Violenza
La maggior parte delle relazioni che si instaurano con il passato sono relazioni di dominio. Esso è costantemente soggetto a un’accurata selezione degli eventi, allo scopo di leggerli e ordinarli secondo una grande storia. Ricucire i frammenti sconnessi di ciò che ci ha preceduto è un atto di violenza, poiché implica condensare il caotico strato di particelle che danzano nella tempesta del passato in una narrazione. Sia che questo esercizio di potere venga usato come uno strumento di rivalsa ed emancipazione, sia – come più spesso accade – che diventi una strategia egemonica, rimane il fatto che qualcosa viene escluso o incluso in base alla prospettiva adottata; dai romanzi fantascientifici, alla critica postcoloniale e alla cancel culture, sono copiosi gli esempi di lotta contro un dominio del passato e della memoria collettiva come strumento per imporre un dominio culturale sulle persone del presente.
Prendersi cura di questi frammenti, riconoscerne il valore e l’indipendenza, senza la necessità di farli scomparire nella completezza di una storia che si presume universale, è stato uno degli obiettivi della micro-storia [1]. Questo termine viene usato da Carolyn Christov-Bakargiev in occasione di dOCUMENTA (13), da lei curata nel 2012, e dislocata in quattro sedi espositive, una delle quali, quella di cui si parlerà, a Kabul. All’epoca, la metastasi dell’occupazione occidentale era in atto già da dieci anni, prima dei quali il paese usciva da un ventennio di guerra dove U.R.S.S, mujaheddin e taliban si erano susseguiti senza sosta. Perché la N.A.T.O. e specialmente gli Stati Uniti potessero giustificare le loro azioni in Afghanistan, era fondamentale instaurare delle relazioni di dominio non solo nei confronti delle persone che vi vivevano, ma anche della storia che della guerra veniva narrata. La stessa dOCUMENTA (13) è stata fortemente criticata: in quanto grande istituzione occidentale che ha inaugurato seminari e mostre, si trattava inevitabilmente di una reiterazione di relazioni di dominio nel rapporto fra l’Occidente e l’Afghanistan. Mario García Torres, uno degli artisti scelti per lavorare a Kabul, ha indagato e rispettato la distanza che separava lui e dOCUMENTA (13) dalla capitale afghana: ricostruendo la micro-storia di Alighiero Boetti in Afghanistan, García Torres ha proposto un modello di rapporto diverso fra le ricche potenze dell’Ovest e lo stato mediorientale, quello dell’albergo.
L’albergo è un luogo dove si ospita e si viene ospitati, in una relazione reciproca che consiste nel prendersi cura dell’altro a partire dalla sua corporeità; l’hotel è infatti prima di tutto un rifugio per il corpo: l’ospitare dell’albergo è sempre una pratica embodied; esso è inoltre un crocevia di persone che per un breve lasso di tempo condividono la propria esperienza, la mettono in comune. Se dovessimo usarlo come immagine per descrivere un sognato rapporto dell’Occidente con l’Afghanistan, noteremmo che l’albergo propone una relazione paritetica tra colui che viaggia e colui che resta, fra lo straniero e il nativo; infatti, nel momento in cui scegliamo di soggiornare in un hotel, siamo alla mercé dell’ospite e, ugualmente, esso ha il massimo interesse ad accogliere al meglio le nostre richieste. La legge dell’ospitalità peraltro è sacra al popolo afghano; Massimo Fini, un giornalista italiano, in una monografia sul capo del movimento talebano dai suoi esordi fino al 2013 (Fini 2013), afferma che il rifiuto dei taliban a consegnare immediatamente Osama bin Laden all’America perché fosse processato era in larga parte motivato anche dai principi dell’ospitalità. Negli attentati precedenti all’11 settembre, gli Stati Uniti hanno chiesto più volte l’estradizione del capo di Al-Qāʿida al tempo ospite dei talebani, richiesta sempre respinta appellandosi al fatto che mancasse un’indagine approfondita del suo coinvolgimento. Accanto alla lunga storia di violenza e di dominio, che ha caratterizzato il rapporto dell’Occidente con l’Afghanistan a partire dalla seconda metà del XIX secolo, esistono micro-storie che narrano la difficoltà di raggiungere l’altro nella sua distanza. Il rapporto con il lontano fa emergere profonde contraddizioni che ci dicono tanto su come l’Occidente finisce per relazionarsi – pur mosso dalle migliori intenzioni – con l’altro. Nelle pagine che seguono ci prenderemo cura della micro-storia della dOCUMENTA (13) a Kabul, ricostruendone una breve genealogia. Prima di proseguire, rendiamo già chiara una di queste contraddizioni: era da Kabul che Alighiero Boetti commissionava tessuti a donne afghane, in un rapporto che assomiglia molto a quello delle grandi industrie che si spostano all’estero per trovare manodopera a basso costo. Boetti non era mosso dalla volontà di trasformare il suo studio in un’impresa, bensì da una genuina fascinazione per quel modo di lavorare; l’eredità di questa dinamica coloniale è la stessa che informa anche dOCUMENTA (13): l’impasse che rende così difficile fare propria una distanza senza imporre dinamiche egemoniche.
