Antefatti
Erto (PN) 1964
Sono passati alcuni mesi da quando, il 9 ottobre 1963, il monte Toc è franato nel lago dando vita ad un’onda di 250 metri d’altezza che in pochi minuti ha distrutto una dozzina di piccole frazioni e ucciso più di duemila persone. Erto ha subito importanti danni, ma è in buona parte ancora in piedi. Esiste tuttavia il pericolo di un’ulteriore frana: si decide così di sistemare i superstiti altrove e di sgomberare tutta la valle del Vajont. Un’ordinanza nazionale, arrivata direttamente dal Ministero dei Lavori Pubblici, impone il divieto di accesso e dichiara il comune inagibile e inabitabile. In un febbraio dalle temperature rigide, una ventina di persone rientra in paese occupando case che i mesi hanno contribuito a riempire di polvere. Sono le stanze che quelle famiglie abitano da generazioni, ma da questo momento lo fanno illegalmente.
Topolò/Topolove (UD) 2021
In un paese in bilico tra Italia e Slovenia viene inaugurata dal collettivo Robida un piccolo spazio di convivialità battezzato Izba: nel dialetto sloveno di queste zone l’izba è la sala adiacente alla cucina in cui si accolgono gli ospiti, luogo di condivisione e sosta. Nello stesso anno nasce un altro luogo di incontro, immateriale: è Radio Robida, che dà voce a Topolò e alla vita che si muove al suo interno. La particolarità di questi eventi, ultimi di una lunga serie, dipende dal fatto che il borgo fino a pochi anni prima era quasi totalmente disabitato.
Il racconto di Topolò è imprescindibile dalla sua particolare posizione geografica: nel secolo scorso si trovò a ridosso della cortina di ferro e fu attraversato dal fronte di due guerre mondiali, che ne devastarono la popolazione e l’economia, causando un abbandono massiccio.
Da dove partire
Erto e Topolò sono paesi montani del Friuli Venezia Giulia soggetti a un forte processo di spopolamento, condizione comune a molte realtà alpine e fenomeno di vecchia data, sebbene mai evidente e pervasivo come oggi. Come ogni persona nata e cresciuta al nord-est, ho assistito al deflusso di persone dalla montagna verso una pianura sempre più antropizzata, affollata in pochi anni di parchi commeriali e zone industriali che ne hanno modificato sostanzialmente il paesaggio. La distanza che separa questo scenario da quello di borghi in cui il tasso di natalità è azzerato e le scuole sono chiuse si è fatta incolmabile; ciononostante l’idea di rassegnarsi all’abbandono dei paesi montani è impraticabile per molte, valide ragioni. Urge forse uscire dallo spazio della dicotomia montagna-pianura, che rende la lotta allo spopolamento una sfida persa in partenza. Urgono interventi che, lungi dal ricalcare il modello produttivo della pianura o quello arcadico di un passato ideale, riflettano su nuove vie per abitare questi luoghi.
Da qui nasce la mia riflessione su Erto e Topolò, realtà storicamente e culturalmente molto differenti, ma che possono essere accomunate attraverso una chiave di lettura di ordine pedagogico.
Nel 1998 Etienne Wenger pubblicò un volume sulle comunità di pratica e sulle dinamiche di apprendimento collettive, frutto di oltre un anno di ricerca all’interno di un ufficio assicurativo svizzero. Si accorse che, specialmente di fronte a problemi inediti, il gruppo di lavoro sviluppava strategie collettive di riflessione e intervento che non sarebbe stato possibile produrre se i singoli membri avessero agito separatamente: la dimensione collettiva fungeva da collante e da innesco per negoziare e innovare le pratiche. Composte da una robusta triade teoretica (pratica – comunità – identità), le comunità di pratica sono gruppi spontanei che condividono un interesse e una serie di problemi e che sviluppano un’identità e una conoscenza comune attorno ad una pratica (Wenger, 2004).
Previo un radicale cambio di scenografie, considerare le due realtà alpine come comunità di pratica apre ad una serie di prospettive e interrogativi: qual è la pratica che unisce e definisce le due comunità? In che modo le comunità si articolano attorno ad essa? Come, infine, le comunità intessono relazioni interne ed esterne attraverso la pratica?
