“Di certo, a partire dalla rappresentazione più o meno veritiera che diamo del nostro passato, noi costruiamo la
nostra identità presente e soprattutto futura e su questa base ci raccontiamo, ci relazioniamo agli altri da noi,
produciamo insomma cultura. Memoria, cultura e identità sono, da questo punto di vista, tre modi diversi di mettere
in prospettiva una stessa realtà.”
P. Violi (Violi, 2014: 7)
.
In tempi relativamente recenti anche l’Italia ha iniziato in maniera sistematica a interessarsi del proprio passato coloniale. La storiografia sull’argomento risale certamente a diversi anni prima, ma solo negli ultimi anni la questione della rimozione del colonialismo italiano ha iniziato ad avere due nuovi essenziali input: un forte interesse accademico a livello internazionale, in particolar modo nei dipartimenti di Italian Studies; un ampliamento dell’interesse dal solo campo della storia in senso più classico ad altre discipline come gli Studi Culturali o l’Arte. Accanto ai numerosi ricercatori hanno iniziato a lavorare diversi artisti visivi e performativi. Questa seconda “novità” è senza dubbio il nostro campo di interesse, ed è a nostro modo di vedere, la vera chiave passepartout per fare in modo che il vero e proprio “vuoto di memoria” italiano venga riempito, non solo di dati e notizie, ma anche di immagini che possano evocare e quindi spingere a pensare e ad assumere come nostre alcune istanze che non hanno a che vedere solo con il passato, ma con assolute e stringenti urgenze del presente.
Occorre in primo luogo proporre una piccola battaglia di principio: da diversi anni per ciò che riguarda le questioni legate alla memoria di grandi traumi recenti come il nazismo o la Shoa, ma anche le dittature più recenti di alcuni paesi dell’Asia e quelle dell’ex blocco dell’Est europeo, si è iniziato a parlare di Difficult Heritage, partendo da una definizione ormai più che nota data dalla studiosa inglese Sharon Macdonald (Macdonald, 2008). Nei testi della stessa ricercatrice e in tutta la letteratura seguente non si fa mai cenno all’idea di inserire il colonialismo europeo nel contesto della Difficult Heritage, cioè facendolo rientrare in quella categoria di traumi che hanno modificato in maniera radicale l’identità di un luogo e di una comunità, e ancora oggi ne impediscono la risoluzione. La proposta è di inserire il colonialismo come Difficult Heritage non solo per le popolazioni che hanno subito la colonizzazione, come è ovvio e doveroso che sia, ma anche per le nazioni colonizzatrici. La costruzione politica del colonialismo moderno corrisponde all’affermazione di un principio che ha dominato per oltre un secolo e mezzo la cultura Europea che costruiva il suo sistema capitalistico, e oggi ancora determina politiche e atteggiamenti etici che definiscono un aspetto essenziale dell’identità dei cittadini. In altre parole, il ricordo della stagione coloniale produce due effetti devastanti: il suo ricordo nitido consolida un’idea insana di superiorità, legata a un concetto di razzializzazione (Lombardi Diop, Giuliani, 2013; Lombardi Diop, Romeo, 2014) del mondo che è ancora più che presente nella cultura sia popolare che accademica europea; all’opposto, la rimozione, la cancellazione e la rilettura revisionista di quel periodo costruisce una narrazione giustificativa, che non ha solo a che vedere con le nefandezze del passato ma disegna le politiche dei respingimenti dell’oggi.
In questo contesto si inseriscono tre lavori video e filmici realizzati da altrettanti artisti italiani che sono usciti quasi in contemporanea: Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos, Negotiating Amnesia di Alessandra Ferrini e If only I Were that Warrior di Valerio Ciriaci, tutti usciti nel 2015.
