«… e mi parve che
questo potere evocativo degli oggetti
alleviasse la mia inquietudine»
(Orhan Pamuk)
L’arte della memoria ci parla, solitamente, della morte, del vuoto e di tutte le possibili sensazioni riferite al passato. Si tratta di sensazioni umane legate a processi, quasi mai ad oggetti: questo perché pare che la memoria non abbia un oggetto da studiare, ma ha processi da comprendere. Tutti gli oggetti che ci circondano hanno una storia e non sono solo cose: contengono interi universi di ricordi, in cui sono depositate tracce dell’esistenza di ogni persona. Rappresentano forme del quotidiano ma portano il segno di una sottrazione: raccontano un’assenza, il vuoto lasciato da chi non c’è più.
Vuoti di Memoria è una ricerca, una raccolta di storie ed oggetti appartenuti a vittime innocenti di camorra, con l’obiettivo di conservare e conoscere un aspetto delle memorie “difficili”, attraverso il racconto dei familiari e degli oggetti indicati da loro, nel vissuto a cui sarebbero associati.
Sono segni che raccontano le storie di vittime innocenti, oggetti semplici, carichi di intensità di momenti vissuti, che continuano a vivere nella memoria dei loro familiari. I ricordi tendono inevitabilmente a sbiadirsi con il tempo, ma restano vividi se legati a degli oggetti in particolare e sono questi che, mediante un processo di tipo associativo ed emotivo, ci tengono ancorati alle nostre memorie.
Tuttavia gli oggetti sono spesso quelle tracce fotografate come ricordi individuali, capaci di trasportare indietro nel tempo e nello spazio, portando a rivivere non solo pure immagini, ma suoni, odori, sensazioni tattili di un momento. Riuscire a farli emergere dal passato è risvegliare un’emozione, una commozione, un insieme di percezioni depositate lontano nella mente che compongono la realtà per come si presenta a noi dal punto di vista sensoriale.
La psicologia della memoria considera il ricordo come la risultante di sistemi di memoria diversi e in interazione tra loro, riconducendo spesso ai temi della morte, del vuoto e di quelle sensazioni riferite al passato, dispiegando le sue linee divergenti a partire da ciò che cancella. L’omesso, il rimosso e il non-detto costituiscono il punto di forza tra il ricordo e l’oblio. Così ci si trova davanti a un duplice aspetto, positivo e negativo, in cui si prova a riempire uno spazio che ci ferisce per la sua vuotezza, ma lo cerchiamo quando ci troviamo in situazioni di eccesso di presenze.
Nelle interviste ai familiari delle vittime condotte durante questa ricerca, ad esempio, mi sono ritrovata davanti principalmente a due reazioni: custodire in maniera meticolosa e quasi maniacale tutti gli oggetti appartenuti alla persona che non c’è più, cercando in questo modo di riempire un vuoto, oppure far scomparire alla vista tutto ciò che riporta alla memoria quella mancanza. Nell’ultimo caso, i ricordi angoscianti o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza, per ragioni difensive, passando per un processo di “rimozione”. Ciò avviene rispetto alle memorie definite “traumatiche”, che si distinguono dalle altre tipologie di memorie perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti: sono immodificabili nel tempo e vengono portate alla luce tramite incubi e flashback, una palese dimostrazione di tali emersioni inconsce.
Eppure, provare a tenerci legati alla corda della memoria, cercando nostalgicamente (se non anche disperatamente) di aggrapparci all’altro divenuto oramai assente, rappresenta il bisogno di evitare di lasciarsi risucchiare dal vuoto.
Il paradosso della nostalgia che proviamo per il passato è che ricordiamo e raccontiamo le cose molto più belle di come non siano state. Spesso non si vuole accedere alla sfera della consapevolezza per ragioni difensive, ma superato il processo di rimozione, volontariamente si cerca di far emergere la propria memoria come strumento per sopravvivere. Sarebbe auspicabile, ma forse umanamente impossibile, riuscire ad arrivare all’attimo prima del dolore e ricomporre quella gioia ma ci sono cose che abbiamo irrimediabilmente perduto, per cui abbiamo la tendenza a dimenticare ciò che reputiamo scomodo o doloroso.