Se è possibile individuare una pratica che accomuna queste due esperienze, si tratta di una pratica di cura, che si concretizza e si declina nelle diverse azioni di cui si compone l’abitare. Sarà bene definire da subito che cosa si intenda qui con i termini pratica e cura, che saranno alla base delle riflessioni successive.
Wenger parla di pratica come concetto-ombrello, ovvero un modo socialmente definito di fare qualcosa, che include aspetti espliciti e taciti della conoscenza collettiva. La pratica riguarda quindi l’organizzazione di una comunità, ma anche tutti quegli scambi informali che si compongono di nozioni, strumenti, aneddoti, storie, memorie, approcci, idee, luoghi comuni, un preciso senso dell’umorismo e un certo carattere condiviso, oltre che una condotta etico-morale; «in questo senso, la pratica è una sorta di mini-cultura che lega assieme la comunità» (Wenger, McDermott, Snyder 2002: 5).
Per quanto riguarda la cura, si tratta di un concetto che ha ampliato il proprio raggio d’azione e che è stato profondamente trasformato dalla letteratura femminista. Le scrittrici Joan Tronto e Berenice Fisher, ad esempio, definiscono la cura come «una sorta di attività che include tutto quel che facciamo per mantenere, perpetrare, e riparare il nostro “mondo” così da poterci vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi, e il nostro ambiente […] in una complessa rete che costituisce la vita» (Fisher, Tronto 1990: 40).
In periodo pandemico il gruppo inglese The care collective ha inoltre parlato di cura come «la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive affinché la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso» (The care collective 2020: 21). Entrambe le definizioni propongono una visione complessa, che esce dalla concezione di cura domestica per aprirsi ad un approccio sistemico e relazionale. Pensare alla cura come relazione ecosistemica ne allarga i perimetri semantici: ciò che è cura riguarda le relazioni umane, ma anche i luoghi, le architetture con il loro genius loci, l’ambiente naturale, la memoria.
In quest’ottica, considerare la cura come pratica e non, ad esempio, come semplice attitudine ne restituisce la multidimensionalità: ciò che è cura non può esistere come virtualità e non si manifesta nel vuoto, ma emerge in azioni e contesti precisi, investendo i gesti personali e collettivi, i modi di pensare e i legami (Tronto 2013). E se, come ricorda Wenger, la comunità di pratica ha la caratteristica di una relazione interna continuativa, anche la cura come pratica assume senso laddove ha tratti costanti e vi è garanzia di presenza – dell’esserci. Quanto realizzato per evitare lo spopolamento di Erto e Topolò rientra a pieno titolo in questa ampia concezione della pratica di cura.
Prima tappa: Erto
La valle del Vajont è un luogo in cui il trauma storico subito dalle comunità locali è ancora, dopo sessant’anni, fisicamente visibile nel fianco sventrato del Monte Toc. Sulla parete bianca e ripida di roccia nuda, non cresce neanche il muschio. La strutturazione del paese a due nuclei, sovrastati dalla linea elegante e minacciosa della diga in cemento armato, ne è la testimonianza: da una parte le case in pietra vuote e le strade strette chiuse al traffico, e dall’altra gli appartamenti della fine degli anni ‘70. Nel cambiamento della morfologia e dell’architettura della valle sono nascoste numerose forme di violenza oltre quella ben nota dell’esondazione della diga e delle sue conseguenze. I decenni successivi al disastro sono stati una perpetrazione di quel trauma che ha disgregato la comunità, destinata ad anni di instabilità e infine sistemata in tre centri urbani differenti: Erto, il paese di Vajont (costruito ex-novo a valle) e Ponte delle Alpi.
La storia della valle del Vajont è complessa e crea in chiunque vi si immerga una comprensibile rabbia, perché il passare degli anni ha reso evidenti le responsabilità degli enti pubblici e del profitto privato (Merlin 1983) e perché non è stato un trauma che si è esaurito nell’ottobre del ‘63. Seguire le vicende della comunità ertana negli anni successivi al disastro – quando il clamore mediatico si era attenuato – significa ripercorrere anni di precarietà abitativa, proteste e abbandoni (Comin 2013). Significa anche confrontarsi con una gran quantità di leggi e provvedimenti amministrativi, avendo spesso l’impressione che gli organi deputati alla ricostruzione avessero una visione a dir poco miope dei reali bisogni della popolazione.
