Viva Menilicchi! nasce da un imprevisto, una richiesta inattesa. Lo strano vicinato tra una biennale d’arte, Manifesta, e un collettivo di cantastorie, noto col nome di Wu Ming.
La scintilla iniziale è una lettera d’invito, alla dodicesima edizione della rassegna, che avrà per sede Palermo e per titolo: Il giardino planetario: coltivare la coesistenza.
Nell’alternativa secca tra accettare e rifiutare, s’insinua una domanda più feconda: cosa mai potrebbe portare, un narratore, nelle terre abitate da mostre, installazioni e immagini? Le sue tanto amate parole non rischiano di essere verbose didascalie, voci che si rifiutano di stare fuori campo?L’abitudine a confrontarci con storie scritte – o recitate a partire da un copione – ci spinge a dimenticare che il racconto è prima di tutto un rituale collettivo, con cui negoziamo il significato del mondo. La narrazione è un attrezzo per coltivare la co-esistenza in quanto permette di sentire ciò che non si vede, di frequentare chi non dovrebbe esistere, di ascoltare il silenzio di chi è stato zittito, di evocare gli spettri dei futuri abbandonati, delle occasioni mancate, dei passati che non passano. La sua vocazione artistica non consiste nel rappresentare ciò che si mostra, o nell’inventare quel che non c’è, ma nel mostrare quel che viene nascosto, represso, scartato, violentemente dimenticato. Questa dimensione diventa tangibile, prende corpo, allorché le storie mettono le gambe, intervengono nel paesaggio, intrecciano il loro filo nell’ordito dei luoghi e permettono di abitarli altrimenti.
Da questa riflessione, è partita l’idea di sperimentare a Palermo un percorso simile a quello di Resistenze in Cirenaica, un collettivo di collettivi bolognesi che nel corso di cinque anni ha orchestrato incontri, processioni, concerti, ricerche, mostre, riviste, cerimonie civiche, performance teatrali, azioni di guerriglia odonomastica, street art, visite guidate e tutto questo insieme, prendendo spunto dalla topografia del rione Cirenaica, dai nomi delle sue strade, dagli inquilini dei suoi palazzi, dai segreti dei suoi cortili. Un quartiere di lapidi e vie intitolate oggi a partigiani, ma già dedicate, cent’anni or sono, alle imprese libiche del Regno d’Italia. Una co-esistenza sepolta eppure attiva, tra memoria antifascista e rimosso coloniale.
Dopo un rapido scambio di proposte con le curatrici – Bregtje Van Der Haak e Lodovica Guarnieri – prende forma il canovaccio di un Grande Rituale Ambulante, aperto a chiunque voglia assistere e partecipare, che attraversi a piedi la città di Palermo, tappa dopo tappa, in un susseguirsi di incantesimi e gesti apotropaici, per raccontare la co-esistenza tra luoghi segnati dall’eredità coloniale e spazi abitati da migranti delle ex-colonie, tra cicatrici razziste e comunità ospitali, tra fantasmi imperiali e presenze imperialiste.
La ricerca inizia sulla mappa, per verificare che esistano le premesse del discorso. Quindi, per evitare l’assurdo di colonizzare una comunità con un progetto di critica della ragione coloniale, il progetto viene sottoposto a una vasta rete di contatti locali: storici, attivisti, artisti, associazioni. I risultati di questo primo studio sono messi al centro di un affollato incontro pubblico, al Teatro Garibaldi, che genera ulteriori collaborazioni e soprattutto contributi spontanei, come quello che porterà a definire il titolo dell’intero lavoro:
“Viva Menilicchi!”, dal grido che anarchici e socialisti lanciarono per le vie di Palermo, inneggiando al re nemico che aveva sconfitto ad Adua (1896) l’esercito italiano e maledicendo le imprese africane del governo Crispi.