Boetti, García Torres, e la dOCUMENTA (13) di Kabul
Ciò che spinse Alighiero Boetti a partire per l’Afghanistan nel 1971 era la volontà di seguire le tracce di un suo antenato, tale Giovan Battista Boetti (1743-1798), un frate che da Monferrato viaggiò in tutta Europa e poi in Medio Oriente, specialmente in Turchia e poi in Caucaso. Fu conosciuto con l’alias di “profeta al Mansur”, e dopo aver iniziato a predicare un credo sincretista che mischiava elementi islamici, cristiani e rivoluzionari, finì per guidare un esercito, conquistare alcune città nel Caucaso e infine scontrarsi contro i russi. Guidò per anni la resistenza contro di essi, per poi morire in prigionia, all’età di cinquantaquattro anni, la stessa a cui morì anche il Boetti artista. Nel corso della sua vita da avventuriero fu uno dei primi che arrivò a unire la fede religiosa all’ideologia nazionalistica. Le somiglianze si moltiplicano, al centro del lavoro di Alighiero Boetti c’era il tema del doppio e dell’identità, egli stesso iniziò a firmare i suoi lavori “Alighiero e Boetti”, pretendendo che i due fossero persone distinte. In Afghanistan, egli si presentava semplicemente come Alighiero, cosa che spesso gli fece guadagnare un’ennesima identità: quella di Alì Ghiero.
Durante la sua seconda visita al paese, apre un albergo: il One Hotel. La struttura era quella di una piccola villa con giardino, situata nel quartiere commerciale di Shar-e Naw; nell’insegna, oltre al nome in inglese e in farsi, figurava il numero “1” iscritto fra due spighe di grano disposte circolarmente, le quali sono parte del tradizionale emblema afghano presente sulle bandiere dall’inizio del XX secolo. La struttura presentava un piano solo leggermente elevato rispetto alla strada; comprendeva un bagno, una cucina e quattro grandi stanze che venivano ulteriormente segmentate tramite divisori in legno, vi era anche un giardino sul retro, vicino all’ingresso dalla strada pedonale. In Afghanistan è Gholam Dastaghir, suo amico, che assieme alla famiglia lo aiuta nella gestione dell’Hotel. L’artista italiano si recherà a Kabul due volte all’anno, per «almeno quattro settimane ciascuna, in uno stato di iperattività che era beatamente, apparentemente ozioso. Stava nella migliore stanza [del suo hotel], che serviva da casa, studio e ufficio» (Sauzeau 2012). Era da Kabul che commissionava, a una scuola di tessitrici, diverse opere a ricamo fra cui la serie delle mappe. L’Hotel rimarrà aperto per sei anni, fino al 1977, quando sarà costretto a chiudere per via della situazione politica instabile; è in quel periodo che anche Dastaghir fugge, rifugiandosi in Iran. L’invasione da parte dell’U.R.S.S. nel 1979 sarà l’inizio della lunga era crepuscolare dell’Afghanistan e attorno al One Hotel si formerà un’atmosfera «circondata da credenze mitiche e che circolavano come pettegolezzi» (Sauzeau 2012).