Alan Maglio e Medhin Paolos, Asmarina
Alessandra Ferrini, Negotiating Amnesia
Valerio Ciriaci, If only I Were that Warrior
Alan Maglio e Medhin Paolos sono ambedue italiani e abitano a Milano e Medhin è nata da una famiglia di origini eritree; Alessandra Ferrini è un’italiana che vive a Londra da tredici anni; Valerio Ciriaci è un italiano che vive a New York. L’elencazione di queste brevi note biografiche non è cronachistica ma serve a chiarire subito da dove arrivano questi artisti di ultima “generazione” che lavorano oggi sul colonialismo italiano in maniera esplicita.1
Le voci che si levano in maniera limpida su questa questione, come vedremo collegando perfettamente passato e presente, sono di italiani che non vivono in Italia e di un’italiana che ha un legame personale forte con le ex-colonie. Questo solo per dire che in Italia di fatto non esiste una vera cultura artistica che abbia lavorato nel tempo sul tema della nostra memoria coloniale rimossa. Se in questo c’è una colpevolezza di fondo del mondo accademico che ha raramente affrontato il tema degli immaginari coloniali, e non ha pressoché mai tentato un reale confronto con gli artisti per trovare insieme una strategia di “riempimento” del vuoto di memoria italiano, d’altro canto i nostri artisti non hanno sentito la necessità, come accade da decenni ormai in tutto il resto del mondo si può dire, di affrontare un tema tanto complesso quanto essenziale.
Nelle tre le opere che analizziamo, le voci narranti partono da un racconto che non è quello de “la storia” ma quello de “le storie”. Le narrazioni ufficiali del colonialismo hanno costruito una serie di immaginari ad hoc che potessero permettere prima di tutto la rimozione politica già dall’immediato dopoguerra della virulenza del nostro colonialismo. Quelle narrazioni hanno però rimosso un altro dato essenziale: nel programma di Mussolini, che sapeva bene di essere il dittatore di uno stato/nazione inesistente, che in poco più di cinquanta anni non aveva raggiunto nessuna unità di fatto, le colonie servivano proprio a creare l’uomo nuovo, il “nuovo italiano”. La possibilità di vedere l’Italia proiettata fuori dai suoi confini come potenza imperiale che si afferma in mezzo alle altre potenze europee, era la cartina di tornasole per costruire un’idea di italianità. Come realizzare questo sogno? Provando a identificare l’italiano colonizzatore con i suoi antenati antichi romani che per primi avevano portato la “civiltà” in quelle antiche terre dominate da “selvaggi”.
Uno dei personaggi centrali del racconto del documentario di Valerio Ciriaci è Giuseppe, un agronomo della FAO mandato in missione ad Addis Abeba che deve insegnare ai contadini locali come coltivare, in aree molto aride, alberi da frutta. Il film si apre proprio con Giuseppe che guarda una grande distesa di terra arida, vestito da moderno esploratore, con abbigliamento color militare e il cappello tipico degli “occidentali” nel deserto, che prima guarda l’orizzonte e poi si lancia in una sorta di corsa. Giuseppe nel film è uno dei fili conduttori e racconta della sua passione per la guerra e le imprese militari, e della sua emozione nel poter camminare lì dove hanno camminato gli antichi coloni italiani. Il suo atteggiamento quando parla dei contadini locali è paternalistico e tende sempre a infantilizzarli, in maniera da giustificare il suo generoso ruolo sul posto. Durante l’invasione coloniale italiana una delle figure cardine di Mussolini, oltre e dopo quella del militare, fu proprio quella del colono italiano, contadino esperto che andava a insegnare ai “selvaggi” le nuove tecniche agricole, che lui aveva già dentro di sé, come in una sorta di DNA, perché gli veniva dalla sua origine romana. In un processo generale di affermazione della superiorità del cittadino nuovo italiano Mussolini inventa il perfetto coltivatore: “L’acme di questo processo sarebbe stato raggiunto con la rivendicazione della capacità innata dell’agricoltore-colono italiano di bonificare, di dissodare e lavorare la terra, in quanto diretto discendente dall’antico colono romano che tante tracce si voleva avesse lasciato in terra libica, tracce che in realtà erano il risultato di una cultura eminentemente mista, sorta dalla fusione di elementi libici, punici, greci e romani, visto che mai vi era stata una vera e propria colonizzazione agraria romana”(Muzi, 2001: 11).