Nel corso della serata, un paio di mani alzate esprimono perplessità sulla scelta del tema. «A Palermo il colonialismo non ha lasciato chissà quali tracce», «sarebbe più interessante parlare di come questa città sia stata colonizzata dal Regno d’Italia». A dimostrazione del fatto che è soprattutto una dissonanza cognitiva a rendere invisibili i cascami del nostro passato di carnefici. L’identità degli italiani si fonda sul vittimismo. Perfino l’inno nazionale lo dichiara: «noi fummo da sempre calpesti e derisi». Ciò che non rientra in questa cornice, che non trova posto nel quadro, dev’essere eliminato, in maniera più o meno consapevole. Chi si aggira brandendo un martello, in cerca di chiodi, finirà per battere anche viti e bulloni. Chi si aspetta di inghiottire una medicina, si sentirà guarito anche da un confetto. La realtà pone, l’immaginario dispone.
Infatti, a dispetto di quelle prime critiche, grazie all’aiuto e ai suggerimenti di un collettivo sempre più allargato, le potenziali tappe del Grande Rituale diventano presto talmente numerose, da doverne eliminare una buona metà, per far sì che la camminata si possa concludere dalla mattina alla sera.
Mentre il percorso si definisce, genera anche interventi di altro tipo:
– Un manifesto spettrale, affisso in decine di copie sui muri della città. L’immagine è la sovrapposizione, ovvero: la coesistenza, dell’attuale mappa di Palermo, di quella di Asmara, ai tempi dell’Eritrea italiana, e della testa coronata di Menelik II, imperatore d’Etiopia.
– Una fanzine in bianco e nero, formato A5, distribuita nelle sedi di Manifesta 12. Contiene fotografie, collage, documenti d’epoca, e tre racconti: Il bosco di mezzo, un apologo fiabesco sull’immigrazione, Viva Menilicchi!, sulla sconfitta di Adua e Ali Ben Hrahim Suezzin, ispirato alla cartella clinica di un suddito della Tripolitania internato alla Casa dei Matti di Palermo, dove trovavano posto gli “alienati” provenienti dalle colonie.
– Un cortometraggio teaser di 10’21” dove il collettivo Fare Ala prepara un attacco psichico contro la statua di Francesco Crispi, dissemina manifesti per le vie di Palermo, interroga via citofono i residenti di due rioni sulle gravissime aggressioni razziste avvenute sotto le loro finestre, ascolta lo stornello fascista “ L’abissino vincerai” insieme ai componenti di Booku Ndal, un trio di rapper di origine senegalese e gambiana.
Gli stessi Booku Ndal scrivono e incidono un brano in risposta alla canzone contro il Negus, campionando il ritornello e brandelli di strofe.
La fanzine, il manifesto e il cortometraggio diventano parte di un’installazione, per tutta la durata della biennale, in mostra al Teatro Garibaldi insieme a una grande mappa di Palermo, che indica e illustra 37 luoghi “coloniali” e a una cassetta di legno dove chiunque è invitato a suggerire altre destinazioni per il Grande Rituale Ambulante, fissato per l’ultima settimana della manifestazione.
L’allestimento di questa lunga liturgia da celebrare coi piedi ha offerto la possibilità di inventare e inventariare tutto un arsenale di guerriglia topografica e odonomastica, studiando i metodi più efficaci per colpire i nomi e i monumenti che orientano le nostre vite, per rispondere ai loro sortilegi di targhe e mattoni, per rovesciare il loro significato come nelle proiezioni di un’arte marziale.
Come sempre accade, le soluzioni si sono moltiplicate grazie a un limite (auto-)imposto. Prima regola, niente sostituzioni, solo aggiunte. Evitare qualsivoglia re-intitolazione di piazze o strade. Per rinominare i luoghi di una città non basta una giornata di cammino, e nemmeno un progetto lungo sei mesi. È un percorso che deve coinvolgere gli abitanti, che presuppone un confronto. Seconda regola, niente cancellazioni. Il rituale deve servire a mostrare, non a nascondere. Questo non significa che nascondere sia sempre e comunque un errore. Molto dipende dal contesto. Un conto è scalpellare i fasci littori dai monumenti nei giorni successivi alla caduta di Mussolini, e un altro è distruggerli oggi, quando il problema non è tanto ciò che si vede, quanto quello che non si vede più. Terza regola, solo interventi autorizzati. Delle tre norme, sicuramente la più difficile da rispettare. Non tanto per il gusto di azioni illegali e clandestine, quanto per la contraddizione insita in un intervento che intende contestare la topografia di una città e allo stesso tempo chiede il permesso di farlo alle istituzioni responsabili di quella topografia. Vedremo più avanti con quali conseguenze.