Quasi due terzi della comunità ertana scelse di accettare l’offerta dello stato di costruire un nuovo paese a valle e si trasferì, a partire dal ‘68, in un abitato simbolicamente denominato Vajont. Chi in quel contesto lasciò Erto lo fece per una pluralità di ragioni: la prospettiva di una casa nuova, la vicinanza ai servizi della pianura, la promessa di un posto di lavoro in una zona industriale di nuova costruzione, l’occasione di una vita diversa da quella del prima. Non ultimo, il vecchio paese era considerato non abitabile. Per chi aveva deciso di partire la sistemazione fu più rapida: quando all’imbocco della strada per Erto, sul passo Sant’Osvaldo, c’era ancora il posto di blocco dei carabinieri e in paese si poteva entrare solo attraverso un permesso speciale, chi aveva optato per il trasferimento era già stato sistemato in pianura. La minoranza che restò in montagna – circa 400 persone – lo fece con innumerevoli difficoltà: la macchina burocratica di Roma si muoveva molto lentamente, gli aiuti arrivavano a singhiozzo, le sistemazioni abitative provvisorie causavano insofferenza. Intanto il paese era ancora ancorato alla montagna e non accennava a voler franare. Alcune famiglie ertane aggirarono quindi i posti di blocco percorrendo i sentieri sulla montagna e tornarono nelle loro case. Dapprima lo fecero durante il giorno, per valutare lo stato di salute degli immobili e accudire le proprietà, ma ben presto rientrarono in paese anche la notte.
Iniziò l’occupazione abusiva di Erto, un braccio di ferro con le autorità statali che si protrasse per anni, concludendosi solo nel 1971 con un decreto che rendeva il vecchio paese nuovamente accessibile. Sull’ostinazione di alcuni organi dello stato nel negare il rientro a Erto esistono diverse posizioni. Quella ufficiale riguarda la tutela della sicurezza e dell’incolumità della cittadinanza, ma non è raro imbattersi in chi crede che la valle dovesse rimanere vuota per una precisa volontà di riutilizzare in futuro quella diga che era costata miliardi di lire e che non era mai entrata davvero in funzione. Raccontare questa storia non è semplice, perché come tutte le memorie recenti si compone di frammenti spesso discordanti tra loro, di drammi e punti di vista individuali intessuti in un trauma collettivo. Ci sono tuttavia dei punti di concordanza tra le varie voci di chi visse a Erto a partire dal ‘64 e riguardano il senso di appartenenza al vecchio paese, che non poteva essere abbandonato. Come se, alienando una popolazione dal proprio borgo, sia le case che le persone corressero il rischio di disgregarsi. Per un periodo si visse con cautela, tentando di aggirare i controlli e nascondendo le tracce di vita, collegando la corrente elettrica la sera per poi staccarla il mattino presto. Antonio Carrara, attuale sindaco e allora bambino, mi racconta dei sacchi che ogni sera si usavano per coprire le finestre e celare ogni indizio che la casa fosse ancora abitata.
Questa pazienza si esaurì dopo qualche anno.
Italo Filippin, consigliere di minoranza dal 1969, mi descrive in una lunga intervista una comunità che alla fine degli anni ‘60 era stanca di attendere e reagì attivamente alle mancanze delle autorità. Vennero organizzati una serie di blocchi stradali e proteste che culminarono, nell’aprile del 1971, nelle “quattro giornate di Erto” (Comin 2013). La rivendicazione principale riguardava il diverso trattamento ricevuto da chi era rimasto rispetto a chi era andato ad abitare in pianura e il fatto che non si fossero ancora elaborate soluzioni abitative per Erto. Si decise di occupare il municipio, che allora aveva la sua sede provvisoria nel paese di Cimolais: vennero appesi cartelli di protesta e catene alle porte, furono montate le tende, venne portata la farina per la polenta e altri generi alimentari. Parteciparono alla protesta intere famiglie, confrontandosi con i carabinieri, i militari e le minacce di arresto. Fu un momento importante, sebbene l’occupazione fosse sostenuta solo da una parte della popolazione. È significativo osservare che la pratica di cura assume qui la forma di manifestazione, di rivendicazione politica e riappropriazione degli spazi. Tronto pone queste pratiche alla base delle caring democracies, sottolineandone la natura pubblica: «La cura coinvolge anche questioni strutturali più ampie, come la riflessione su quali istituzioni, persone e pratiche dovrebbero essere utilizzate per svolgere compiti di cura concreti e reali. […] In qualsiasi forma di cura che sia congruente con una società democratica, diventa importante uno standard democratico per giudicare l’adeguatezza della cura» (Tronto 2013: 140). In quest’ottica sistemica, l’azione politica che rivendica cura è a sua volta pratica di cura.