Giuseppe è la reincarnazione del colono “buono” che lo stesso fascismo propaganderà dopo la prima fase cruentissima, per provare a mettere a frutto, in senso economico, le conquiste fatte. Giuseppe è l’uomo nuovo italiano di oggi che, come allora, cerca nelle colonie (ex-colonie) una sua “italianità” che in patria non trova, e che lo riconnette a quel tentativo di “Impero” che traccia per lui una linea millenaria.
Valerio Ciriaci dà molto spazio ai discorsi di Giuseppe perché lui è uno dei narratori, perché la sua storia è una possibile storia del colonialismo italiano, è una voce che guarda il mondo dalla parte di chi ha visto nel colonialismo una possibilità di riscatto dell’italianità.
Potremmo mettere in parallelo la voce di Giuseppe con la voce dell’uomo che apre Asmarina e parla dalla sede della ANRRA–Associazione Nazionale Reduci Rimpatriati d’Africa. L’ambiente che lo circonda è una mostra di cimeli coloniali, e l’uomo parla di quel tempo con la freddezza dello storico, salvo poi dire frasi che alludono al fatto che bisognava rispettare i popoli “indigeni” naturalmente se questi rispettavano le leggi che l’Italia aveva scritto per il luogo. La sua narrazione è quella del “benefattore” che sa di far parte di un paese che ha costruito strade e ferrovie, che ha portato la “civiltà” lì dove c’era solo arretratezza.
La narrazione ufficiale degli “italiani brava gente” (Del Boca, 2005) non è una visione isolata in epoca coloniale, dagli anni trenta tutte le grandi potenze iniziano a considerare le proprie colonie come “province” d’oltremare, e ad avere un apparente atteggiamento più di bonario aiuto alla crescita che di oppressione. Durante l’Exposition Coloniale Internationale de Paris del 1931 il Maresciallo Lyautey, Commissaire Générale, ribadisce nel suo discorso durante l’inaugurazione della sezione italiana che i due paesi sono nelle colonie per una comune missione civilizzatrice: “Défendre et étendre la civilisation, c’est travailler pour l’Occident […] C’est à Rome que nous devons cette conception, qui m’est chère entre toutes, du régime du protectorat, cette grande leçon de tolérance, de respect des traditions, des costumes, des langues et même du maintien de leur régime propre chez tant de peuples associés successivement à l’Empire”.2
Alessandra Ferrini a circa metà del suo video mostra una foto della nota Stele di Axum, depredata in Etiopia e posta allora davanti al Ministero delle Colonie a Roma (attuale Palazzo della FAO). L’immagine mostrata nel video porta una didascalia dell’epoca che recita: “A.O.I. Monolite, resti di antica civiltà europea”. L’artista sovrappone alla foto con la scritta la sua voce che spiega che la stele non era affatto di periodo romano ma risale appunto alla antica cultura etiope di Axum (Santi, 2014) e aggiunge: “Questa didascalia ci ricorda che l’impulso coloniale era fomentato da ignoranza e manie di grandezza. Nel 1937 nel fulcro di questa allucinazione collettiva, uno degli obelischi fu portato a Roma, per celebrare la fondazione del “Nuovo Impero Romano” che fu creato da “l’Uomo Nuovo”, la prima generazione di italiani cresciuta durante il regime e interamente educata nelle scuole fasciste”. Poco oltre Alessandra mostra l’immagine del Mausoleo dedicato al generale fascista Rodolfo Graziani, stragista denominato “il macellaio di Addis Abeba”, eretto nel 2012 con soldi pubblici attraverso un inganno burocratico, nel suo paese di nascita ad Affile vicino Roma. Mostrando questo cubo di mattoni con la scritta fascista “Onore e patria” che lo sovrasta, Alessandra recita ancora con la sua voce fuori campo: “Quasi 70 anni di politiche amnestiche hanno alimentato l’Uomo Nuovo e dimenticato le sue vittime”. In questa sequenza è raccolto il senso di quanto sin qui detto sulla costruzione di una italianità strettamente legata alla questione coloniale. Mussolini costruisce non tanto un semplice italiano, ma plasma letteralmente un popolo di fascisti italiani, che non a caso gli daranno il loro consenso in grande maggioranza e per quasi trenta anni. Questi italiani non nascono con Mussolini, ma sono coltivati in primis dalla cultura coloniale post unitaria, liberale sulla carta, che getta le basi per la visione megalomane di una cultura millenaria culla di tutte le civiltà del Mediterraneo, che il duce enfatizzerà trasformandola da una visione solo accademica e colta a una popolare e di massa.
