necessità di rinnovare «le politiche della rappresentazione» (Sekula, 2013, p. 143). Come egli ci mostra attraverso il suo apporto, anche teorico, alla storia della fotografia, questo rinnovamento non può fare a meno di una riflessione critica sul modello dell’archivio e dell’accumulazione apparentemente silenziosa d’immagini, e non può far a meno di formulare delle risposte, delle alternative. «What futures are promised; what futures are forgotten?» (Sekula, 2002, p. 444). Sono proprio l’archivio e i suoi interpreti a essere responsabili di questa risposta.
Note
[1] Ad eccezione del testo Reading an Archive, i saggi di Allan Sekula sono tutti citati dall’edizione francese del 2013 e tradotti dall’autrice del presente saggio.
[2] Quest’attenzione alla teatralità dei gesti gli proviene dai sui primi lavori incentrati sulle performing actions, dalle sue prime opere che combinano fotografia e performance. In una lunga intervista a Benjamin H.D. Buchloch (Sekula, 2003: 20-21), Sekula indica in particolare i suoi primi tre lavori – Box Car (1971), Meat Mass (1972) e Untitled Slide Sequence (1972) – come tutti derivanti, almeno concettualmente, da un’idea allargata di performance e dal tentativo di usare la fotografia come mezzo per documentare queste azioni.
[3] Sono in particolare le vaste implicazioni teoriche di due nozioni chiave del teatro epico di Brecht a interessare Sekula, quella dello straniamento, o Verfremdung, e quella di Gestus, del gesto sociale, che sono strettamente legate l’una all’altra. Se la prima è ben conosciuta, è la seconda che le conferisce tutta la sua profondità: nel teatro brechtiano, com’è noto, la recitazione deve provocare nello spettatore un particolare effetto di distanza, di straniamento, utile appunto a rivelare il carattere costruito, storico e contingente di ogni realtà culturale e sociale, considerata invece a torto e per abitudine naturale (Jameson, 2018, p. 182). In tal senso, il Gestus non è una mimica personale e isolata, non è una categoria estetica, ma un’attitudine e un gesto che rivelano in scena i rapporti sociali che s’intrecciano tra i personaggi in una data situazione, che s’incarnano nei corpi al di qua del linguaggio, portando lo spettatore a interrogarsi criticamente sulle basi materiali delle relazioni interumane.
[4] In questi termini era descritta, ad esempio, l’opera fotografica di Roger Fenton realizzata durante la guerra di Crimea (1853-1856), nel secondo numero della Revue Photographique, pubblicato il 5 dicembre 1855.
[5] Si vedano in particolare Untitled Slide Sequence (1972); Aerospace Folktales (1973); This Ain’t China. A Photonovel, 1974; Fish Story (1989-1995).
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Sitografia
Allan Sekula Studio LIKN
Roberta Agnese è dottore di ricerca in Estetica dell’Université Paris Est-Créteil. Insegnante e ricercatrice, si occupa del rapporto tra archivio, finzione e tempo nella fotografia e nelle arti visive contemporanee, in particolare a partire dalle opere di Walid Raad e di Stan Douglas.