Un altro aspetto che ritorna in molti racconti del periodo riguarda la ricomposizione del ricordo. Il disastro non uccise solo le persone, ma distrusse case, mobili, oggetti, disancorando dalla montagna le prove tangibili di intere esistenze. Il 10 ottobre mancavano i corpi e tutte le fotografie dei morti. In quei mesi iniziò la ricerca delle immagini attraverso conoscenze lontane e, in concomitanza al riassestamento architettonico, si procedette alla ricomposizione dei ritratti. Le immagini recuperate venivano spedite a fotografi in pianura per ottenere fotomontaggi che mostrassero le famiglie perdute al completo. Sono molti gli scatti duramente reperiti o artificialmente ricreati, per poter avere un supporto materiale a cui ancorare la memoria. La pratica di cura assume qui forma più intima, si allontana dalle strade per scivolare tra i soprammobili dei salotti: si fa appello, conta delle voci assenti, esercizio mnemonico che si sforza di tenere insieme la comunità del prima e quella del dopo.
Una delle poche evidenze nella storia di Erto è che senza quegli anni di occupazione illegale il paese sarebbe morto a causa dell’abbandono imposto. La pratica di cura si è concretizzata in forme di resistenza quotidiana fatta di proteste, petizioni, riunioni in comitati, finestre oscurate e fotografie. Si ridefinì la vita in un luogo in cui ogni forma di servizio, dai trasporti pubblici alle scuole, dall’elettricità al collegamento con l’acquedotto, era stato tolto. In un paese in cui persino il prete se n’era andato, fu necessaria una radicale riorganizzazione delle pratiche di cura per far fronte a tutti i bisogni della comunità, specie quelli quotidiani, visibili solo nella loro assenza.
Seconda tappa: Topolò
Topolò – Topolove in sloveno – ha una morfologia simile a tanti altri paesi sparsi per le montagne del nord: poche case adagiate sul pendio di un monte, attorniate da boschi e montagne, sulle quali svetta solitario un campanile. Alcune stradine si allargano in piccoli cortili che fungono al contempo da corti, terrazze e piccole piazze di sosta ad uso della comunità. La tensione tra pubblico e privato – così strettamente marcata in città – nei borghi si fa meno marcata, tanto che le due realtà possono essere facilmente sovrapposte. La strada comunale che collega il paese con il fondovalle venne costruita negli anni ‘50 del secolo scorso: prima Topolò era raggiungibile solo attraverso i sentieri e la mulattiera. Tuttavia, a dispetto della sua posizione isolata e dello spopolamento, il paese è sempre stato un luogo di incontro. Il confine qui non è solo un’evidenza geografica, ma anche una presenza tangibile nella vita quotidiana, che ha determinato il bilinguismo di quest’area e una certa continuità di scambi e contatti. Dal 1994 si è animato ogni estate durante un festival culturale chiamato stazione di topolò/postaja topolove, vero e proprio laboratorio di sperimentazione artistica a cui partecipavano ogni anno migliaia di persone.
