Ultimo baluardo del Novecento, la città ha sempre costituito la salda immagine spaziale della popolazione che la abitava, l’esplicitazione dei diritti in vigore, l’espressione della democrazia. La convinzione che, nella sua stabilità, la città funzionasse per sistemi e processi lineari, sosteneva a sua volta l’idea dello spazio urbano come palcoscenico della storia, e sede dei conflitti naturali per la rivendicazione dei diritti urbani. Uno spazio – secondo la pretesa modernista – misurabile, confinato, regolato e regolabile mediante «i solidi archetipi del governo del territorio come misurazione, traccia, solco ipodameo che spartisce i diritti, regola gli usi, ridefinisce i valori» (Cerruti But, 2017).
Negli ultimi dieci anni, l’avvento della crisi economica ha portato lo spazio urbano al centro di conflittualità accese, rendendolo il luogo naturale di un senso di esclusione e di disgregazione che sfociano in una sorta di ipocondria diffusa.
Nell’ottica di una sorta di sanitizzazione socio-spaziale – che a sua volta si nutre e si sostiene di immaginari dominati dalla paura e dall’insicurezza nei confronti dell’indesiderato – si assiste a una trasformazione profonda nel design degli spazi pubblici e nella governance degli stessi: cambiamenti nelle forme urbane del quotidiano, che a loro volta riflettono le idee circa cosa e chi costituisca lo spazio pubblico.
Per usare la metafora di Dovey, «come la cornice di un dipinto o la rilegatura di un libro, l’architettura è spesso sentita come necessaria ma neutra rispetto alla vita interiore» (Dovey, 1999), ed è per questo che la vita nell’ambiente costruito passa in secondo piano nella considerazione di come conduciamo le nostre esistenze. L’architettura e il design urbano, però, “incorniciano” lo spazio e la nostra esperienza al suo interno non solo in senso letterale – la vita quotidiana si svolge all’interno di stanze, edifici, strade e città ed è inquadrata da pareti, porte e finestre – ma anche in senso metaforico. L’idea di “frame”, secondo però, contiene una sostanziale ambiguità: usato come verbo, “inquadrare” racchiudere all’interno di un perimetro, ma anche modellare, dar forma alle cose. Per Dovey, dunque, inquadrare implica sia «la costruzione di un mondo che un modo di vedere noi stessi in esso, allo stesso tempo immagine e specchio». In ciascuno di questi sensi, il design della forma costruita è la pratica di inquadrare i luoghi della vita quotidiana, ed è proprio attraverso queste inquadrature, sia letterali sia discorsive, che l’ambiente costruito media, costruisce e riproduce relazioni di potere. L’ambiguità del termine “inquadratura” riflette allora, per Dovey, quella del nesso tra spazio e pratiche di potere o, in altri termini, il livello di interazione complesso e stratificato che si instaura tra forme architettoniche e comportamento sociale.
Nelle prossime pagine, allora, si rifletterà su come gli elementi architettonici non possano mai essere di per sé trasparenti ma, anzi, sempre soggetti a interpretazioni. Riflettere su alcune di queste interpretazioni può essere un modo efficace per comprendere come le forme costruite modulano la nostra esistenza e uscire, così, da una rappresentazione cartografica bidimensionale dello spazio che lo immagina come qualcosa di fisso, inerte e muto, per riconoscere piuttosto la conflittualità intrinseca che lo riguarda.
Spesso, infatti, l’architettura di un edificio o di un quartiere sembra rispondere a puri canoni estetici, eppure nessun progetto è privo di quel che Langdon Winner ha definito “a profound significance” (Winner, 1980). Nel suo saggio capitale Do Artifacts Have Politics?, Winner prende in considerazione il caso della progettazione della rete stradale di New York degli anni Trenta, nel dettaglio dei ponti progettati da Robert Moses sulla Long Island Expressway. Questi ultimi furono progettati con un’altezza sufficiente a far passare le automobili della borghesia bianca benestante, ma non i mezzi pubblici, quegli autobus alti all’incirca dodici piedi, da cui dipendeva la mobilità di gruppi a basso reddito e minoranze etniche. Di certo, la maggior parte delle persone che guidava l’auto sulle strade newyorkesi dell’epoca, passò sotto quei ponti senza percepire una tale dinamica di esclusione. Al più, qualcuno probabilmente notò la facilità con cui si potevano raggiungere le spiagge di Long Island. Eppure i ponti di Moses, secondo Winner, furono molto di più di un semplice progetto di gestione del traffico, e costituirono una barriera architettonica che, di fatto, impediva la fruizione di un certo tipo di spazi a un certo tipo di popolazione. Il significato eminentemente politico del progetto, tuttavia, è efficacemente passato in secondo piano, e Robert Moses è stato a lungo celebrato come colui che riuscì a dare un volto rinnovato alla città di New York.