La camminata è in programma il 20 ottobre 2018. Due percorsi ad anello, con arrivo e ritorno al Teatro Garibaldi. Uno per la mattina, di 9 chilometri, e uno di 7 per il pomeriggio, con pausa pranzo di un’ora tra l’uno e l’altro. Alla fine, potenza magica della marcia collettiva, i chilometri totali saranno 19. La partecipazione è libera, si può percorrere tutto il tragitto o fermarsi solo per una tappa. L’ingrediente comune di ogni sosta sono le parole e la musica. Racconti, brevi letture, sketch teatrali, comizi in pillole, usando come pulpito una scaletta pieghevole a quattro gradini, e come parentesi le note di una chitarra, per radunare ogni volta in cerchio le centinaia di partecipanti e per dare il segnale di ripartenza al termine delle varie stazioni.
La maggior parte degli interventi in loco, che attendono al varco la folla di viandanti, sono stati sistemati durante la notte.
Volendo tentare di catalogarli, si potrebbe dire che:
– Alcuni sono chiose, ovvero brevissimi testi, per lo più vergati su carta adesiva, aggiunti alle targhe stradali o ai monumenti per meglio definire il personaggio al quale sono intitolati. È il caso di Piazza Vittorio Bottego, “esploratore e pluriomicida”, Piazza Due Palme (dove si specifica che il riferimento è alla “Battaglia dell’Oasi delle Due Palme” del 1912, non alle due arecacee che svetta(va)no sullo slargo) e Via Orazio Antinori “promotore del colonialismo italiano in Etiopia”.
– Quando la chiosa si dimostra insufficiente, diventa necessario il ricorso a una glossa, che pure le somiglia, ma è più estesa, e quindi ha bisogno di un supporto diverso. Per Viva Menilicchi! sono state realizzate otto targhette in forex, con un QR-code che rimanda a pagine web appositamente realizzate, nell’ambito del progetto Le Vie della Memoria del Comune di Palermo (via dell’Università, Via Pola, Via Antinori, Piazza Bottego, Via Magliocco, Via Rodi, Piazza Castelnuovo e Piazza Due Palme)
– Si potrebbero chiamare epifanie tutti gli interventi che alludono, in maniera indiretta, alla storia di un luogo o del suo nome. Come se lo spettro risvegliato in quel punto avesse voluto lasciare una traccia onirica, una simbologia, e non un’etichetta esplicita. I camminatori si sono così imbattuti in un grande manifesto, affisso su una vetrina dismessa di via Fiume, dove il rampollo di una famiglia mafiosa sparò in testa a Yusupha Susso, un giovane gambiano, dopo avergli ordinato, senza successo, di abbandonare il quartiere. L’immagine, in bianco e nero, riproduceva una scena della battaglia di Adua, nella quale un soldato italiano spara in faccia a un abissino. A colorarla ci ha pensato Khalid, artista egiziano residente a Palermo.
Nella già citata Piazzetta Due Palme, oltre a chiose e glosse, illustrazioni a colori della guerra coloniale cui fa riferimento l’odonimo, sono state incollate su vetrine dismesse, e collocate, a pagamento, negli spazi pubblicitari che a Palermo si trovano in molte vie, direttamente sotto le targhe con i loro nomi.
In Via Magliocco, nello stesso tipo di collocazione, hanno trovato posto fotografie d’epoca di civili etiopi sfigurati dalle bombe all’iprite dell’aviazione italiana, diretta tra gli altri proprio dal generale Vincenzo Magliocco.
La ditta che si occupa di affittare quelle bacheche, non ha avuto nulla da eccepire sul contenuto delle immagini, limitandosi a riscuotere la cifra prevista per due settimane di esposizione. È significativo che proprio queste epifanie – con la loro cornice perfettamente normata e normale – siano state l’intervento che più di ogni altro ha attirato l’attenzione dei passanti e dei media, oltre ad essere uno di quelli che è riuscito a resistere più a lungo (fino alla scadenza del contratto d’affitto, che in qualche modo ha condannato, ma anche protetto, queste tracce di fantasmi).