Ancora oltre Alessandra, dopo aver parlato del genocidio operato dagli italiani nelle colonie con il lancio delle bombe gas, primi nella storia a farne uso sugli esseri umani, si pone una questione finale: “Una domanda si fa incalzante: l’Uomo Nuovo sta forse colonizzando la nostra memoria? È la sua faccia che affiora nella mia immagine riflessa?”. Questa non è una delle domande ma forse “la” domanda che si impone oggi. La questione posta dall’artista non è chi era l’Uomo Nuovo di Mussolini, ma in che modo quell’Uomo Nuovo riflette l’immagine dell’italiano di oggi.
“It’s a poor sort of memory that only works backwards.”
Lewis Carrol, Through the Looking-Glass.
Alcune memorie sembrano essere inarchiviabili. Soprattutto se si tratta di un passato traumatico, c’è sempre qualcosa che sfugge “tanto alla memoria che all’oblio” (Agamben 1998, p. 147). All’inizio del video di Alessandra Ferrini, il signor Giovanni Ughi mostra una scatola di fotografie di suo padre, foto della guerra d’Etiopia, dicendo che quelle foto erano molte di più, ma probabilmente molte sono state disperse tra scatole e cassetti di altri membri della famiglia, o perse nei vari traslochi. La stessa scatola conservata da lui, racconta l’artista, sembrava essersi persa, ci sono voluti dei mesi per trovarla. È un materiale che sembra bruciargli fra le mani. Nel mostrare quelle foto di suo padre, che non c’è più, parla di storie brutali, violente, che per i fascisti erano sicuramente bei ricordi, ma non per lui, che non era interessato alle storie di guerra. Racconta le vicende per le quali suo padre aveva aderito al Fascismo, e poi al Movimento Sociale Italiano, mentre lui si era dissociato dalle idee paterne, accennando a un conflitto che tuttavia non racconta fino in fondo. Il suo racconto è frammentato, pieno di blocchi e di reticenze, ogni volta che cerca di descrivere quelle immagini, le storie che probabilmente ha ascoltato da suo padre, continua a sottolineare come quegli eventi brutali, che per i fascisti erano la prova della loro potenza, per lui erano solo “brutti”. Un archivio disordinato e disorganico, un racconto pieno di disagio, una memoria che sembra non riuscire a trovare posto.
Del resto, l’archivio stesso come istituzione, come dispositivo mnemonico, è prodotto da una grammatica dell’oblio. Un oblio selettivo che, nello scegliere cosa mostrare, al contempo lascia qualcosa nell’ombra, un punto di vista o una versione della stessa storia che resteranno non visti, a beneficio di una narrazione chiusa e pacificata. Queste politiche amnesiche, come le definisce Alessandra Ferrini, per lungo tempo hanno costruito a livello istituzionale il vuoto di coscienza (o la distorsione dell’immaginario alla “Italiani brava gente”) della cultura italiana rispetto al proprio passato coloniale, con evidenti conseguenze sull’oggi. Gli archivi sono dunque pieni di vuoti. Vuoti di memoria, vuoti di rappresentazione. Ma questi vuoti sono pieni di immaginari, di affetti complessi, di impreviste e disordinate rammemorazioni. Proprio per questa ragione, questa sorta di oblio archivistico DEVE essere interrogato criticamente nella sua storia e nelle narrazioni (e nelle politiche) che ha prodotto. Ed è questo il gesto che compiono i registi di questi tre video, come artisti contemporanei che hanno a cuore un posizionamento critico di fronte alle strategie di costruzione e rappresentazione delle identità culturali nel presente: aprire gli archivi pubblici o privati, istituzionali o intimi, che hanno definito l’italianità in relazione all’altro coloniale, e smascherare il potere che quelle grammatiche egemoniche esercitano ancora sull’oggi.