La pianificazione fisica delle nostre città ha sempre lavorato per rendere esecutivo un certo codice di condotta sociale e può essere chiaramente ricondotta all’interesse delle istituzioni per il controllo dei territori. Sebbene ogni arte di governo contenga un elemento utopico – poiché si governa sempre a partire dal desiderio di introdurre dei cambiamenti significativi nella condotta degli individui – il governo delle vite aspira a modificare i comportamenti presenti dei soggetti, con lo scopo di modellare i loro comportamenti futuri (Leghissa, 2013). Nel disegno specificatamente neoliberale, l’urbanistica è uno dei saperi e degli strumenti di questo progetto utopico di gestione degli spazi, dunque della popolazione. L’esempio della progettazione della rete stradale di New York di Robert Moses è un esempio affascinante ed esemplificativo di questa tendenza e dimostra come un design accorto possa plasmare configurazioni politiche destinate a rimanere stabili. Per costruire nuove mappe della violenza estetica negli spazi urbani che frequentiamo quotidianamente, allora, è necessario uno studio profondo degli stessi, un’indagine che parta dall’analisi dei rapporti di potere che li supportano e li definiscono.
A partire dalla consapevolezza che l’univocità del gesto architettonico è un argomento quanto mai problematico e ambiguo, la recente ricerca urbana ha individuato così, nel progetto urbano contemporaneo, il fenomeno della cosiddetta “architettura ostile”, “architettura di controllo” o “unpleasent design”. Negli ultimi anni, in particolare, studiosi come Dan Lockton, Gordan Savicic e Selena Savic, esaminano la relazione tra spazio, design e interazione sociale, concentrandosi su fenomeni urbani in cui il controllo sociale è inerente alla progettazione di oggetti. Per usare le parole di Dan Lockton: «Architectures of control are features, structures or methods of operation designed into physical products, software, buildings, city layouts – or indeed any planned system with which a user interacts – which are intended to enforce, reinforce, or restrict certain modes of user behaviour» (Lockton, 2005).
L’osservazione di questi tipo di “design spiacevole” nasce, dunque, dall’esperienza quotidiana con spazi urbani sempre più estranei e scomodi: panchine, sporgenze, corrimano e marciapiedi costituiscono esempi diffusi di una tendenza progettuale che ha lo scopo specifico di mettere le persone a disagio o interferire con il loro uso dello spazio pubblico. Le implementazioni spaziano notevolmente – dagli interventi architettonici agli interni dell’ambiente costruito, dai dispositivi elettronici diffusi all’arredo urbano – e svolgono un ruolo significativo nel modo in cui percepiamo e interagiamo con gli spazi del quotidiano. Alle volte le soluzioni di unpleasent design sono utilizzate dalle autorità cittadine, altre sono installate da sistemi di sicurezza e gestione aziendali ma, molto spesso, si situano su quel confine incerto tra interesse pubblico e impegno di soggetti privati, nella cura dello spazio pubblico. Inoltre, a differenza dei progetti di Moses, l’architettura ostile è volutamente progettata per apparire insignificante, integrandosi negli aspetti banali del paesaggio urbano, in quanto componente dell’arredo urbano dal preciso tenore estetico. Questo tipo di disegno dello spazio si inserisce pienamente nella «ricerca di una nuova estetica urbana che, vista da vicino, non è nuova affatto» (Bianchetti, 2016), e che si lega piuttosto alle evoluzioni del progetto urbanistico in epoca neo-liberale.
A partire dagli anni del boom economico della seconda metà del Novecento, si delinea una nuova frontiera urbana (Smith, 1996), in cui i paradigmi di azione delle istituzioni politiche urbane si focalizzano sempre di più sui problemi della competitività economica locale. A questo proposito Harvey parla, infatti, di un passaggio dalla “managerialità” all’“imprenditorialità” urbana (Harvey, 1989). Se la prima era guidata da un’economia politica del territorio, la seconda è profondamente influenzata dagli interessi economici che hanno come oggetto specifico il luogo: i benefici delle strategie imprenditoriali sono indirizzati e vissuti in primo luogo da coloro che non vivono nella specifica località, ma la abitano temporaneamente, come ad esempio i turisti.
