Sono passati quasi 50 anni dall’uscita del saggio di Linda Nochlin Why Have There Been No Great Women Artists? ma ancora oggi sfogliando le pagine di manuali scolastici e universitari e attraversando le sale dei musei non possiamo non notare l’assenza ridondante di artiste e artist*[1]. Le donne, ora come allora, così come artist* queer e LGBTQIA+, subiscono una sistematica marginalizzazione nei contesti artistici: infatti nonostante la vastissima presenza di queste soggettività all’interno del mondo dell’arte, spesso come lavoratrici sottopagate, le posizioni di potere e il protagonismo rimangono un privilegio bianco e maschile. A dispetto di una retorica universalizzante e un sapere fintamente neutro, secondo i quali la produzione artistica bianca e maschile diventa rappresentativa di tutt*, le soggettività femminilizzate e non eteronormate – spesso completamente ignorate nei contesti formativi – devono accontentarsi di sbrigative appendici nei testi universitari e rare occasioni istituzionali in cui farsi conoscere dal pubblico, in un panorama eurocentrico, maschiocentrico ed eterosessista. Se poi tali artist* lavorano attivamente per una trasformazione del reale attraverso pratiche profondamente legate a istanze politico-sociali, il rigetto sistematico si trasforma in una vera e propria rimozione.
L’intento di questo contributo è quello di presentare il lavoro di Vaginal Davis, artista queer che da più di tre decenni unisce la pratica artistica a quella politica. Interessandosi a tematiche di genere, classe e razza, l’artista lavora in contesti non istituzionali, ponendosi in relazione dialettica e critica con tali spazi.
1. Miss Vaginal Creme Davis
Vaginal Creme Davis è tra i fondator* del movimento queercore di Los Angeles già dalla fine degli anni Settanta. Artista fortemente interdisciplinare, il suo lavoro si configura come una disseminazione di intenti politici incentrati sulla parodizzazione della maschilità e del privilegio bianco: i suoi primi anni di produzione sono stati caratterizzati da zine, come Fertile Latoya Jackson, incentrato su una lettura irriverente della maternità nel mondo queer, e band punk che si riappropriano ironicamente dei gruppi vocali in voga tra gli anni ‘60 e ‘70, come nel caso delle Afro Sisters o le iCholita!. Queste band hanno il ruolo di indagare rispettivamente le origini nere e messicane dell’artista, così come la costruzione della femminilità all’interno dei girl groups attraverso una spiccata performatività durante le esibizioni.
Dalla performance, alla produzione musicale e alla diffusione di zine a livello globale ha sperimentato poi la video arte indipendente e, negli ultimi anni, caratterizzati anche dalla pittura, si è focalizzata nuovamente sulla performatività più strettamente intesa, attraverso la pratica delle letture – svolte prevalentemente in contesti queer o accademici – e sull’insegnamento, che l’ha portata a confrontarsi con numerose università tra i vari continenti.
La sua pratica artistica fortemente multidisciplinare è legata a doppio giro con la militanza, legame già enunciato dalla scelta del proprio nome come emerge chiaramente dalle sue stesse parole in un’intervista riportata da José Esteban Muñoz per il giornale aRude:
«It came from Angela Davis-I named myself as a salute to her because I was really into the whole late ’60’s and early ’70’s militant Black era. When you come home from the inner city and you’re Black you go through a stage when you try to fit the dominant culture, you kinda want to be white at first-it would be easier if you were White. Everything that’s negrified or Black-you don’t want to be associated with that. That’s what I call the snow period-I just felt like if I had some cheap white boyfriend, my life could be perfect and I could be some treasured thing. I could feel myself projected through some White person, and have all the privileges that white people get-validation through association. Then there was a conscious shift, being that I was the first one in my family to go to college-I got militant. That’s when I started reading about Angela and the Panthers, and that’s when Vaginal emerged as a filtering of Angela through humor». (Muñoz,1999)
Il suo posizionamento la porta ad avvicinarsi in particolare alla lezione di Angela Davis, vista la difficoltà di essere inclusa in quanto soggettività queer femminilizzata alla lotta delle Black Panthers. Il pensiero di Angela Davis viene così assorbito e rielaborato attraverso la costante provocazione e la rappresentazione sovversiva e ironica. L’ironia diventa, infatti, uno strumento centrale di elaborazione che permette, attraverso una rappresentazione parodistica, di “congelare” le contraddizioni della buona borghesia bianca liberale, rendendole manifeste, e al contempo decostruirle.