– Le metamorfosi, simili alle chiose, sono interventi sulle targhe stradali che, aggiungendo un piccolo testo, ne modificano il senso. L’unico esempio prodotto durante Viva Menilicchi! è quello di via Rodi, trasformata con un adesivo in Via comunità ebraica di Rodi. La comunità ebraica dell’isola – annessa all’Italia nel 1912, dopo la Guerra Italo-Turca – fu infatti sterminata nei campi nazisti anche grazie agli elenchi dei 1815 ebrei residenti, passati all’alleato tedesco dalle autorità repubblichine.
– Nelle necromanzie si evocano i morti, attraverso le loro poesie, come il Canto del Campo di Al-‘Aqila di Rajab Bu-Huwayish, scritto in un campo di concentramento fascista in Libia, o L’epopea del povero di Mario Scalesi, nato a Tunisi da genitori siciliani e morto nella Reale Casa dei Matti di Palermo, di fronte alla quale è comparsa una sua fotografia e sono risuonate le sue parole. Anche Hailè Selassiè, imperatore d’Etiopia, è apparso in effige, a maledire il Tempio Munito Fortezza Mistica, una “casa del mutilato” eretta dal fascismo, che ancora ospita, a fianco della facciata, una lapide con il discorso tenuto da Mussolini il 5 maggio 1936, per annunciare agli italiani la “conquista” dell’Etiopia (ovvero l’occupazione di appena un terzo dell’intero paese). Contro le energie negative irradiate da quel pezzo di marmo, è riecheggiato l’intervento di Hailè Selassiè alla Società delle Nazioni, per denunciare l’uso di armi chimiche da parte dell’aviazione italiana.
– Una vera e propria rinascita ha coinvolto un vecchio chiosco di giornali, chiuso da anni, a pochi passi dall’incrocio dove anarchici e socialisti attaccarono una processione di beneficenza per i caduti di Adua al grido “Viva Menilicchi!”. L’edicola, riaperta e risistemata, è stata utilizzata per distribuire ai partecipanti una copia anastatica del “Giornale di Sicilia” del giorno seguente, che riportava la notizia. Civette con “strilli” riguardo allo stesso episodio hanno addobbato l’esterno del chiostro, come per effetto di una tipografica macchina del tempo.
– Oggetti, simboli ed emblemi hanno offerto un appiglio concreto per le storie dei luoghi e degli avvenimenti che li hanno segnati. A ricordare Noureddine Adnane – ambulante marocchino vessato dalla polizia municipale – è comparsa una targa, sullo spartitraffico dove si diede fuoco per protesta. Per Loveth Edward sono nate sei piantine, una per ogni anno trascorso dalla sua morte, sistemate in un’aiuola brulla di Cortile Barcellona, a pochi metri dall’incrocio dove fu trovato il suo cadavere.
– Lungo il percorso, numerose testimonianze hanno aiutato a cogliere il senso dei luoghi. Le Donne di Benin City al Teatro Montevergini, Fausto Melluso all’ARCI Porco Rosso, gli ideatori del progetto Siciliani d’Africa alla Cala, Claudio Arestivo per Mediterranea – Saving Humans, Cristina Alga per Refugees Welcome, i volontari della Clinica Legale per i Diritti Umani, e i giovani migranti del progetto Ragazzi Harraga.
– L’annuncio del percorso previsto, con le diverse tappe, pubblicato e diffuso già diversi giorni prima della camminata, ha stimolato interventi non previsti e non concordati con l’organizzazione della biennale, attraverso i quali ignoti cittadini hanno voluto portare il loro contributo spontaneo all’iniziativa. In Via Pola, incollati a un muro, sono comparsi come epifanie alcuni fogli in formato A3 che riproducevano la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia con il decreto fascista del 29 marzo 1923 sull’italianizzazione dei toponimi nei territori annessi dopo la Prima Guerra Mondiale (Istria, isole del Quarnaro, Zara, Spalato, Cattaro). In Via Tripoli, una chiosa in vernice rossa, con gli stessi caratteri dell’indicazione stradale, anch’essa dipinta direttamente sul muro, recitava: «luogo di crimini del colonialismo italiano». Si sono poi verificati alcuni anabattesimi – ovvero nuove intitolazioni – che come detto erano esclusi a priori dal tipo di azioni previste prima e durante la camminata. La piccola aiuola al centro di Piazza Bottego, grazie a una targa in plastica fissata a un lampione, ha preso il nome di “Giardino Lorenzo Taezaz (1900 – 1947) – Protagonista della resistenza contro il fascismo in Etiopia”. Un’altra minuscola area verde, di fianco a un parcheggio di Piazza Magione è diventata, sempre tramite una targa, il «Giardino Xawo Taako – Uccisa durante la rivolta di Mogadiscio dell’11 gennaio 1948 contro l’ipotesi di un’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia». Infine in Via Napoli, all’angolo con Piazza Bottego, dentro una cornice realizzata apposta sulla facciata di un palazzo per ospitare il nome della via, rimasta vuota fin dall’origine o in seguito a qualche incidente, si è materializzato un cartello con scritto: «Piazza Ilio Barontini – combattente antifascista in Spagna, Etiopia e Italia».
