Dunque si infrange lo specchio,(…) e si gode
poi la nuova immagine del proprio io.
F. Nietzsche
Un volto, un corpo, non sempre associati, un concetto creativo, il media artistico e il se stesso riprodotto nel segno dell’arte, tanto da arrivare alla Vera-Icon, “vera immagine”, alla quale guardare e dalla quale lasciarsi guardare..1 E il volto e il corpo dell’artista diventano specchio del Sé e dell’arte, ma anche doppio, più o meno esplicitato, riflesso e alter ego, di modo che l’opera finisce appunto per diventare volto e corpo dell’arte. Metonimia di un riflesso fatto di pensiero, idea, teoria, appunto arte. Considerando la problematica da un’ottica esclusivamente critica, lucida diviene la verifica dell’affermazione secondo la quale, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, il concetto di narcisismo inizia a diversificarsi a contatto con il pensiero della controcultura europea riassumibile in Eros e Civiltà di Herbert Marcuse.2
Se la psicoanalisi ha sempre considerato il narcisismo come uno step, da superare, dell’evoluzione infantile, Marcuse trasforma Narciso in un simbolo eroico, la chiave di volta della liberazione dell’Io. Il suo Narciso, infatti, contesta la cultura capitalistica repressiva della fatica, del progresso e della produttività e riproduzione. Narciso non ama solo se stesso, quindi non si tratta solo di autoerotismo, sia perché non sa che l’immagine che ama è il suo riflesso e sia perché non conosce solo la sua immagine. Ma è proprio con quelle immagini che conosce e in paragone con quelle stesse che Narciso finisce per preferire se stesso e la sua d’immagine, per il cui tramite riesce a far dilagare la propria libido nella natura, tanto da provare un «senso oceanico» delle cose che si estende appunto sugli oggetti – la natura – tanto da trasformarli in altri se stessi.
Un’alterazione visuale e di concetto che avviene per mezzo dell’uso di suffissi estetici che aggiungono all’oggetto originario una sfumatura di qualità, senza però modificarne il significato fondamentale, di modo che l’oggetto iniziale diventa altro da Sé. Come nel caso, fra i tanti, di Mario Schifano che si trasforma in altro da Sé con Io sono K. Malewitsch, (1965-1966).
Nel momento in cui il fascino del Futurismo e di quello russo in particolare, inizia a farsi sentire in maniera prepotente nelle nuove generazioni artistiche degli anni Sessanta, l’identificazione con questi finisce per essere la norma attuativa del periodo, ma anche ideologia e forma. L’Io diventa direttamente il loro. Schifano, nell’identificazione stessa con i suoi “nuovi idoli”, diventa appunto Malewitsch. Così come, grosso modo nello stesso periodo (1967), l’artista mette in scena con Souvenir, dove il suo Io filmico deborda in volumi chiaroscurali bituminosi.
Nel riflesso continuo di rimandi segnici Schifano finisce, in questo suo film, per imporre movimento e dinamicità alla staticità delle architetture barocche di San Pietro, per il tramite scenico di Gerard Malanga e Peter Hartman, protagonisti dell’alter ego dell’artista e “turisti per caso” nella capitale. Schifano compone così un ritratto alterato della loro corporeità nell’Urbe,3 elaborando un percorso filmico che va da Alain Resnais – Muriel, il tempo di un ritorno (1963) – ai film di famiglia delle vacanze. Infatti, i due artisti della factory di Warhol, sono trasformati da Schifano in turisti, con gelati in mano, sguardi estasiati rivolti verso l’alto, curiosità fra i banali souvenirs turistici, inscenando la nuova sacralità dell’Urbe, per intenderci quella del nascente turismo di massa, e finendo poi per riassumere la loro stessa presenza fisica – essere e non-essere l’altro da sé – nell’iniettarsi eroina sulla terrazza della basilica stessa. Al culmine, una danza liberatoria dalla finzione, dall’essere “specchio di”, per tornare ad essere solo sé stessi. Artisti, Narcisi e ribelli autodistruttivi in rapporto con la storia e l’architettura di Roma e con un diverso souvenir personale da portare a casa.