2. Drag Terror
Il fil rouge di una produzione così articolata è rappresentato da strategie di decostruzione che, aggredendo gli elementi di riproduzione sociale incorporati (Scheper-Hughes, 2000) da soggetti marginalizzati, colpiscono non solo la cultura dominante ma anche le risacche eteronormative e il razzismo interiorizzato delle soggettività subalterne.
Appropriandosi in maniera terroristica (Muñoz,1999) sia della cultura dominante che delle subculture, Davis mira a una disidentificazione dei soggetti che vivono tale condizione di marginalità in quanto oppressi da un’ideologia dominante, bianca, eteronormativa e strutturata sul binarismo di genere. La disidentificazione si configura come una modalità performativa che agisce attraverso il riconoscimento dei nuclei di resistenza ai paradigmi eteronormativi e alla normalizzazione della narrazione dominante sui corpi. Questo riconoscimento insiste sulla capacità del soggetto di controidentificarsi, ribaltando lo sguardo bianco sul corpo nero mediante una riappropriazione simbolica di tale sguardo. Attraverso un’indagine focalizzata sul corpo nero e queer, Davis decostruisce e ricostruisce costantemente una resistenza corporea che resiste non solo agli attacchi strutturali che la destra neoliberista compie nei confronti delle soggettività LGBTQIA+, ma anche al whitewashing e ai protocolli normativi che intervengono nella cultura drag[2] e gay.
«In traditional male-to-female drag “woman” is performed, but one would be naive and deeply ensconced in heteronormative culture to consider such a performance, no matter how “real”, as an actual performance of “woman”. Drag performance strives to perform femininity, and femininity is not exclusively the domain of biological women. Furthermore, the drag queen is disidentifying-sometimes critically and sometimes not-not only with the ideal of woman but also with the a priori relationship of woman and femininity that is a tenet of gender-normative thinking. The “woman” produced in drag is not a woman but instead a public disidentification with woman. Some of the best drag that I have encountered in my research challenges the universalizing rhetorics of femininity». (Muñoz,1999)
Davis si posiziona oltre il binarismo di genere imposto e la maschilità performativa nel mondo gay, transitando tra i vari generi attraverso un’esagerazione delle caratteristiche ritenute come distintive e che perciò contribuiscono a costruire l’idea di maschile e femminile. Durante le performance della band punk trash PME (Pedro, Muriel and Esther), da lei fondata nel 1989, interpreta Clarence Norbert, un militare bianco suprematista eterosessuale dalla folta barba. Vestendo i panni di Clarence, non solo ribalta completamente la pratica della blackface, di cui si riappropria a livello simbolico, ma parodizza le caratteristiche ritenute proprie della maschilità: da una gestualità e una postura ridicolmente virili, a una barba cheap sotto la quale si cela un rossetto rosso, a un’eroticizzazione delle armi nell’ennesima caricatura incentrata, questa volta, sulla fantomatica impenetrabilità dell’eterosessualità maschile. Davis svolge così un’azione de-essenzializzante, attraverso la quale smaschera l’ansia per la deregolamentazione del genere e dell’attrazione sessuale e l’ossessione per la purezza bianca.
Come Muñoz ci suggerisce, contributi come quello di Stuart Hall, che rilegge il pensiero gramsciano da una prospettiva nera, sono fondamentali per la comprensione della complessità e della contraddittorietà intrinseca nella pratica della disidentificazione: l’essere una persona queer e nera si configura come un punto di coincidenza di discorsi ideologici che contengono impulsi contraddittori, alcuni dei quali più liberatori e progressisti e altri più reazionari. Emerge la necessità di dotarsi di strumenti che garantiscano la loro lettura attraverso lenti intersezionali in grado di differenziare le sfumature interne: il lavoro di Davis si posiziona nell’interstizio tra i vari discorsi, parodizzandoli e demistificandoli, rendendo così palese il potenziale trasformativo di tale posizione.