(Per fortuna di certe cose non ci si ricorda da soli)
A partire dalla consapevolezza che non esiste coincidenza fra coscienza e memoria, i vuoti di memoria che l’archivio contiene oscillano tra almeno due processi. Uno reprime la memoria difficile (senza tuttavia rimuoverla dalla coscienza), spostando e sostituendo gli affetti contraddittori ad essa connessi in un altro ambito, apparentemente lontano. Le pose e i discorsi coloniali diventano così dei fiumi carsici, che riemergono più lontano nel tempo e nello spazio, senza preavviso, come nella costruzione del monumento di Affile a Graziani e nelle narrazioni degli Affilani su Graziani come “eroe”, mostrate da Valerio Ciriaci; o come, in Asmarina, nella sfiducia che sente Elena, una giovane mamma italiana di origini eritree, ogni volta che viene considerata come “straniera”, che non viene “riconosciuta” come italiana. Eppure già negli anni ’80 la comunità Habesha a Milano era estremamente radicata nel territorio. Elena si commuove e si diverte sfogliando, insieme a sua madre e a suo figlio, il libro fotografico Stranieri a Milano, di Lalla Golderer e Vito Scifo, dove riconosce la sua famiglia e molti suoi amici. Si diverte ad ascoltare Asmarina, famosa canzone degli anni ’30, dedicata alle “bellezze” eritree, ironizzando sullo sguardo esotizzante degli italiani, mentre insieme a Medhin e Alan ricorda un’altra versione della stessa canzone, cantata a Bologna in una delle edizioni del Festival che gli Eritrei hanno organizzato lì per quasi vent’anni, dal 1973 al 1991. Anche attraverso i racconti di altre persone che alternano le loro voci in Asmarina, appare evidente come il contesto sociale e urbano in Italia sia da tempo fortemente interculturale, e come questi “altri” siano completamente inseriti nel tessuto identitario e produttivo della città: Helen Yohannes, una ragazza italo-etiope che gioca a calcio e sviluppa progetti di sport in Etiopia, mentre aiuta la comunità Habesha della sua città, soprattutto i nuovi arrivati; Asli Haddas, titolare di un ostello-caffè letterario a Milano; Million Seyum “Dj Milly”, che organizza un dj set estemporaneo in un parco milanese, e sorride del suo sentirsi “troppo milanese”; Kidane Gaber, ristoratore bolognese che racconta come Bologna durante i giorni del Festival ospitasse migliaia di Eritrei che arrivavano da tutto il mondo e per un mese restavano in quella “Asmara italiana” a parlare di politica e fare festa.
Asmarina restituisce un’immagine parziale, un’impressione, come dicono Alan e Medhin3, che non pretende di essere esaustiva né definitiva, ma intende aprire gli occhi, avviare una discussione, a partire da uno spaccato reale di vite quotidiane. Lo fa con fermezza, mostrando quello che molti italiani sembra non vogliano vedere (le ragioni per cui le persone, in particolare gli Eritrei, scappano dalla loro terra, spesso rimangono invisibili e inascoltate, come dice Tsegehans Weldeslassie, raccontando la sua storia di migrazione forzata), ma anche con leggerezza e senza mai alcuna retorica, mostrando il piacere e le allegrie disseminate nella vita quotidiana.