Tramite questa rivalutazione e attualizzazione della figura/concetto di Narciso da parte di Schifano, si rende necessario identificare nella pratica del ritratto/autoritratto la problematicità dell’identità dell’Io, e dell’uso del proprio corpo come elemento indicativo del fare arte, una nuova arte che finisce per tracimare in molta arte del secondo Novecento. Dalla pittura di Francis Bacon a Lucian Freud, solo per fare dei nomi esemplificativi dal punto di vista pittorico. Dalla performance e arte comportamentale alla video arte, tanto che «il Narciso si proietta fuori di sé e ama ciò che è dentro di lui»,4 anche oltre i limiti del proprio stesso corpo e quindi del proprio Sé. Non solo quindi allo specchio ma nello specchio stesso.
Stiamo ovviamente trattando di quel Io enigmatico che ha invaso, in vari stadi, tempi e soggetti, anche molto letteratura contemporanea, ma non solo, spingendo fino al limite estremo la persecuzione del proprio recondito, ma non troppo, Narciso. Pensiamo ad esempio ad Alberto Moravia, al suo totale e subliminale egocentrismo, già perfettamente e abilmente strutturato fin da una delle sue prime prove letterarie5 e in qualche modo prima de Gli indifferenti (1929) che potremmo definire proprio come il classico italiano del Novecento sull’egocentrismo.
Protagonista Leo – Alberto? – personaggio pessimista e scontroso che pone sé stesso, il proprio corpo e la propria apatia al di sopra del vivere e del pensare quotidiano borghese, in una vicenda corporea, attecchita in un contesto storico, sociale e culturale reale e totalmente contemporaneo, senza più ambiguità storiche e sociali. Pensiamo però anche a romanzi successivi di Moravia, in particolare a quelli imperniati sulle teorie di Wilhelm Reich, discepolo di Freud, dove l’Io prende corpo in una serie di protagonisti in bilico fra politica e sessualità. Come in Io e lui (1971), dove il Sé rappresentativo e cognitivo del protagonista – Moravia stesso? – finisce per interfacciarsi, in un rapporto dialogico costante e inquietante, con il proprio pene.
Questo continuo e sfacciato egocentrismo artistico sembra in qualche modo rispecchiarsi anche nella realtà e nella vita quotidiana dello stesso Moravia, nel suo rapporto con l’arte e gli artisti suoi amici. «Nel gioco dei rimandi [questi] stessi artisti rivelano con le straordinarie, indiscrete esplorazioni dei moltissimi ritratti dello scrittore preseti in collezione, gesti, espressioni, sguardi ed emozioni, non sempre immediatamente percepibili. Alcuni ritratti di Moravia realizzati da Guttuso sono, ad esempio, tra le icone più intense del letterato».6 Come ad esempio il seducente Ritratto di A. Moravia (1982) con il maglione rosso, o ancora, quello precedente databile agli anni 1969-72, probabilmente non finito. Ma sono solo alcuni dei possibili riferimenti di una collezione, quella appunto di Moravia, estremamente ricca di ritratti del collezionista stesso.7
Gran parte della storia universale dell’autoritratto e del ritratto del resto è proprio la storia di rassomiglianze fisionomiche, in altri termini storia di volti individuali, con uno scopo dichiarato e palese: entrare con il proprio corpo, d’artista, nell’arte del proprio – nostro- tempo. Da sguardo a sguardo, da maschera a maschera, come nel caso dei numerosi ritratti/autoritratti di Andy Warhol, sempre più simili, negli anni a sé stessi e quindi al proprio autore.
«Narciso, precipitato oltre lo specchio dell’acqua, trova inaspettatamente davanti a sé un altro specchio nel quale è riflessa la propria immagine, e così di seguito, all’infinito. Allo specchio, (…) che sa comunque distinguere la propria maschera d’obbligo dal proprio io, non si guarda: si vede».
Nel 1970 Max Kozloff apre un suo saggio sull’Io nell’arte con un incipit funerario dedicato proprio all’autoritratto. «Nell’arte moderna l’autoritratto è morto. Liquidato insieme con la più ampia idea di genere, è tra quei soggetti che non ci si aspetta più di vedere». Un incipit che in definitiva gli serve solo al fine di creare un, come dire, effetto teatrale nella disquisizione sull’argomento. Kozloff, infatti, sviluppa il suo saggio, al contrario dell’incipit, intorno alla teoria della rinascita dell’autoritratto stesso in ambito però performativo (primi anni Sessanta), con l’esposizione e manipolazione in diretta, dal vivo, del corpo degli stessi artisti, in modo da divenire esso stesso “corpo” dell’arte contemporanea. E ancora, come nel caso di Gilbert & George, qualcosa d’altro da Sé, per divenire appunto il doppio artistico di sé stessi. Un doppio banale, stereotipato e omologato, per outfit e atteggiamento, rispetto all’immagine tipica, usuale, da travet londinese, alla quale gli artisti si ispirano già dalla fine degli anni Sessanta, concentrando la loro attenzione direttamente sul loro corpo.