Stanley Cohen, un biochimico statunitense, scriveva: «La sofferenza rimossa non è veramente dimenticata, rimane là da qualche parte, provocando distorsioni, stati patologici interiori e un comportamento simbolico generalmente deteriorato» [1].
Lo spazio a cui si riferisce Cohen è naturalmente l’inconscio, nel quale i contenuti emotivi dell’evento traumatico, diversamente da quanto avviene per il ricordo cosciente, sembrano mantenere la sua forza originaria. Questi emergono attraverso manifestazioni somatiche, causate da un ricordo, ed è sufficiente uno stimolo semplice per attivare emozioni o sensazioni legate a quell’esperienza. Uno impulso che può nascondersi in un oggetto comune e quotidiano.
Orhan Pamuk, in Il museo dell’innocenza, afferma che l’unica cosa che rende un dolore sopportabile è possedere un oggetto, retaggio di quello che definisce come “attimo prezioso”.
Gli oggetti che sopravvivono ai momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà. Questo avviene perché per ricordare occorrono segni, come se la memoria avesse bisogno di “supporti”.
Proprio sulla relazione soggetto-oggetto, una riflessione interessante che l’antropologo Daniel Miller pone è quella di riuscire a dare un valore diverso alle singole cose e che, di norma, più vicini si è alle cose più lo si è alle persone. Le “cose” diventano quindi l’espressione delle relazioni che l’individuo instaura con il mondo che lo circonda e con le persone che riempiono il suo spazio più intimo [2]. Lo studio degli oggetti e dei significati che associano le persone che ci vivono insieme, rappresenta un modo per conoscere gli aspetti culturali, ad esempio, di una famiglia e in che modo sono diventati poi un reperto o reliquia, perché vi si è creata una relazione così potente con essi.
Per operare una riflessione sulle forme di trasmissione della memoria, sull’importanza di preservare, conservare e costruire ciò che viene definito “processo memoriale”, ho ritenuto importante uno spunto tratto da Ogni cosa è illuminata, libro di Jonathan Safran Foer e film di Liev Schreiber, in cui si racconta una ricerca continua delle cose. Quello che il protagonista Jonhathan cerca di costruire è un viaggio intimo alla scoperta delle sue radici, sulle tracce della memoria del nonno ebreo sfuggito a un rastrellamento nazista ed emigrato nel nuovo mondo. Il protagonista, per tutta la vita, conserva tutto ciò che riguarda la sua famiglia in piccole bustine trasparenti, raccogliendo giorno per giorno tutti i pezzi che potranno servire nella ricerca, da quelli smarriti a quelli ritrovati o regalati. Non si tratta quindi di un collezionista, ma di una persona che cerca di salvaguardare ad ogni costo la propria memoria. E quando gli viene chiesto: “Perché lo fai?”; risponde Jonathan: “forse perché ho paura di dimenticare!”.
In Vuoti di Memoria ho cercato quindi di riformulare un significato nuovo e, se possibile, più profondo della sola rappresentazione del lutto, partendo dal chiedermi cosa significasse avere un vuoto di memoria e come si mettesse in moto un processo di rimemorazione.
Durante il percorso di ricerca ho cercato di capire cosa e come vive chi “resta”, con l’intento di mettere da parte un metodo classico di fare memoria e facendo in modo che non si verificasse una ri-narrazione o spettacolarizzazione delle memorie difficili.
Ho cercato di mostrare una ferita, lasciando un vuoto, così che le persone possano chiedersi il perché e così che anche gli “invisibili” di queste storie potessero tornare ad essere visibili. Dunque, lo scopo di questo percorso artistico è quello di dis-velare questa forza di mantenere in vita, con altri canoni e linguaggi diversi, la presenza dentro un’assenza e capire: “Perché conserviamo gli oggetti? A cosa ci servono realmente?”
E quando si ricostruiscono e diffondono queste storie, non bisogna mai dimenticare che si tratta di drammi privati e che forse è anche per questo che lo si fa: per la paura di dimenticare.
Sottile e veloce come un motorino nel quartiere, sfreccio negli interstizi dei denti così come fanno le Vespe per i vicoli della Sanità.