Le persone che si trovano costrette a lasciare la loro terra si spostano nella maggior parte dei casi per disperazione, perché non c’è un’altra possibilità per restare vivi, certamente, ma dentro ognuna di quelle disperazioni c’è una aspirazione. E inoltre DOBBIAMO essere in grado di dare per scontato che le persone (tutte le persone) hanno il diritto di spostarsi, se lo desiderano, anche se non rischiano la loro vita per colpa di un regime dittatoriale e oppressivo, ma semplicemente perché hanno un progetto, una aspirazione, come del resto è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e come stanno facendo moltissimi giovani italiani da diversi anni (comprese anche persone di seconda e terza generazione). Ha ragione l’antropologo Arjun Appadurai quando afferma che non solo la ricchezza, ma anche la possibilità di aspirare è distribuita in maniera diseguale nel mondo: “come qualsiasi altra capacità culturale complessa, fiorisce e sopravvive solo se può essere praticata, utilizzata ripetutamente ed esplorata mediante l’elaborazione di ipotesi o contestazioni. Dove le opportunità di formulare ipotesi e contestazioni rispetto al futuro sono limitate (…) ne consegue che la capacità stessa di avere aspirazioni risulta relativamente meno sviluppata” (Appadurai 2011, p. 23).
La capacità di aspirare è una pratica del possibile, una capacità politica, e in un contesto contemporaneo (come quello italiano) di forte difficoltà a guardare l’ “altro” e la realtà stessa nella sua evidente trama interculturale, diventa cruciale operare una trasformazione dei termini del riconoscimento, e una esplicita politica della visibilità. Anche per questo sono tanto importanti video come quelli di Medhin e Alan, di Alessandra e Valerio, perché rendono visibile una realtà che a volte ci si rifiuta di guardare.
Gli Italiani a volte sembrano avere uno sguardo strabico, con un occhio aperto sul proprio stretto vivere quotidiano, e uno girato di là, che proprio non vuole vedere. E questo è il secondo processo alla base di quell’oblio archivistico di cui si parlava poco sopra, che attua una strategia di evitamento, tesa a un voler-non-sapere, non-vedere o non-ricordare: è quello che Paul Ricoeur definisce “oblio di fuga” (Ricoeur 2004).
Questi tre video, ciascuno in un modo diverso, agiscono proprio questa politica della visibilità: incarnano la necessità non solo di guardare e ascoltare le storie di questi che non smettiamo di considerare “altri”, ma anche di “raccontare altrimenti” noi stessi, di lasciarci noi raccontare dagli altri, provando a guardare noi stessi da un altro punto di vista, provando ad ascoltare la nostra storia – anzi di più, alcuni eventi fondanti della nostra storia, che ci hanno definito profondamente nella nostra identità collettiva – da un punto di vista estraneo al nostro e a quello della nostra comunità (Ricoeur 2004). Così If Only I Were That Warrior si apre con la voce di Mulu Ayele che, su Radio Etiopia, racconta la storia recente della costruzione del Monumento a Graziani ad Affile, e la sua voce puntella la narrazione durante tutto il documentario. Allo stesso modo ci sentiamo raccontare la storia straziante del massacro di Debre Libanos da un anziano che ne fu testimone oculare, quando era appena un bambino. Forse così riusciremo finalmente a vedere anche noi stessi come “altri”.
(Noi tutti siamo i monumenti)
Medhin e Alan incontrano Michele Lettenze, nato da madre eritrea e padre italiano (che tuttavia non l’ha mai riconosciuto perché era già sposato in Italia), rimpatriato negli anni ’60 dall’Eritrea in Italia, con un passaporto italiano. Lo incontrano a Porta Venezia a Milano, fuori da un bar, lui accenna il motivo di Asmarina, la canzone che darà poi il titolo al documentario, e i suoi amici sorridendo dicono: “lui è il nostro archivio”. E’ così anche per Nicola De Marco, nel documentario di Valerio Ciriaci: figlio di italiani che, dopo essere stati per un periodo coloni fascisti in Etiopia a seguito di suo nonno Nicola Scavina, una volta visto sparire il “sogno africano”, si sono affidati al “sogno americano”, e all’inizio degli anni ’60 sono emigrati negli Stati Uniti, dove vivono tuttora in una villetta col prato all’inglese in New Jersey.