In questo modo Gilbert & George puntano alla composizione di una complessa partita auto-rappresentativa, fra il Sé e l’archetipo, circondando le loro immagini – dagli anni Ottanta in poi – da ingrandimenti di campioni di sangue, escrementi e sperma, in una costante cromatica estremamente acid.
Nella creazione della loro performance continua, però, è soprattutto negli anni Settanta, che inizia a rivelarsi il senso stesso della messa in scena del proprio Sé corporale, lo ripetiamo, specificatamente diverso da quello reale della loro quotidianità. Sicuramente più glam e ludico rispetto al doppio performativo.
Rappresentazione di Narciso al contrario? E comunque di un rovesciamento del mito si tratta, stigmatizzato proprio dal loro volto e dal loro corpo in scena.8 Si veda proprio la fotografia del duo realizzata da Claudio Abate nel 1972, durante una loro, ormai, storica performance presso la Galleria l’Attico di Roma. Gilbert & George sono ritratti immobili, con il volto “a bronzo”, in piedi su un tavolo, in modo da eternizzare l’azione, ancor più banalizzandola, mentre cantano Underneath the Arches, popolarissima canzone, del 1932, del duo Flanagan and Allen.
Per tornare al citato saggio di Kozloff, diffuso successivamente in Italia con il titolo La divisione e l’irrisione dell’io,9 ricordiamo che lo scritto fece comunque molto scalpore in USA così come in Europa – meno in Italia – soprattutto fra gli artisti.
Del resto, nel corso degli anni Sessanta-Settanta, sempre più esplicito diviene il gioco performativo degli artisti intorno e/o per mezzo del proprio corpo e volto, in una sorta di esaltante e a volte pericoloso autoritratto vivo e continuo, con pratiche diffuse che implicano la stessa manipolazione fisica del loro corpo. Dall’automutilazione ai ferimenti, con prove di resistenza fisica ai limiti del masochismo, a volte fino a rischiare la morte dell’artista stesso, con un posto di primo piano all’Azionismo viennese e suoi derivati che in questa sede identificazione per mezzo di Arnulf Rainer. Giochi concettuali intorno al volto e al corpo dell’autore, praticati in modi sempre terribilmente seri, dove l’Io psicologico, sempre quello freudiano, diventa strumento di prospettive e alterazioni sul corpo stesso, reale, dell’artista. Esaltante è l’esempio – contenitore esso stesso di esempi – dell’arte di Marina Abramović.
L’artista, rischiando la vita anche in diverse occasioni, ha finito per identificarsi in maniera talmente diretta e totale con l’arte, la sua arte, da diventare volto e corpo dell’arte stessa. O per meglio dire doppio artistico di questa, tanto da considerare le proprie performances alla stregua di rituali di divulgazione estetica, dove la teoria finisce per identificarsi con la pratica artistica e quindi con l’opera d’arte finale. Da Art must be beautiful (1975) a The Artist is Present (2010), nella più totale connessione e interattività fra corpo, idea e pratica, scardinando anche, come su altro versante ha fatto ad esempio la giovane Yoko Ono – Cut piece (1965) – le strutture sociali, mentali e comportamentali di molta arte occidentale capitalistica degli ultimi quaranta anni.
Azioni performative ma anche video arte sono fra i primi linguaggi artistici a rilanciare, nel secondo Novecento inoltrato, il volto e il corpo dell’artista, tanto che la Krauss alla metà degli anni Settanta, attacca proprio l’ossessione del corpo da parte dell’artista e della riproduzione di questo. La studiosa parla chiaramente di «autoincapsulamento» e del «corpo o la psiche come proprio limite»,10 attaccando, fra gli altri, Vito Acconci e la continua auto-esaltazione dell’artista per il proprio corpo, gli stimoli, le pulsazioni e i suoi umori corporei che diventano arte. Brillante esempio l’opera presente in mostra, Waterways / Four saliva studies del 1971. E il titolo è indubbiamente molto esplicito.