Genny ha diciassette anni, è un bellissimo ragazzo napoletano e, come tutti i giovani alla sua età, ci tiene a fare bella figura quando va in giro. Per questo tutte le sere, dopo aver cenato, viene in bagno, apre il contenitore e strappa un pezzo di filo interdentale. Io allora, proprio perché ci tengo che faccia una bella figura, mi muovo in maniera elegante tra i suoi denti, cercando di non far sanguinare le gengive.
Spesso Genny mi lascia il contenitore aperto e viene ogni volta richiamato dal papà Tonino perché impari a tenere in ordine le cose: per crescere bene ed educati bisogna avere cura degli spazi comuni. Noi fili interdentali vediamo di continuo persone entrare ed uscire dal bagno, siamo degli oggetti che incamerano tanta memoria intima. L’ultima volta che ho incrociato Genny è stato il 6 settembre del 2015. Era uscito di casa da poche ore, solo che il rione Sanità non è come tutti gli altri rioni: qui i clan rivali si fronteggiano nello stesso territorio per gestire le piazze di spaccio. Le chiamano “stese”: uno brandisce in sella ad un motorino una pistola e spara all’aria colpi all’impazzata per dimostrare chi comanda.
Genny non è emigrato per lavoro, non è partito per amore o per fare il militare: è morto una sera di settembre per mano della camorra e della sua iniqua violenza.
Ho detto in precedenza di essere un oggetto intimo. Adesso sono diventato un ricordo intimo, conservato insieme a tanti altri oggetti dalla famiglia Cesarano. Un insieme di cose che hanno a che fare con odori, emozioni, piccoli gesti quotidiani; come quello di pulire i denti prima di andare a letto con il filo interdentale.
Dall’alto della mensola dove mi trovo mi capita continuamente di vedere bicchieri, posate, piatti essere disposti sulla tavola. Io invece resto sempre qui, su questa mensola ad appizzare il mio enorme orecchio, che non è altro che il manico che viene stretto tra le mani per bere il latte di primo mattino, quando si fa colazione.
Sono un regalo, fatto da Salvatore alla nipotina, figlia di sua sorella Agnese. Un gesto di affetto, un pensiero felice, per una piccolina di due anni che potrà fare colazione con una tazza che ha i colori delle carte delle barrette di cioccolato. E ricordo il sorriso di Agnese quando mi ha guardato, come a dire che ero un regalo buffo ed insolito. Lo ricordo bene quello sguardo perché è lo stesso di quando ogni tanto vengo alzata dalla mensola per essere spolverata. E io penso, ogni volta, che sia il mio turno di finire sulla tavola, il momento in cui sarò riempita di latte e cereali.. e invece no. È soltanto una spolverata da fare nei giorni di pulizia della casa. Ci ho messo del tempo a capire le ragioni di questo gesto che a me suonava come una ingiustizia. La verità è che sono un segno, un simbolo di un ricordo quotidiano, di un gesto d’amore e di premura verso questa famiglia. Poco dopo quel giorno tutto è cambiato: Salvatore è stato ucciso, a soli ventinove anni, in un agguato di camorra perché guidava una macchina simile ad un rivale di un clan avversario. E ha perso la vita ad Ercolano, il 13 novembre del 2009, mentre stava per raggiungere la sua fidanzata. Da quel giorno mi sono trasformata da oggetto ordinario in oggetto straordinario. Ora sono qui, su questa mensola, sopravvissuta a tanta confusione, ma mai più utilizzata. Come se fossi una bomboniera, o forse molto di più: sono un bisogno di giustizia, una ferita lasciata aperta, un ricordo pesante esposto su una mensola. Sono un punto interrogativo, una domanda irrisolta: “perché?”.
Tutte le cose sono ancora lì, nello stesso identico posto: il cellulare, lo spazzolino e la radiolina ancora in bagno, una banconota da dieci euro legata ad un filo. Le cose nella stanza, così come in tutto il resto della casa, sono rimaste uguali a prima.
Togliere tutto, muovere anche solo un singolo oggetto, vorrebbe dire mandarlo via, spostare qualcosa senza il suo permesso, escluderlo dalla vita di sua sorella, di suo padre, di sua madre.
Le cose, con il tempo, perdono l’odore. Noi cappelli no, ci portiamo addosso l’odore della persona che ci ha scelto. Spesso mi chiedo perché sono attaccato ad una valigia. Tutto lascerebbe pensare ad una partenza, tutto invece resta tremendamente immobile.