In questo contesto – quello di un borgo quasi disabitato ma comunque vitale – nel 2015 nasce Robida, collettivo che unisce riflessione teorica sull’abitare in comunità e creazione artistica, facendo dell’abitare una precisa volontà di ricerca e cura. Il gruppo inizia a frequentare il paese dapprima in estate e poi vivendoci durante tutto l’anno. Il termine robida viene preso in prestito dal dialetto locale e indica i rovi che frequentemente si trovano nei muretti a secco dei boschi che circondano il paese. Una delle loro attività, in principio, fu proprio la pulizia e il mantenimento delle architetture locali: abitare diventò un modo per consentire di tutelare i luoghi dall’azione del tempo, rendendoli fruibili. La pratica di cura non si limita però al mantenimento e genera nuovi spazi di ricerca e discorso: annualmente viene infatti pubblicata la rivista Robida [1]. Ogni uscita è dedicata ad un elemento concettuale dello spazio di Topolò (suolo, foresta, isola). La densità linguistica del paese si riflette nelle pagine, scritte principalmente – ma non solo – in italiano, sloveno, inglese. L’intercambiabilità delle lingue è una costante di tutti i progetti e insegue l’idea di contaminazione e scoperta.
Nel 2018 nasce invece il progetto The village as house [2]. Il concetto è semplice: considerare il paese come un’unica abitazione condivisa e le singole case come stanze. Alla sperimentazione della vita comunitaria tout-court si aggiunge una riflessione sui nuovi bisogni che l’abitare impone e che si scontrano con un’architettura – quella della tradizione contadina – che non sempre coincidono. Non tutte le case hanno una cucina o un bagno funzionanti, e tanto meno la possibilità di utilizzare internet. Ecco che, pur mantenendo uno spazio di intimità abitativa, ogni giorno ci si ritrova in un unico luogo per cucinare e consumare i pasti, mentre un’altra casa munita di connessione wi-fi diventa lo spazio adibito a lavorare, e un’altra ancora il luogo della doccia. L’architettura tradizionale del luogo non viene stravolta per essere adattata ai desideri di chi la abita, al contrario: è la comunità che valorizza le possibilità architettoniche modellando su di esse le proprie pratiche dell’abitare. Il confine tra pubblico e privato non è più legato ai muri delle abitazioni, ma si fa fluido e permeabile: tutto il paese è casa. Il perimetro dell’intimità viene allargato ai confini della stessa Topolò. Questo slittamento semantico impone un ben diverso senso della responsabilità e della cura. Lo spazio, quando vissuto e frequentato attraverso la pratica abitativa, si fa luogo: non più area geometrica immateriale, ma perimetro carico di memorie e significati che necessitano di essere mantenuti, negoziati, riscoperti (Norberg-Schulz 1980).
Nel 2020 viene inaugurato il progetto Academy of margins [3]: una serie di lezioni e simposi in cui il sapere accademico fa incursione nello spazio periferico del paese e si ibrida con altre forme di produzione di teorie. È un’aula aperta a chiunque e delocalizzata rispetto ai centri in cui canonicamente avviene la produzione intellettuale – le città.
«This is the periphery of what? I mean, this is the metropolis of wildlife» [4]: queste parole, pronunciate da una delle ospiti dell’accademia, rimandano all’idea che lo spostamento del centro in relazione ai saperi prodotti e appresi non sia un semplice cambio di sede. La forma ecosistemica dell’apprendimento in questo caso salta particolarmente all’occhio: Topolò non è solo luogo dove l’apprendimento avviene, ma elemento costituente di quell’apprendimento, che fa del margine il suo epicentro. Ne deriva che saperi e pratiche sviluppate saranno intrinsecamente determinate dal contesto: ciò ne cambia non solo l’origine “anagrafica”, ma la stessa essenza. Questo approccio al concetto di margine e alla sua capacità di produrre sapere non manca di riferimenti teorici (Anzaldùa 1987; hooks 1999). Academy of margins è anche un ottimo esempio delle teorie sull’apprendimento collettivo di Wenger: un gruppo di persone consapevolmente riunite attorno ad una pratica apprendono da e in un contesto specifico grazie all’interazione reciproca (Wenger, 1998). La conoscenza nasce da un processo di confronto dialogico, dal rovesciamento della verticalità, dalla coesistenza negli spazi del paese durante le residenze. Anche nel processo di apprendimento, il ritmo di vita si adatta all’architettura del luogo, perché il tempo è una variabile fondamentale delle pratiche di cura.
Anche Radio Robida [5] ha una funzione di contaminazione tra centro e margini: in radio si leggono testi utili alla riflessione collettiva sull’abitare, si raccontano le pratiche, si aprono dialoghi e prospettive future. Molte delle emissioni partono dalla descrizione del paese, dal suo aspetto e dalle condizioni meteo: Topolò, pur invisibile a chi ascolta, è sempre attore principale e in quanto tale viene raccontato, registrato, disegnato.