Siamo nell’ambito di quello che Christopher Lasch definisce come «teatro della vita quotidiana nell’arte» e quindi come «narcisismo patologico».11 Guru assoluto Andy Warhol. «Mi guardo allo specchio un giorno dopo l’altro e ci trovo sempre qualcosa: un brufolo nuovo. (…) bagno un fiocco di cotone Johnson and Johnson nell’alcool Johnson and Johnson e lo frego sul brufolo. (…) Mentre l’alcol si asciuga non penso a niente. (…) Lo sguardo senza interesse (…) il languore annoiato, il pallore sprecato (…) le labbra che tendono al grigio. Gli arruffati capelli bianco-argento, soffici e metallici (…). C’è tutto. IO sono tutto ciò». Ed è qui tutta la filosofia di Andy.12
Tutti gli esempi riportati, sia per quanto riguarda la critica che l’arte, sembrano comunque essere figli o per meglio dire nipoti, delle teorie di un libro sul ritratto pubblicato nel 1908 ma ben conosciuto, ad esempio, da Beauys e Acconci. Stiamo riferendoci a Wilhelm Waetzoldt, Psicologia della rappresentazione di sé13 ripubblicato in USA in una edizione ultre-economica proprio alla fine degli anni Sessanta.
Il volume è da considerare, ancora oggi, nella sua valenza di vera e propria esaltazione teorica del Sé come genio individuale e totale, con fondata psicopatologia, come l’avrebbe definita Freud, egocentrica e quindi come individuazione della «traccia stessa dell’Io».14
Da qui in poi l’autoritratto rappresenterà, per tutto il XX secolo e oltre al ritratto, e di gran lunga al di là degli altri tre generi tradizionali dell’arte – la storia, il paesaggio e la natura morta – l’elemento sempre più caratterizzante l’arte del nostro tempo, simbolo ispiratore di quella che viene considerata come «libertà artistica» ma soprattutto prodromo presente di ciò che è stato definito come specchio della «cultura del narcisismo».15
Analizzando ormai da tempo la problematica da diversi punti di vista storici, si tratta però più di inconscio che di specchi, di memoria e quindi d’immaginazione. Così come sostiene Plotino che, in un dibattito proprio sull’autoritratto (III secolo d.C.), afferma che non sono – non possono essere – realizzati solo guardandosi allo specchio ma ritirandosi in se stessi.16 Affermazione ripresa poi nel Rinascimento con il motto «Ogni pittore dipinge se stesso», in modo da riuscire quindi a inserire qualche cosa di sé in tutte le figure che il pittore dipinge, cosicché tutte avranno tra di loro una «famigliare rassomiglianza», come afferma Yates. Tanto da finire spesso per confondere l’autoritratto con il ritratto, in un doppio commutativo di rimandi psicologici, mnemonici e concettuali.
Del resto proprio questi due generi artistici – ritratto e autoritratto – sono stati nel tempo, nel tempo della storia dell’arte, tramiti attraverso i quali gli artisti hanno sperimentato, sperimentano e, di sicuro, sperimenteranno cambiamenti di stile. Nuove fasi concettuali, diverse impostazioni mentali per rimanere però sempre fedeli a sé stessi, a quella immagine enigmatica e incorruttibile del proprio volto, così come di quello del rappresentato, in una sorta di doppio ruolo di rifrangenze e riflessi, dove a volte, soprattutto nel contemporaneo, diventa sempre più difficile legittimare il rappresentato dal rappresentante. Immutabili e intoccabili reliquie, il volto e il corpo si costituiscono quindi come fil rouge di una lettura critica che cerca in qualche modo di superare gli stereotipi, in modo da porre in primo piano l’artista stesso e la sua pratica, in qualunque linguaggio essa si esprima. Riproponendola e portandola appunto in primo piano, al centro dell’arte e della società contemporanea.
Gli artisti, alla ricerca dell’eternità e dell’immortalità nell’arte, pongono così la propria effigie, significato del proprio Io, in maniera complementare e parallela con quella del significante, verso il guardante – «colui che guarda, colui che pensa nel guardare», come considera Beauys il pubblico17 – in una sorta di metampsicosi fra, appunto, il proprio Io e l’Io del pubblico guardante.
In questo senso Alberto Boatto arriva a domandarsi: «Non è l’autoritratto un’assicurazione contro la scomparsa definitiva, uno strappo al silenzio della morte?».18 E ci domandiamo noi: non lo è in definitiva anche il ritratto? Le azioni del nostro stesso vivere?
A queste domande retoriche gli artisti sembrano risponderci con l’attualità del proprio operare nel moltiplicarsi – moltiplicazione del Sé – come fa ad esempio Amy Cutler in Army of me (2003), la quale crea appunto un “esercito di Sé stessa”. O ancora prima Urs Luthi, il quale si pone davanti allo “specchio” della sua stessa vita, soggetto del futuro dell’arte e perciò del mondo.