Nicola ascolta i racconti dei suoi genitori su cosa avesse significato per loro l’Etiopia e più in generale il Fascismo, e porta avanti un progetto, elaborato in seguito alla notizia del monumento a Graziani eretto ad Affile: “in quanto nipote di coloni fascisti sento il dovere e l’obbligo di far conoscere questa ingiustizia (…). Voglio cercare di fare qualcosa incontrando gli etiopi e capire quale giustizia si aspettano e cosa fare in concreto, ad esempio abbattere il monumento a Graziani”. L’incontro tra Nicola e Kidane Alemayehu, Direttore esecutivo della Global Alliance for Justice e rappresentante della comunità diasporica etiope, è significativo: insieme organizzano un convegno internazionale negli Stati Uniti sulla questione della riconciliazione tra Italia e Etiopia, e delle proteste davanti all’ambasciata italiana per il monumento di Affile. Kidane nel film dice di trovare incredibile che loro due stiano lavorando insieme per dare giustizia all’Etiopia: il nipote di un colono fascista, e il nipote di un uomo ucciso in Etiopia nella resistenza al colonialismo che collaborano insieme “come membri dell’umanità”. Si tratta di dare giustizia non solo all’Etiopia, e questo è cruciale, ma anche all’Italia, che così può iniziare a riappropriarsi del proprio passato, della propria identità.
L’incontro tra Nicola e Kidane segnala come (anche) il colonialismo italiano non sia stata una faccenda che ha riguardato solo le colonie, o solo il “bel paese”. Il colonialismo italiano è parte di un processo globale e transnazionale, fin dai suoi inizi in epoca liberale. Basta ricordare che all’indomani dell’unità di Italia, milioni di Italiani hanno iniziato ad emigrare, all’interno dei confini nazionali da sud a nord, e al di fuori, in nord-Europa, nelle Americhe, in Australia. Fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani, anche attraverso le imprese coloniali, che fornivano il puntello di “alterità” necessario all’identificazione e alla costruzione del “sé”, ma questa “italianità” ha sempre ecceduto i confini nazionali. Nessuno stupore dunque per l’incontro tra Nicola e Kidane, per il loro attivismo rispetto alla vicenda del monumento a Graziani in un piccolo paesino del basso Lazio: questa vicenda è solo apparentemente locale, ma è evidente che, di nuovo, c’è bisogno di rendere visibile tutto questo, per poter avviare una presa di coscienza.
(Non più l’esotico ma l’endotico4)
Tutti e tre i documentari lasciano emergere la trama delle storie, plurali e disseminate, che spesso finiscono nella trappola dell’oblio archivistico, con il loro carico di micro-saperi e di differenti sguardi. La memoria di questi “archivi incarnati” è viva e complicata, presa dentro affetti complessi e difficili da elaborare. Sia che si tratti di una memoria diretta (come nel caso di Michele Lettenze), sia che si tratti di una post-memoria (come nel caso di Nicola De Marco), in entrambi i casi siamo di fronte a delle letture alternative del passato, o a tutto un processo aperto di negoziazione, di interpretazione di un passato che non è stato ancora pienamente elaborato, e si scontra con gli affetti personali, con una memoria istituzionale e con una memoria sociale, cercando di articolare quello che è stato inibito nelle altre narrazioni. Abbiamo già scritto della rimozione della violenza delle azioni coloniali attraverso strategie di estetizzazione o esotizzazione o mitizzazione o infantilizzazione del sé o dell’altro, a seconda delle occorrenze; strategie attive sia a livello degli archivi pubblici che privati. Si tratta dunque di attivare un processo di riappropriazione di una memoria intima, famigliare, e insieme culturale, che procede per fratture, de-costruzioni, dissociazioni, identificazioni, tentativi di costruire un senso, necessariamente parziale e situato, grumi che a volte non riescono a sciogliersi, nostalgie, stupori, indignazione, sensi di colpa. È in questo senso un ri-membrare: un cercare di rimettere insieme diversi pezzi di sé, lasciando bene in vista le suture. Questo processo di riappropriazione della memoria, questo intrecciare l’intimità dei ricordi personali con le politiche istituzionali di memorializzazione, è una forma di “riparazione”: una “terapeutica della memoria ferita” (Ricoeur 2004) che non mira a sanare nel senso di guarire, ma nel senso del prendersi cura.