Sono il cappello di Ciro, un ragazzo di diciannove anni che oggi ne dovrebbe avere ventitré. Dal 7 giugno del 2016 resto qui, appeso ad una valigia. Ciro era come suo solito nel circolo del rione a giocare con gli amici, poi la furia di motorini, la paura, la fuga, i colpi di pistola e lui, che si china a terra per raccogliere gli occhiali, viene colpito da diversi colpi di arma da fuoco.
E io resto appeso a questa valigia pronto a partire per un viaggio che purtroppo non inizierà: la possibilità di vedere il mondo, di cercare magari fortuna altrove, lontano da una terra violenta e disgraziata; o chissà magari viaggiare per poi ritornare in città, in un territorio che nonostante tutto non si smette di amare.
Tutto del resto in casa Colonna è ancora in questo limbo, in questa attesa: il cellulare che viene caricato ogni giorno per tenerlo acceso e per sentire la sua voce, i suoi messaggi vocali che ancora oggi fanno ridere; il diario delle decine di lettere di Adelaide che contengono tutte le parole che avrebbe voluto dire a suo figlio.
Sono un cappello, una storia e il segno di una presenza dentro un senso così forte di assenza.
A cazzotti. Uno, due. Schiva. Dritto, rovescio. Schiva.
Nella vita ho sempre fatto questo: coprire e colpire, incassare e attaccare. Fino al gong di ogni round, fino alla fine di ogni allenamento. Con lui mi sono allenato, ho combattuto, sono cresciuto: Gianluca è forte, agile, schiva i colpi e li restituisce. É un campione e io sono fiero di essere il suo guanto, di proteggere le sue mani dal contatto con l’esterno. Anche se ogni tanto le sue mani odorano di lattice e io sapevo che per qualche ora ero stato sostituito. Si, perché Gianluca oltre ad essere un eccezionale boxer è anche un tatuatore. Un giovane appassionato all’arte dell’inchiostro inciso sulla pelle per lasciare segni, simboli, ricordi. Gianluca crea i disegni perché ama studiare le immagini, i loghi. Proprio per questo si è rifiutato in quei giorni di febbraio di cedere alle minacce di chi gli diceva che non poteva tatuare l’immagine di Lavezzi, campione argentino che giocava nel Napoli in quegli anni, un idolo in città. La camorra è talvolta talmente arrogante da pensare addirittura di mettere bocca sulla libera espressione artistica. I clan mandati da un tatuatore rivale di Gianluca arrivano nel suo Zendark Tattoo per minacciarlo, ma lui reagisce e rispedisce al mittente le provocazioni violente nei suoi confronti. Quel giorno non ero con lui, ma posso sentire le nocche picchiare e reagire duro, come quando erano dentro questi guantoni. Tre giorni dopo, il 2 febbraio, è stato ucciso brutalmente da colpi di pistola alle spalle. Gianluca non ha smesso di boxare perché mi ha appeso al chiodo: ha smesso per la crudeltà della camorra. Ora il lattice si è rattrappito, il tessuto esterno è diventato rugoso per il tempo e l’umidità.
E io sono un sogno spezzato, un guantone vuoto, ma Susy, sua sorella, mi conserva gelosamente. Sono un ricordo pieno di intensità, porto i segni del sudore di Gianluca sul ring, del rumore sonoro dei suoi pugni contro l’avversario, della sua tenacia e della sua forza. Ma anche della sua onestà e della sua voglia irriducibile di sentirsi dalla parte giusta della vita.