In Just Another Story About Leaving (1974-2006) Luthi, infatti, si moltiplica nel tempo e dal tempo, utilizzando una metafora tramite la quale riesce a sviluppare e risolvere, come direbbe Lacan, la propria narcisistica e dolorosa immagine in un assillante e ossessivo progress temporale. Per capirci, quella di un artista cosciente del doloroso dédoublement dato dal tempo – cambiamento formale nel tempo – ma che proprio attraverso quella che potremmo definire come «metafora mimetica» – o ancora «impronta struggente»19 – rende visibile ed esplicito l’iter dello svelamento del soggetto con il suo doppio (s)oggetto. Uno dei riti più efficaci del XX secolo e che con Luthi stesso si estrapola dalla retorica per assoggettarla alla psicologia, rendendola così strumento di una “nuova” trasmissione artistica posta davanti, metafora nella metafora, al sinistre miroir di Baudelaire. Così come a suo tempo avevano già messo in atto Gide, Valéry e Hugo von Hofmannsthal, i quali, nella scrittura, avevano identificato appunto la scissione dell’immagine come uno dei principi fondamentali dell’estetica moderna.
Bisogna però anche ricordare che sempre meno travestimenti e/o pose simboliche caratterizzano gli autoritratti e ritratti fra XX e XXI secolo, Solo l’artista perciò, così com’è, con il suo volto e il suo corpo in primo piano. Metaforicamente nudo, lontano da ogni tentativo – tentazione – di sviamento della propria reale identità. Ci troviamo quindi di fronte alla sublimazione del tragico rapporto fra un tempo eterno dell’arte e tempo effimero dell’esistenza individuale, attraverso la proposta dell’immagine dell’artista come “eterno presente”, come avrebbe detto Nietzsche, anche nella sperimentazione della moltiplicazione del Sé.
In questo eterno presente del Sé dell’artista, un ruolo considerevole la ricopre lo specchio, il quale non è più semplicemente un mezzo per conoscere se stessi o per sapere quanto poco ci si conosce, ma diventa, nell’arte contemporanea, il mezzo stesso per mettere alla prova lo stato di unicità e individualità della persona e, nel nostro caso, dell’artista. Unico e irripetibile seppur riflesso in una molteplicità del suo essere appunto unico.
La determinazione egocentrica, mista alla metafora teologica – a sua immagine e somiglianza – sembra più che esplicita e in tema con le nuove specifiche artistiche e performative del XXI secolo, tanto da abbattere le barriere fra l’Io e l’Altro, così come fra finzione e realtà, per una nuova – diversa – realtà della finzione stessa.
Luigi Ontani e del suo continuo – continuato e continuativo – gioco di travestimenti e doppi ermetici nel tableau vivant, in cui, fin dall’inizio della sua attività artistica, ha scelto di definirsi scegliendo la fissità contro l’azione.20 In questo modo l’artista insiste anche sull’integrazione della sua arte con la storia dell’arte stessa, divenendo egli stesso, il suo corpo e il suo volto, riproduzione – specchio dell’arte riferita alla storia dell’arte che diventa quindi biografia. Anzi autobiografia, nella ricerca ossessiva sul tema dell’identità che l’artista ormai da decenni sta mettendo in atto.
Come scriveva Oscar Wilde «L’uomo non è se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità».21
Come nell’Ottocento aveva bene già apertamente praticato questo concetto Courbet, il primo artista a scrivere sui propri autoritratti: «(…) nella mia vita ho fatto moltissimi autoritratti, via via che il mio modo di pensare cambiava. Si potrebbe dire che ho scritto la mia autobiografia».22
Si continua così a ricercare, esprimere il proprio Io attraverso la sua stessa iconizzazione, anzi, come la definisce Vezzosi, «autoiconizzazione»23 che sembra ormai circoscrivere fatalmente il nostro presente. Anche sul piano virtuale – virale – come avviene con la pratica del selfie, nella sua totale invasione del mondo sociale, culturale e, in parte, anche artistico contemporaneo.
Sembra che l’umanità globalizzata sia, infatti, ormai investita da vera e propria mania – malattia? – tanto che il nostro rapporto con lo specchio e con l’Io è andato profondamente mutando in un lampo cronologico. Pochi anni per guardarci, e farci guardare, in altro modo. Altro da Sé o, come l’abbiamo definito, «Nell’Altro dell’Io».