3.Do you see this flag? This is America, this is what we are
The White to be Angry (1999), cortometraggio ora in mostra all’Art Institute of Chicago, è ispirato alle performance dal vivo e all’album omonimo (1998) della PME. Il corto si presenta come un album visuale in cui musica e critica politico-sociale a identità, eteronormatività e privilegio bianco si compenetrano, alternando personaggi bianchi conservatori, ritratti ancora una volta in maniera parodistica, a immagini televisive. Il lavoro si apre con un interno, in cui vediamo la giustapposizione della bandiera degli Stati Uniti D’America con quella degli Stati Confederati d’America e quella nazista mentre una donna si vanta del passato schiavista del nonno, fiero possessore di piantagioni in Louisiana: già dai primi minuti Davis sottolinea il forte legame tra le istituzioni democratiche e le posizioni di estrema destra, evidenziando come tali istituzioni siano costituite su razzializzazione ed eteronormatività. Tale legame è incarnato dalla buona borghesia bianca e dai suoi interni patinati che si alternano a episodi di violenza di matrice sistemica, dalla condanna morale alla mancanza di decoro dei “black scary homeless people” alla violenza fisica ai danni di persone LGBTQAI+. In totale coerenza con l’intero percorso artistico di Davis, anche in questo lavoro è presente una forte attenzione per i diversi media e per le rappresentazioni che essi producono. Vediamo infatti i personaggi fare zapping passando da programmi televisivi a immagini pubblicitarie di vario genere, producendo un effetto disorientante e di stratificazione di significato costanti, che si sommano agli stralci di vita mostratici in precedenza. Passando dalla vita reale allo schermo, notiamo come i media riproducono ancora una volta disparità: se le persone bianche vengono rappresentate attraverso televendite di oggetti ad uso e consumo della borghesia, le persone nere e queer vengono associate a episodi di violenza e quotidianità falsate e stereotipiche. Un altro forte effetto disorientante è prodotto dall’altra grande protagonista di questo lavoro, la musica composta dalla PME, presente durante tutto il cortometraggio. In particolare, durante i momenti di violenza la musica diventa più insistente e aggressiva, con un intento sempre smaccatamente straniante: mentre infatti ci viene mostrata una coppia bianca, borghese ed eteronormata compiere violenza su persone LGBTQIA+ adescate con l’inganno, una canzone ci ripete continuamente “homosexual is criminal”, accompagnando gli stacchi sulle mani insanguinate della coppia. Ricorrente è anche la presenza di uno skinhead neonazista, che vaga per la città osservando giovani uomini gay in un misto di attrazione e avversione: a circa metà filmato lo vediamo picchiare uno di questi ragazzi e poco dopo eccitarsi ripensando a tale avvenimento. Nell’ultima parte del corto, realizzato in collaborazione con Bruce LaBruce, ci ritroviamo davanti a un ribaltamento del personaggio dello skinhead, che siede di fianco a un altro ragazzo davanti alla tv in un contesto di forte ambiguità, in cui si percepisce la palese attrazione tra i due, ma anche la forte resistenza a essa da parte dello skinhead. Per superare l’ansia del momento, prende il telecomando e accende la tv, che ci mostra per la prima volta immagini diverse: la televisione non alterna più nervosamente le immagini casuali dello zapping distratto che abbiamo visto fino a questo momento, ma introduce una nuova narrazione gioiosa, rivendicativa e lineare. Vediamo per la prima volta una comunità queer che si riunisce per discutere, divertirsi, vagare per la città non più sol* e fare musica insieme. Ci appare così un intero nuovo universo relazionale, in cui l’occhio e la camera di Vaginal Davis, protagonista di queste immagini, ribaltano lo sguardo del ragazzo skinhead sulla propria stessa sessualità, inserendolo in un ambiente queer vitale e variegato. Dopo questo spezzone il giovane spegne la tv e riesce ad avvicinarsi finalmente all’altro, dimostrando di aver superato le resistenze per il desiderio omosessuale in una pacifica accettazione di sé. Durante la visione del video risulta chiaro che alla violenza istituzionalizzata, bianca, eteropatriarcale, classista la risposta sia quella di costruzioni di comunità queer dal basso che attraverso musica, arte, confronto e mutuo aiuto contrappongono un’idea diversa di società.
4. What the institutions have done for us recently?
Il rapporto con le istituzioni da parte di Davis e artist* che come lei si muovono nelle subculture urbane è particolarmente complesso. Come Davis fa notare in un’intervista con Lisa Newman (Jones, 2016), le istituzioni sono uno spazio ostile per le soggettività subalterne poiché (ri)producono costantemente disparità e classismo, con una netta demarcazione economica tra chi tira le fila del mercato dell’arte e gli artist*. La marginalizzazione degli artist* queer e neri può rideclinarsi non solo mediante una totale esclusione di queste soggettività, ma anche attraverso operazioni di pinkwashing da parte di grandi istituzioni museali che oggettificano la produzione artistica degli stessi. Se infatti determinate opere fioriscono in contesti socio-culturali specifici, esse appassiscono completamente quando avviene il passaggio all’istituzione museale, che le sfila da tali contesti svilendone completamente la vitalità politica. Depotenziamento che appunto è ancora più palese nel caso si tratti di lavori dal forte impatto politico, finendo per essere estetizzati e riassorbiti dall’istituzione. Data la costante tendenza al riassorbimento da parte delle istituzioni, esse diventano una controparte con la quale non si può non entrare in contatto. Diventa quindi necessario occupare gli interstizi istituzionali al fine di inceppare la perpetua reificazione del potere, attraverso l’esposizione delle contraddizioni sistemiche che lo caratterizzano e un intento pedagogico e artistico militante[3].