È una questione di punti di vista. Il mondo può apparire in modo diverso a seconda delle lenti che si indossano. Scurisco per di più: scurisco il sole, i suoi raggi riflessi, le cose. Una lente da sole a Napoli ha poi un suo prestigio particolare. In una città in cui il sole e il mare giocano continuamente partorendo colori e sfumature, per mostrare la meraviglia che questa città millenaria offre ai suoi abitanti. A Domenico piaceva indossarmi in ogni situazione: in un certo senso, ero il filtro attraverso cui guardava il mondo. Ero lì sul suo naso, nelle giornate di lavoro così come quando si doveva partire per andare al mare. Sono una lente di periferia, impressa nel ricordo delle persone come una immagine: come una bambina felice e fiera dell’uomo che la porta sulle spalle e la tiene stretta a sé. Capita a molti occhiali poi di finire in soffitta, di essere smarriti o col tempo consunti o graffiati. Io resto invece così intatto, senza essere rovinato dal tempo e dall’usura. Resto così dall’11 novembre del 1989. Mentre il mondo cambiava, a Napoli la camorra continuava a sparare ferocemente. E così chi vive a Ponticelli, un quartiere periferico ed operaio, pieno di lavoratrici e lavoratori onesti finisce per essere travolto dagli interessi dei clan di camorra. Vogliono decidere tutto: del futuro e della vita delle persone, dello sviluppo di un intero quartiere. Quel giorno un commando armato del clan Sarno
decide di organizzare una strage al bar Sayonara per un uccidere il boss del gruppo criminale rivale. Assieme a Domenico perdono la vita Gaetano Di Nocera, Salvatore Benaglia e Gaetano De Cicco, vittime innocenti di quella che sarà chiamata “la strage di Ponticelli”.
E io? Io sono un ricordo di quello che è avvenuto, di un momento felice e tenero, fatto di occhi riflessi in occhiali di sole, del senso di sicurezza e allo stesso tempo di una nostalgia senza fine. Sono solo un occhiale da sole rimasto chiuso nella sua custodia bianca. Eppure in questi riflessi ci puoi leggere qualcosa di più di un semplice ricordo. Ci puoi leggere una storia.
Ho sempre immaginato la mia esistenza disperso in una nuvola, tra le nuvole.
Mi sono sempre più sentita a mio agio in una boccata che rinchiusa in un pacchetto. Quando ho pensato agli ultimi giorni di esistenza, ho sempre sognato di finire in una unica boccata di respiro. Magari con una grande O a librarsi nell’aria. Una vita semplice: finire in una bocca, aspettare che l’accendino faccia fuoco, sentire il caldo toccare il tabacco ed essere così, semplicemente, fumato. Nulla è andato come previsto. Nulla da nove anni. Sono rimasto lì, in attesa di Vincenzo che ritornasse a casa per aprirmi, scegliere una sigaretta e fumarmi. Vincenzo Liguori lavorava nella sua officina quotidianamente. È uno di quei lavori che ti stanca, un lavoro impegnativo soprattutto in città come San Giorgio a Cremano dove sono tanti i motorini, le auto, gli incidenti. C’è da lavorare tanto sempre e per noi sigarette è un posto fantastico. Più si lavora e più si fuma, più ci si stressa e ci si impegna e più sale la voglia di fumare una sigaretta. Tutto però è cambiato a gennaio del 2011: il rumore di colpi di pistola, poi quello delle sirene di ambulanze e carabinieri. E Vincenzo non è mai tornato a casa: freddato, trucidato per scambio di persona da killer di camorra. Si dice sempre che “Il fumo uccide”, ma la camorra pure non scherza! Intanto io quel giorno sono rimasto lì, nella stessa casa, chiuso in una scatola pensando di essere stato dimenticato. Ma poi ho scoperto di aver cambiato senso: non sono più un pacchetto di sigarette, in attesa di essere svuotato e gettato. Le mie sigarette sono ancora con me da anni, e insieme siamo diventate un pacchetto pieno di memoria.
Note
[1] Citazione tratta dall’articolo “Le memorie traumatiche e il fenomeno dell’oblio” in «state of mind»
[2] Riferimento a Miller D., Cose che parlano di noi, Sassatelli, 2014.
Bibliografia
Miller D., Cose che parlano di noi, Il Mulino, Bologna, 2014.
Pamuk O., Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino, 2008.
Maria Cammarota, laureata in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli con una ricerca artistica su temi sociali e politici, in particolare concentrata sui temi di mafie, antimafia sociale e metodi di conservazione delle memorie considerate difficili. Studia il rapporto tra Arte e Memoria, il potere del vuoto e dell’invisibilità come motore emotivo, educazione alla legalità attraverso l’arte. Nel febbraio 2020 inaugura un’installazione artistica presso un I.C. di Secondigliano (NA), dedicata a Gianluca Cimminiello, vittima innocente di camorra.