Il riflesso che lo smartphone il tab, l’iphone, ecc., rimanda di noi all’esterno, dall’intimità dei nostri spazi quotidiani al clangore dei social, ha fatto in modo, come scrive Douglas Coupland, «di vedere come si guardano gli altri allo specchio facendo la faccia fascinosa quando non c’è nessuno – se non fosse che di questi tempi c’è sempre qualcuno, in ogni posto e in ogni momento»,24 trasformandoci così in prodotto. Più o meno esplicito, più o meno veritiero, ma comunque prodotto da postare, esporre, guardare e da spingere a guardarlo, in una vera e propria “istigazione” alla visione.
La questione quindi, lo ripetiamo, è sempre e soprattutto sociale, se non socio-culturale, nel momento in cui assistiamo al passaggio, in sé al quanto rivoluzionario, da un ruolo passivo a un ruolo attivo del pubblico, rispetto alla riproduzione e diffusione del volto e del corpo nella società. Il quale, da fenomeno statico e visivo, è diventato appunto incarnazione di relazioni umane dinamiche, oltre che strumento d’intervento e cambiamento all’interno dell’opera d’arte e dalla politica visiva di questa stessa.
Tornare quindi ad analizzare il volto e il corpo nell’arte contemporanea, con focus sul volto e il corpo dell’artista che si auto-rappresenta e/o, a sua volta, è rappresentato, diventa anche un modo per approfondire e dimostrare, nel concreto dell’arte stessa, quella che storicamente è definita come “pittura di genere”, con riferimento appunto all’autoritratto e al ritratto e, se vogliamo ampliare la denominazione attualizzandola, al selfie. Denominazione che in breve tempo ha radicalmente soppiantato l’ormai anacronistica definizione di “auto-scatto”, utilizzata solo un decennio fa, imponendosi a livello mass-mediale come nuova forma di comunicazione e diffusione del Sé.
Il gioco del “guardare”, “guardarsi” e “farsi guardare” diventa così sempre più complicato, anche da una forte dose superomistica e narcisistica – si pensi ad esempio all’ossessività del selfie di Kim Kardashian, Belen Rodriguez e derivati – che proprio l’autoritratto e appunto il selfie aumentano a dismisura. Basti pensare al caso più emblematico del Novecento, quello di Giorgio de Chirico che si è espresso proprio per il tramite di una ricchissima serie di autoritratti, prodotti dall’artista durante tutta la sua lunga attività. Partendo dal suo primo Autoritratto, con l’artista auto-effigiatosi alla maniera di Saturno,25 il Sole negro,26 il dio del buio e del sapere di ricercare “nel buio” di noi stessi, fino “a vedersi”, nell’opera in mostra, come novello Gesù. Nudo pronto al martirio, «al tramonto», come direbbe Nietzsche, perché «(…) quel che si può amare nell’uomo è che egli è “transizione e tramonto”. Io amo coloro che sanno vivere se non per tramontare, perché sono coloro che passano dall’altra parte. (…) Io amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere perché un giorno viva il superuomo. Così egli vuole il proprio tramonto».27
Uno sguardo sempre più complesso finisce per essere questo sguardo sull’arte mediante ilvolto dell’artista e quindi dell’arte stessa, multiplo e ricco di riferimenti stilistici ed estetici.
Del resto l’artista contemporaneo, proprio tramite il suo auto-rappresentarsi, si pone, nei confronti della realtà personale, come il ri-guardante, così come, da parte di quella del pubblico, il guardato. Per non essere più quello che è ma per quello che vuole essere, o meglio quello che decide di essere, di porsi, nei confronti dell’esterno del Sé. Il tutto tramite la pratica dell’arte, una pratica che non “denuda” ma che si “dà” con e per simboli, anche se non sempre espliciti, rivelandosi così, in maniera palese, come una trascendenza filosofica trasposta appunto nel mondo e nello “sguardo” dell’arte.
Così come da altro punto di vista teorico e tecnico ha realizzato nei decenni Luca Maria Patella, trasformando molto spesso il suo Io in comportamento, concetto, installazione, parola, sulla scia illuminante di Duchamp ma anche, con diversa ottica, di de Chirico.