A partire dagli anni ’80, infatti, in un regime economico nazionale caratterizzato dalla crescente difficoltà da parte degli enti locali di usufruire e amministrare risorse provenienti dallo stato centrale, i governi delle città americane e di quelle europee si sono impegnati nel ricapitalizzare “i paesaggi economici” delle loro città (MacLeod, 2002). Con l’affermarsi dell’egemonia neoliberale in una dimensione di inarrestabile globalizzazione, le città si sono progressivamente trasformate in imprenditori impegnati attivamente nella ricerca di risorse pubbliche e private, in una competizione a somma zero tra un sistema urbano e l’altro. Attraverso azioni strategiche – basate sulla costruzione di un’immagine positiva, innovativa e appetibile, che contribuisce ad attirare nuove attività economiche, nuovi servizi e nuove categorie di consumatori – la città desiderabile si inscrive in un paradigma estetico i cui tratti irrinunciabili sono competitività, seduzione, bellezza, varietà, centralità, fruibilità, sicurezza. Dal momento che “l’immagine è tutto” (Mitchell, 2003), la costruzione di immaginari diviene una componente fondamentale della strategia imprenditoriale, e l’estetica si inserisce nella progettazione in un senso profondo, che va ben al di là dell’estetizzazione dei luoghi.
Il modello della città decorosa, nella misura in cui rappresenta l’interesse della stessa città neoliberale, riorganizza la morfologia degli spazi: ne deriva una città fortemente controllata, tramite una fusione di forme architettoniche e pratiche istituzionali il cui obiettivo è quello di impedire la visibilità dei gruppi marginali che, con la loro presenza, potrebbero compromettere la valorizzazione dell’immagine stessa della città. La rinascita di spazi curati, basata su una retorica della pulizia, dell’ordine e del decoro, nasconde così una demarcazione brutale tra vincitori e perdenti, tra inclusi e esclusi: i destinatari d’uso dello spazio pubblico diventano tutti coloro che abbiano sufficiente potere di consumo, aggravando così, la distanza e la scissione tra fasce diverse di consumatori, tra benestanti e indigenti, tra i domiciliati e i non domiciliati (Pitch, 2013).
Ma in che modo l’estetica si pone a servizio di questo dispositivo retorico? Nella ricerca sull’unpleasant design, i primi elementi su cui concentrarsi sono, ad esempio, i materiali e le relative proprietà che possono avere applicazioni violente (Savicic e Savic, 2014). Superfici fredde e levigate o bordi smussati consentono di proporre una tassonomia di oggetti che recano in sè un fattore spiacevole per l’esperienza umana. In secondo luogo, ci sono alcune forme ricorrenti, ad esempio le forme ovali e rotonde che impediscono attività quali dormire, sedersi, pattinare.
Non è necessario essere un flâneur contemporaneo e perdersi nell’attraversamento della città per posare l’occhio su queste forme, aspetti ricorrenti degli urban interiors che sono già sotto gli occhi di tutti. Si vedrà, ad esempio, che le superfici piane e inclinate che potrebbero essere utilizzate come rampe per scivolare sullo skateboard, sono spesso segmentate o intervallate dalle cosiddette “pig-ears”, flange metalliche che di fatto rendo impossibile una tale risignificazione d’uso dello spazio. Piccoli e insignificanti devices dalla forma appuntita, o dalla più gradevole forma tondeggiante occupano, invece, gran parte degli interstizi architettonici che sono soliti ospitare i “senza fissa dimora” durante la notte. Gli ingressi degli esercizi commerciali, delle banche o dei condomini residenziali, cioè tutti quelli spazi di transito che sono tradizionalmente attraenti per le persone che cercano un riparo improvvisato, sono ormai resi efficacemente scomodi, o meglio impossibili da utilizzare per questi scopi. Sebbene dispositivi quali le pig ears – o le luci rosa che colpiscono gli adolescenti, evidenziando imperfezioni della pelle e scoraggiando il bighellonare in giro per la città – discrimino target precisi come gli skateboarder e, per estensione, gli adolescenti, l’obiettivo più controverso dell’architettura ostile sono certamente le persone senza fissa dimora.