Davis, che da anni dedica gran parte del proprio lavoro alla formazione, riconosce nell’università l’unico spazio istituzionale nel quale potersi muovere con più agio. L’artista, infatti, di centralità ai luoghi della formazione largamente intesi, in quanto strategici per la produzione e la riproduzione di saperi e per lo stravolgimento degli stessi. Dato questo ruolo fondamentale, il mondo accademico diventa un campo di gioco determinante in cui ribaltare la violenza istituzionale e la narrazione egemone sulla neutralità del sapere: nell’intervista sopracitata, Davis sottolinea come lavori come quello di Amelia Jones e Muñoz, nati attraverso collaborazioni con artist* militanti, siano vere e proprie cellule di sovvertimento all’interno dell’accademia. Davis individua nelle lecture, negli incontri formativi di tipo laboratoriale e nell’insegnamento una parte fondante di una pratica artistica volta alla soggettivazione politica incentrata su genere, classe e razza[4]. Tra i laboratori che propone agli student* ci sono quelli di scrittura di lettere[5], che contengono anche disegni, fotografie e piccoli dipinti: tale pratica, alla quale si dice particolarmente affezionata, ha la funzione non solo di mantenere corrispondenze con persone dalle varie parti del mondo, ma di poter donare all’altr* una parte della propria quotidianità, coinvolgendo così il proprio personale, troppo spesso relegato ai margini della formazione.
Come lei stessa ricordava in riferimento alla propria esperienza personale, lo spazio universitario è stato un luogo centrale di radicalizzazione, che le ha permesso di entrare in contatto con le forze propulsive delle istanze della militanza nera, letta attraverso una lente fortemente intersezionale. La strategia che ci propone Davis va quindi a intaccare gli interstizi istituzionali creando nell’accademia spazi di resistenza alla normalizzazione neoliberista: la trasmissione di saperi situati e il sovvertimento del sapere egemonico aprono così nuovi spazi del possibile, non solo per il ripensamento di pratiche artistiche, ma come atto trasformato della società nella sua totalità.
Note
[1] Le declinazioni maschile e femminile di aggettivi e nomi sono sostituite dall’asterisco per superare la riproduzione del binarismo di genere anche attraverso il linguaggio.
[2] bell hooks evidenzia come anche il noto documentario Paris is Burning (1990), che diede enorme visibilità alla comunità nera queer delle ball newyorkesi, ricada in questa logica poiché, lo sguardo bianco della regista non viene mai palesato, ma, anzi, normalizzato completamente. hooks b., Black looks: Race and representation, 1992, South End Boston
[3] per approfondire: hooks b., Insegnare a Trasgredire, Meltemi, Roma, 2020.
[4] Vaginal Davis su Interview magazine ultima visita 15/10/20.
[5] ArtistTalk: Vaginal Davis ultima visita 15/10/20
Bibliografia
Jones A., Silver E. (a cura di), Otherwise – Imagining queer feminist art histories, Manchester University Press, Manchester, 2016.
Muñoz J. E., Disidentifications: Queers of Color and the Performance of Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999.
hooks b., Black looks: Race and representation, South End Boston, 1992.
Nochlin L., Why have there been no great women artists?, 1971 in Nochlin L, Women, art, and power and other essays, Routledge, New York, 2018.
Scheper-Hughes N., L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi, 2000.
hooks b., Insegnare a Trasgredire, Meltemi, Roma, 2020.
Videografia
The White to be Angry (1999) scritto e diretto da Vaginal Davis
Giulia Rossini (1996) è laureanda in Arti Visive all’Università di Bologna e attivista nel collettivo transfemminista La MALA Educación e nel collettivo Decolonising the Academy. I suoi ambiti di ricerca riguardano strategie di decolonizzazione dell’arte pubblica e dei contesti formativi attraverso uno sguardo transfemminista queer. Di recente ha preso parte al workshop della mostra retrospettiva di Cesare Pietroiusti Un certo numero di cose (a cura di Cesare Balbi, Mambo, 2019-20)