Tecnicamente sempre precursore e quindi progenitore di molte fasi dell’arte contemporanea, Patella nelle due opere esposte – Gli Arnolfini-Mazzola, a Montefolle (1980) e Gli Arnolfini-Mazzola Cosmici (at Madmonuntain) del 1985, utilizza una tecnica già in parte da lui sperimentata dalla fine degli anni Settanta e che consiste nel “fotografare” senza macchina fotografica. «In realtà: con apparecchi da me costruiti, e mediante la “camera obsura”, unita a procedimenti tricromici, ed altro. Risultati laboriosi (ore di esposizione – anche in condizioni fortunose: …orecchie di feltro, pennelli di luce), ma “in diretta”, e che nessuna macchina, costosa e ultra-progredita, può fornire».28
Dalla tecnica al segno per inscenare una nuova semiologia nell’arte, uno degli scopi più specifici dell’arte di Patella, dove il riflesso dei Narcisi – Luca Maria Patella e Rosa Foschi – diventa rovesciamento dell’uso dello specchio che, a sua volta, diviene multiplo accessorio interpretativo.
La coppia Patella/Foschi diventa così quella Arnolfini/Mazzola dipinta da Jan van Eyck nel 1434, o almeno il concetto – il riflesso – di quella, con inserita in primo piano una patella marina, autoritratto metaforico e surreale, ma anche ironico, che torna a riferirsi, per via analogica, all’autoritratto/ritratto dei coniugi stessi. Ed ogni altra regola critica decade inesorabilmente.
Sembrerebbe troppo esplicito il riferimento alla teoria del ritorno di Giorgio de Chirico? Esplicito ma reale. Un ritorno che attualmente sembra ossessionare molta arte contemporanea e in particolare le nuove generazioni che sembrano sempre più voler utilizzare il proprio volto, il proprio corpo, come valenza primaria «meta-mediale», nel senso quindi indicato da Gennaro Sasso e da intendere come struttura relazionale legata all’allegoria e/o al simbolo.29
L’interesse artistico ossessivo e dirompente per il volto, il corpo, i corpi – il corpo dell’arte – degli artisti d’oggi ha ovviamente una lunga tradizione, sia pittorica che performativa, con risultati spesso molto stringenti sul piano dell’azione culturale e d’impegno dell’arte. Tanto che il volto, ma anche il corpo, diventa quindi scena, evento, nella scissione delle parti, struttura identitaria, come nelle voraci automutilazioni di Gina Pane che sembrava voler celebrare apertamente, con le dovute diversità, la demistificazione e la banalità della routine quotidiana del e sul corpo femminile, indagando i limiti dell’umano in rapporto all’Io, al comportamento, alla spiritualità, alla psicologia così come alla politica. Perché, come scrive Nietzsche, alle origini della visione egocentrica del mondo occidentale contemporaneo, «Dunque si infrange lo specchio, (…) e si gode poi la nuova immagine del proprio io».30
.
.
1 Per una lucida analisi critica, storica artistica e oltre che iconologia e culturale dell’argomento cfr. H. Belting, Il culto delle immagini, Milano 2001.
2 Cfr. H. Marcuse, Eros e Civiltà, Torino 2001, anche per la successiva citazione.
3 Cfr. B. Di Marino, A. Licciardello (a c. di), OFF & POP. Cinema sperimentale in Italia: ’60-’80, Roma 2012. Rimandiamo anche al nostro Volto e Corpo Contemporaneo dell’Arte. Topici attraversamenti fra XX e XXI secolo, in C. Crescentini a c. di, EgosuperEgoalterEgo. Volto e Corpo Contemporaneo dell’Arte, cat. mostra, Roma, MACRO, 27 novembre 2015-8 maggio 2016, Roma 2015, pp. 13-39. Il presente saggio ne rappresenta un’evidente approfondimento.
4 L. Vergine, Il corpo come linguaggio, Milano 1974, p. 32.
5 Cfr. il racconto Apparizione, del 1929, pubblicato nella rivista «Novecento».
6 F. Pirani, G. Raimondi, Presentazione, in Idem (a c. di), Casa Museo Alberto Moravia, Roma 2013, p. 15.
7 F. Lombardi, Alberto Moravia e Renato Guttuso, in Ibidem, pp. 60-61.
8 Così come teorizzato da E. Kris, O. Kurz, Legend, Myth and Magic in the Image of the Artist, New Haven 1979.
9 M. Kozloff, Division and Mockery of the Self, in «Studio International», jan. 1970, pp. 9-15 (anche per la precedente citazione). Il titolo originario allude spregiudicatamente al libro di Ronald D. Laing sulla malattia mentale intitolato L’io diviso (1960).