In ogni caso, a destinatari diversi, corrisponde la stessa strategia progettuale: spostare il comportamento piuttosto che vietarlo, costringendo le comunità target al trasferimento in altre aree della città. Questo ci porta a definire una delle caratteristiche principali delle strategie di unpleasent design, cioè il suo rivolgersi a gruppi sociali specifici e il suo agire a specifici livelli demografici, proponendosi come soluzione immediata al problema del trattamento dell’indesiderato. Orientato sulle restrizioni e le funzioni dissuasive, il design urbano assume così un approccio perverso incentrato sull’utente, trattando l’oggetto di progettazione da una prospettiva specificatamente anti-utente. Nonostante l’apparente semplicità di intenti progettuali, dal punto di vista estetico, il linguaggio dell’unpleasent design assume, infatti, un crescente livello di ambiguità. L’obiettivo non è danneggiare gli utenti dello spazio pubblico in generale: se è vero che borchie e spuntoni sono le armi di una guerra il cui nemico facilmente riconoscibile, è anche vero che noi tutti vogliamo che i nostri parchi e le nostre strade siano gradevoli. Il fatto che, per rendere lo spazio più piacevole per la maggior parte delle persone, sia necessario renderlo spiacevole per alcuni gruppi marginali, è proprio il paradosso che l’architettura ostile è riuscita a costruire attraverso lo strumento dell’estetica. L’estetica obsoleta della “fortezza” delle punte anti-senzatetto è stata sostituita da un aspetto assai più contemporaneo: in altri termini, il messaggio esclusionista resta il medesimo, ma assume un volto più amichevole.
Il risultato di questo esercizio di equilibrismo è la panchina Camden, commissionata dal Camden Borough Council, progettata da Factory Furniture e installata a partire dal 2012 in tuttà la città di Londra. La sommità increspata e i bordi inclinati, che ricordano formalmente l’architettura cubista, assolvono a scopi prettamente funzionali: è impossibile dormirci su. Inoltre, essendo una lastra indivisa in cemento denso e levigato, non è spostabile se non con una gru e non è possibile nascondervi droghe o armi. Resistente e presumibilmente a prova di crimine, la panca è stata progettata per affrontare i cosiddetti bisogni di strada contemporanei: scoraggiare il sonno illecito, lo spaccio di droga, il furto di borse, ridurre i rifiuti e così via. La funzionalità di questo oggetto esiste, dunque, paradossalmente, solo in termini negativi, coesistendo nella sua non utilizzabilità, cioè nella dissuasione da tutta una serie di azioni che sono di fatto rese impossibili dal suo stesso disegno. Così, le qualità discriminatorie che le sono conferite direttamente dalle sue qualità sensibili, rendono la Camden Bench un simbolo delle difficoltà che animano oggi lo spazio pubblico, nonchè un esempio dell’ostilità trasparente che pervade le nostre città. Tuttavia, se molti esempi di architettura ostile sono caratterizzati dalla loro evidente negatività, la Camden Bench è stata sviluppata, e costruita per inserirsi pienamente nei contesti estetici delle nostre città, sollevando una questione che richiede una riflessione profonda: l’architettura ostile diventerà una caratteristica deliberatamente accettata dell’ambiente costruito?
Il progetto contemporaneo oggi gioca su aspetti percettivi, di sensibilità, di comfort, rinforzando l’identità e l’abitabilità di un soggetto scarnificato e piatto (Bianchetti, 2016). Lo spazio urbano smette, allora, di essere uno spazio dai molteplici usi, traiettorie multiple e abitato da più pubblici, circoscrivendo contemporaneamente l’esperienza sociale dei beni comuni urbani a target diversi, secondo criteri diversi. E secondo, Hardt e Negri, proprio «questo trend della pianificazione urbana e dell’architettura traduce in termini concreti e fisici ciò che abbiamo definito come la fine del fuori, la riduzione dello spazio pubblico che aveva permesso interazioni sociali aperte e non rigidamente programmate» (Hardt e Negri, 2002).
È, in fin dei conti, il controllo che – differenziandosi in molteplici forme di azione e di progettazione degli spazi della vita quotidiana, che potremmo sinteticamente definire inclusive o esclusive – organizza le territorialità contemporanee. Sebbene gli assunti neoliberali della globalizzazione abbiano lasciato massima libertà di movimento al capitale – deregolamentazione, riduzione dei dazi doganali e detassazione delle rendite hanno reso semplicissimo e conveniente per il capitale muoversi tra i confini – è proprio sullo spazio fisico che si innestano forme di controllo esclusivo volte a preservare il più possibile determinate aree, escludendo l’eterogeneità e la possibilità del conflitto dallo spazio pubblico.
Nella città qualificata in senso biopolitico – in cui lo spazio è inteso come articolazione di vari dispositivi governamentali, che regolamentano il passaggio di confini, la circolazione di flussi, e non solo – le ricerche sull’unpleasent design o architettura ostile, allora, possono dirci molto su come i corpi vivono gli spazi urbani. Si tratta, come si è visto, di posare lo sguardo su quegli “agenti silenziosi” che si sono materializzati in oggetti e dispositivi e che, non solo inibiscono le pratiche d’uso dello spazio ritenute inaccettabili, ma impediscono anche le interazioni tra autorità e cittadini. Non lasciando spazio alla discussione e alla disobbedienza, essi fanno parte di un progetto architettonico e di design accuratamente pianificato, il cui risultato è scongiurare la possibilità di incontri indesiderati, assicurando piuttosto relazioni tra simili.