In tutti questi esempi il concetto di cura è consapevolmente al centro dell’opera di Robida: si determina così una stretta circolarità tra teoria e prassi, in cui ogni azione è profondamente radicata in una più ampia visione teorica. L’impressione è che tutto, dalle ore in radio alle ricette dell’Izba, dalla rivista ai simposi, sia una forma per incrementare un’unica, grande pratica dell’abitare. La cura diventa direzione di senso, prende corpo: corpo umano che abita, corpo urbano che torna alla vita, corpo politico che si muove. Si manifesta quella pratica di caring with che Joan Tronto descrive come la propulsione che ci spinge a mobilitarci per cambiare la nostra realtà (Tronto 2013).
Conclusioni
Ne Il manifesto della cura (The care collective 2021) vengono delineati i presupposti per dare vita a comunità di cura: comunità in cui la pratica di cura sia il perno attorno cui si strutturano le relazioni umane e ambientali. La riappropriazione di spazi da abitare collettivamente è una tappa fondamentale in questo processo, perché significa estendere il concetto dell’abitare al di fuori dello perimetro domestico, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Lo spazio pubblico, laddove in stretto connubio con la pratica di cura, è spazio di diritto politico. Appropriarsi di uno spazio esterno che sia luogo di azione e discorso, senza pertanto essere soggetto al consumo obbligato, è fondamentale per la salute di una collettività. Se questo è già realtà viva all’interno di tante piccole comunità, non possiamo ignorare che le contaminazioni delle pratiche e i rapporti esterni sono essenziali per uscire da una micro dimensione di efficienza e armonia e accostarsi al mondo. Una società complessa e globale, i cui attori sono strettamente interdipendenti, ci rende impossibile abitare mondi chiusi. La cura deve quindi farsi promiscua, rendersi pervasiva: se è possibile immaginare comunità di cura, potremmo immaginare anche economie e stati di cura, potremmo riflettere su democrazie di cura. Ciò che è importante ribadire è che la cura in quanto pratica non può che manifestarsi nella concretezza di un contesto. Essa si rende visibile solo nel rapporto tra più elementi, in una dimensione di interrelazione (Buber 1983). L’estensione e la pervasività di questa interrelazione può essere alla base di una concezione dell’abitare profondamente trasformata. Potremmo, proseguendo su questo tracciato, trasformare la cura in una delle forze da opporre all’abbandono delle aree interne, iniziando a pianificare la rivitalizzazione dei luoghi a partire dai legami comunitari anziché dalle prospettive di produzione e profitto che un’area offre (Fraser 2016).
Erto e Topolò sono modelli importanti di pratiche di cura contro lo spopolamento, ma è utile ricordare che si tratta di due casi all’interno di una costellazione di realtà simili che abitano le Alpi.
Bibliografia
Anzaldùa G., Borderlands / La Frontera: The New Mestiza, Aunt Lute, San Francisco, 1987.
Buber M., Il problema dell’uomo, Leuman, ElleDiCi, Torino, 1983.
Comin F., Vajont: il giorno dopo, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2013.
Fisher B. e Tronto J., Circles of care: Work and identity in women’s lives, Suny Press, New York, 1990.
Fraser N., Contradictions of Capital and Care, New Left review 100, July-August 2016.
hooks b., Elogio del margine: razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano, 1998.
Merlin T., Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, La Pietra, Milano, 1983.
Norberg-Schulz C., Genius Loci: towards a phenomenology of architecture, Rizzoli, New York, 1980.
The Care Collective, The Care Manifesto: The politics of interdependence, Verso, London, 2020.
Tronto J., Caring democracies: Markets, Equality, and Justice, New York University Press, New York, 2013.
Wenger E., McDermott R., Snyder W., Cultivating Communities of Practice, Harvard Business School Press, Boston, 2002.
Wenger E., Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity (Learning in Doing: Social, Cognitive and Computational Perspectives), Cambridge University Press, Cambridge, 1998.
Paola Menotto è un’educatrice museale diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È attualmente studentessa in Scienze Pedagogiche all’Università degli studi di Torino.