10 R. Krauss, Video: the Aesthetics or Narcissism, in «October», I, 1976, pp. 50-64.
11 C. Lasch, The Culture of Narcissism, New York 1979, p. 108 (nostra la traduzione).
12 A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, New York 1975, p. 14 (nostra la traduzione).
13 W. Waetzoldt, Psicologia della rappresentazione di sé, Torino 1935. Anche per le successive citazioni: p. 309 e passim. Si tratta della prima edizione italiana.
14 S. Freud, Introduzione al narcisismo, Torino 1976, p. 83.
15 Hall, cit., p. 189 e passim. «Narciso, tradizionalmente considerato un illuso perdente, era diventato [seconda metà del XVIII secolo] da poco modello della profonda conoscenza e riflessione su di sé».
16 Cfr. F. Yates, The Art of Memory, Harmondsworth 1969. Anche per le citazioni successive. Platone invece, nel decimo libro della Repubblica (380 a.C. ca.), da una valutazione assolutamente negativa della pratica dell’autoritratto, così come di tutte le arti visive, avendo origine dalla tesi che le immagini non sono altro che puri duplicati del mondo esterno che, per suo conto, non è che un esile riflesso della realtà vera. Quindi la loro produzione è semplice inganno. Cfr. Platone, Repubblica, Bari 1970, 596 d-e.
17 Frase estrapolata da: H. Oman, Joseph Beuys. Die Kunst auf dem Weg zum Leben, München 1998, p. 36.
18 A. Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Roma/Bari 1997, p. 45.
19 Kozloff, cit., p. 190. Per impronta l’autore intende appunto la moltiplicazione tecnica del corpo stesso dell’artista, dal calco al video e alla fotografia.
20 «Mentre c’è tutta una storia di performances che vivono la dinamica di un accadimento, che sia ginnico, che sia atletico, di progressione ‘verso’, io scelgo la fissità». La presente frase di Ontani è tratta da: G. Celant, con G. Maraniello (a c. di), Vertigo. Il secolo di arte off-media dal Futurismo al web, catalogo mostra, Bologna, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Firenze/Ginevra 2007, p. 363.
21 O. Wilde, Il Critico come Artista, Milano 1981, p. 33.
22 M. De Micheli (a c. di), Il realismo: lettere e scritti di Gustave Courbet, Milano 1954, p. 18.
23 E. Brocardo, Grazie Grindr, in «Vogue», 28, luglio 2015, pp. 76-80 (citazione p. 80).
24 D. Coupland, Introduction, in #artselfie, New York 2015, p. 6 (nostra la traduzione).
25 Cfr. C. Crescentini, Melanconico de Chirico 1905-1935, Roma 2000 e bibliografia annessa.
26 Cfr. J. Kristeva, Sole nero. Depressione e malinconia, Milano 1989.
27 F.W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Roma 1988, p. 89.
28 L.M. Patella, Montefolle (una semiologia globale). Grandi Opere Fotografiche colore e Tramonti Speculari, in ABO, A. Tecce (a c. di), Patella ressemble à Patella. L’Opera 1964-2007, catalogo mostra, Napoli – Castel Sant’Elmo, Napoli 2007.
29 Cfr. G. Sasso, Allegoria e simbolo, Roma 2015.
30 F. Nietzsche, Umano troppo umano, II, 1878-1880, § 37.
.
.
Claudio Crescentini storico dell’arte e Responsabile Ufficio Attività espositive e Grandi eventi del MACRO, dove ha curato diverse mostre, da quella per il Centenario della nascita di Toti Scialoja (2015) a Marisa e Mario Merz (2016) e a quella sulla Scuola di piazza del Popolo (2016). Con Paolo De Grandis sta curando il progetto From Biennale di Venezia to MACRO. International Perspectives. Si occupa principalmente del multilinguismo artistico del XX e XXI secolo, su cui ha pubblicato numerosi volumi e saggi, ma anche di arte e cultura del Rinascimento. Negli anni Novanta ha tenuto corsi, seminari e lezioni di “Storia dell’arte contemporanea” presso la “Sapienza” Università di Roma e la “Tuscia” di Viterbo. Ha ricoperto la carica di Vice-Presidente dei Comitati Nazionali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Dal 2006, partecipa al Comitato di Direzione di “HUMANISTICA. An International Journal of Early Renaissance Studies” e dal 2014 è co-curatore della collana di studi “RomArchitettura”. Ha partecipato al programma SKY “A tavola con l’arte” (2000-2002), di cui è stato autore e conduttore.