L’esito ancora meno visibile di questa organizzazione formale della vita quotidiana è, poi, il rifiuto totale della complessità. I comportamenti che prendono forma nel disegno neoliberale della città conducono a quello che potremmo definire un livellamento sistematico, un appiattimento delle distinzioni strutturali, il ricorso alle semplificazioni e il rifugio nelle preferenze individuali, irrazionali e antisociali. La gangsterizzazione dilagante della sfera sociale è certamente un fenomeno correlato ed esemplificativo di tutto ciò. Tuttavia non sono solo le esplosioni spettacolari della violenza urbana che dobbiamo guardare per riaffermare l’antidoto della complessità, bensì proprio quella violenza che si situa nel normale ordine delle cose, nei luoghi in cui viviamo ogni giorno.
Le forme, le caratteristiche e l’atmosfera degli ambienti urbani, infatti, prendono forma in base alle forze geografiche, politiche ed economiche a cui la città è soggetta e a cui contribuisce. Nella sua morfologia fisica e sociale sono iscritti gli effetti di queste forze, i loro esiti sempre diversi e storicamente determinati.
Il contatto atmosferico con lo spazio suggestiona l’intera quotidianità ed è una realtà che tutti conoscono, in modo più o meno diretto e consapevole, “uno stato cioè difficilmente definibile, non perché raro o inconsueto ma, al contrario, perché tanto onnipresente, seppure talvolta inavvertito, quanto lo è la situazione emotiva” (Griffero, 2010). L’analisi estetica del vivere urbano intende, allora, ridare senso a questo inavvertito e renderlo consapevole, usandolo come strumento efficace per orientarsi tra i fenomeni odierni, soprattutto quelli che afferiscono alla “manipolazione mediatico-emozionale in cui sfocia l’estetizzazione della politica e della vita sociale nell’economia ‘scenica’ tardocapitalista” (Griffero, 2010). L’utilità risiederebbe principalmente nella possibilità di individuare la genesi di una determinata atmosfera e di “disinnescarla”, attraverso un depotenziamento causato dalla sua introiezione ed elaborazione consapevole da parte del singolo.
L’ipotesi, insomma, è che leggere gli effetti esercitati dallo spazio urbano sulla nostra vita quotidiana, sia il primo passo per identificare le forze che sono alla base del design delle nostre città. La sfida potrebbe essere, poi, quella di estrarre il design e l’estetica tutta dall’oscillazione fra seduzione e ornamento che li connotava nel XX secolo, per riconoscere il ruolo di metodo speculativo, decisionale, e governativo che oggi ricopre. In altri termini politicizzare e complessificare lo sguardo estetico, inteso in senso ampio, per ritrovare nella progettazione una forma di costruzione che non sia sinonimo di disciplinamento estremo. Piuttosto ripartire da quei nodi concettuali – quali l’estraneo e il familiare, il corpo e lo spazio, la pacificazione e il conflitto – da quegli elelementi di irriducibilità e imprevedibilità che sfuggono alla normazione, per renderli generativi. Allo stesso tempo assumere una posizione ferma sulla violenza estetica e riflettere sulle ramificazioni di questa nuova brutalità attraverso le pratiche culturali, nella misura in cui le arti e le discipline umanistiche possono interferire in questo immaginario, e alterarlo.
Riappropriarsi dei “fatti urbani” (Rossi, 1984) per riaprire le domande di senso circa le nuove ermeneutiche dell’abitare; ripensare la contemporaneità urbana, per suscitare nuove domande sul senso della forma, sull’estetica degli spazi, sulla complessità degli spazi vissuti: questo è un lavoro che la cultura del progetto può e deve tornare a fare, realizzando ponti di interesse tra i diversi paradigmi accademici, tra i campi e i sottocampi degli studi culturali. Solo così la progettazione, nella complessità dei nostri tempi, può tornare a essere progettualità per lo sviluppo di individualità libere. E, stabilendo connessioni tra luoghi vicini e lontani, tra le nostre azioni quotidiane e le loro cause e conseguenze, ricominciare a progettare per trasformare, per agire.
Bibliografia
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Bianca Buccioli (Bari, 1994) è curatrice e membro fondatore del collettivo curatoriale CampoBase. Si è laureata in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari, e successivamente presso l’Università di Torino. La sua ricerca si colloca tra gli ambiti dell’ontologia dell’arte, dell’estetica, della sociologia urbana e delle pratiche curatoriali.