Queste irruzioni impreviste all’interno del rituale sono state uno stimolo importante per riflettere sulla dimensione partecipativa dell’opera, la sua capacità di includere contributi non calcolati, le gabbie imposte dal rispetto di un percorso predeterminato, con orari rigidi e coreografie studiate in anticipo per le diverse stazioni – pur con l’evidente casualità di un’iniziativa condotta per strada, e il rischio di raccontare aggressioni razziste proprio sotto le finestre di chi le aveva compiute.
A fronte di tante persone che hanno sottolineato un particolare coinvolgimento dovuto proprio al ritmo dei passi, alla sequela di soste e ripartenze, e al “mantra” delle parole pronunciate dall’alto della scaletta pieghevole, una sola viandante ha contestato il termine “rituale” – troppo religioso e normativo – suggerendo di muoversi in maniera più libera, senza attenersi a un cerimoniale e a una mappa. Il consiglio è senza dubbio fecondo, anche se, per evocare gli spettri coloniali e la loro eredità, non era semplice rinunciare a una liturgia, per quanto informale, nonché a una sana forma di rovesciamento, dove l’imitazione di un rito dell’antica Roma – l’amburbale – è servita ad esorcizzare luoghi e personaggi dediti al culto tossico dell’Impero romano.
Terminato il Grande Rituale Ambulante con la lettura, a Palazzo Steri, del brano We Refugees di Anna Harendt, ritradotto per l’occasione, già la mattina successiva sono arrivate dal comune di Palermo pressanti richieste di rimuovere dalle targhe stradali gli adesivi che ne cambiavano o precisavano il senso. Pare che alcuni cittadini della prima circoscrizione, quella del centro storico, si siano lamentati delle chiose applicate nottetempo, com’era del resto prevedibile e auspicabile. In altri casi – come quello della luminaria MINCHIA – l’opera d’arte è rimasta dov’era, nonostante le polemiche. A quanto pare, invece, l’oblio, la falsa memoria e la censura non smettono di perseguitare gli spettri coloniali. L’opera di rimozione – mai termine fu più azzeccato – è stata documentata con riprese e fotografie, e gli stessi promotori della camminata hanno voluto prendervi parte, perché anch’essa, con il suo significato eloquente, fosse considerata parte del progetto.
Inoltre, in virtù di un incantesimo, proprio l’adesivo esploratore e pluriomicida, strappato a Palermo dalla targa di Piazza Bottego, è ricomparso tale e quale a Bologna, 700 chilometri più a Nord, sui cartelli indicatori di una strada dedicata allo stesso individuo.
Ma questa è già la storia dei contagi di Viva Menilicchi!, del diffondersi del progetto in altri territori e contesti. Una storia che merita di essere raccontata in un articolo a parte, il prossimo.
Wu Ming 2 fa parte fin dalle origini del collettivo Wu Ming, una band di narratori con base a Bologna.
Il loro primo romanzo, Q, pubblicato nel 1999, è firmato con lo pseudonimo Luther Blissett.
Da allora, il collettivo ha pubblicato sette romanzi scritti a più mani e due raccolte di racconti, oltre a saggi, fumetti, spettacoli teatrali, e alla sceneggiatura del film Lavorare con lentezza.
Wu Ming 2 è autore di romanzi solisti, reportage, monologhi teatrali, spettacoli circensi e film d’archivio.