Quale che sia la loro grammatica, le politiche amnesiche di cui parla Alessandra Ferrini non sono “vuoti a perdere”. I vuoti di memoria che riguardano la nostra storia coloniale e la nostra identità culturale sono “vuoti a rendere”: devono essere “restituiti” a una comunità che possa prendersene cura, che possa riutilizzarli, rendendoli produttivi in un modo differente.
In Negotiating Amnesia, Annamaria, figlia di Mariano Pittana, mostra l’archivio fotografico di suo padre, architetto e fotografo amatoriale, che dopo aver ricevuto degli incarichi dal governo italiano a Addis Abeba, nel 1937 apre uno studio lì insieme a suo fratello. Annamaria è perfettamente consapevole del valore di questi documenti del suo archivio familiare, e li dona agli Archivi Alinari, a Firenze. Insiste molto sull’importanza del dono di questi materiali ad archivi pubblici, per il loro valore storico, e per la possibilità di emancipare le nuove generazioni: “donare vuol dire salvaguardare le cose nella loro dignità (…) il ricordo non può essere speculativo. I ricordi, gli oggetti, le cose, vanno donati”. Gli archivi pubblici a loro volta sono pronti a restituire questi documenti alla comunità, ad aprire una riflessione, un’analisi, una conversazione? Certamente la mediazione dello sguardo di artisti come Valerio, Alessandra, Medhin e Alan è cruciale, proprio per consentire che questa restituzione “pubblica” non sia una definitiva sepoltura nell’oblio, ma una circolazione, anche conflittuale, di discorsi. Non è un caso se tutti e tre questi video sembrano quasi dei lavori archeologici, di scavo in profondità e in superficie, con un taglio fortemente antropologico, legato a una forte condivisione della narrazione che a tratti diventa quasi polifonica, a una continua dislocazione del punto di vista, segno della felice contaminazione tra sguardo artistico e sguardo antropologico – di una antropologia “rimpatriata”, riflessiva e tesa a una forte critica culturale.
I nostri vuoti di memoria – che al contrario come abbiamo visto sono, a ben guardare, colmi e densi – possono diventare vuoti a rendere, possono essere restituiti a una comunità che certamente è ancora lontano dall’aver elaborato il proprio passato e la relazione che esso ha con la propria identità nell’oggi. Il dono è promessa e contratto, responsabilità e posizionamento etico/politico (Taussig, 2008). Il dono di questi archivi intimi, affettivi, alla comunità è cruciale non perché possa cancellare un debito, o ricucire una ferita, ma perché può attivare una presa di coscienza, una riappropriazione di memorie difficili, l’emersione di grumi contraddittori, e soprattutto un posizionamento nell’oggi.
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1 In Italia da decenni lavorano su questo tema la coppia di artisti Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian che hanno al loro attivo una enorme produzione sul colonialismo italiano. Occorre poi segnalare i film Inconscio Italiano del 2011 di Luca Guadagnino e Va Pensiero di Dagmawi Yimer del 2013. Il video di Bridget Backer The Remains of the Father – Fragments of a Trilogy (Transhumance) del 2011. In ambito performativo: Nella Tempesta e Caliban Cannibal dei MOTUS; Quattro danze coloniali viste da vicino, Robinson e Impressions d’Afrique, degli MK.
2 Guide Officiel de la Section Italienne à l’Exposition Coloniale, La Publicité De Rosa, Paris 1931, T.d.r. ” “Difendere ed estendere la civilizzazione, è il lavoro per l’Occidente […] È a Roma che noi dobbiamo questa concezione, che mi è cara più di tutte, del regime di protettorato, questa grande lezione di tolleranza, di rispetto delle tradizioni, dei costumi, delle lingue, e anche del mantenere il loro regime tra molte dei popoli che si sono associati all’Impero solo in un secondo momento.
3 Cito le parole dei registi durante la presentazione di Asmarina a Roma, presso il Teatro Palladium, curata da Leonardo De Franceschi e da Routes Agency, venerdì 11 marzo 2016.
4 “Forse si tratta di fondare finalmente la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà cercando dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico” (Perec, 1994: 13).
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Riferimenti bibliografici
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