Se fu la guerra a terminare precocemente l’attività del One Hotel, fu la guerra a riattivarne la memoria. Annamarie Sauzeau, prima moglie di Alighiero Boetti, riceve da lui il compito di «tener memoria del lungo vissuto assieme, e di scriverne testimonianza» (Sauzeau 2001). La biografia dal titolo Alighiero Boetti. Shaman/Showman, verrà pubblicata dalla casa editrice Allemandi nel 2001. Ciò che le fece decidere di dare finalmente alle stampe il volume, dopo quattro anni che il manoscritto compiuto riposava inerme, fu la distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani nel 2001. Paradossalmente, il crollo delle antiche statue fu per Annamarie Sauzeau come la madeleine pruostiana di cui parla Benjamin, con le statue che venivano distrutte, qualcosa dentro di lei è stato perso per sempre. Quelle statue erano come un’ancora affettiva: si può notare spesso come le persone anziane odino sbarazzarsi di oggetti molto vecchi che hanno fatto parte della loro vita, questo perché quegli oggetti (una vecchia tovaglia, una cassapanca, dei gioielli) incarnano l’esperienza che sopravviverà alla morte del loro corpo; quegli stessi oggetti sono un’espansione della loro mente, una traccia che lasciano nel mondo, frammenti di esperienza cristallizzata. Non capita altrettanto spesso di scoprirsi riluttanti nel buttare un oggetto appartenente alla propria infanzia? Gli oggetti agiscono e si intrecciano assieme alle esperienze, e le alleanze che inconsciamente si formano con essi sono un modo in cui le micro-storie trovano la loro manifestazione, acquisiscono conoscibilità. Ciò che rende queste storie disgiunte e incomplete più importanti per noi rispetto al grande racconto della disciplina storica è la componente affettiva. Sapere che il parco in cui giocavamo da bambini è stato distrutto, infatti, è più doloroso di leggere delle migliaia di vittime di un terremoto nell’emisfero australe; il fattore distintivo non è la gravità dell’avvenimento in termini assoluti, ma la componente affettiva; e al pari delle persone, anche gli oggetti e i luoghi tessono relazioni con noi. Questa è la potenza e la libertà di alcune opere d’arte: quella di tessere relazioni affettive con chi si trovano davanti, consentendoci di accedere agli eventi del mondo che non abbiamo vissuto – ciò che di norma apprendiamo attraverso la storia e la cronaca – passando per un accesso totalmente differente, che permette alle micro-storie di entità umane e non-umane lontane da noi di venir conosciute tramite l’esperienza.
I Buddha di Bamiyan devono essere stato tutto questo per Sauzeau: l’incontro di trent’anni prima, in compagnia di Boetti, con quell”«immensa doppia icona» al di là della quale non «c’era nulla e nessuno» è ciò che l’ha convinta a consegnare, al grande archivio dei saperi, la testimonianza scritta della sua esperienza di vita con l’amato (Sauzeau 2001).
Le due imponenti statue, questa “doppia icona” che simboleggia una cultura e una tradizione, ricordano immediatamente le Twin Towers del World Trade Center, abbattute lo stesso anno e causa scatenante dell’occupazione dell’Afghanistan.
Il One Hotel deve aver agito in maniera simile sulla curatrice di dOCUMENTA (13), perché trentatré anni dopo la sua chiusura, con l’Afghanistan nel pieno della guerra, un viaggio di gruppo viene organizzato assieme a diversi artisti sulle tracce della non-opera di Boetti. Al contempo, Christov-Bakargiev era anche guidata dalla volontà di approfondire il tema della distruzione dell’arte, del prendersi cura e del guarire i traumi – che nelle varie interviste e testi è definito “collapse and recovery”. Questo la portò sulle tracce della demolizione dei Buddha di Bamiyan, il gesto che spronò Sauzeau a ripristinare (recover) le memorie intime, e che fu ugualmente intrecciato all’occupazione occidentale. «Andrea [Viliani] e io siamo andati a fare ricerca a Kabul, Herat, Bamiyan con Mario [García Torres], Mick e Francis [Alÿs], Mariam [Ghani], Kadim, e Tom [Francis], e ricordo le molte illuminanti conversazioni avute là con Jolyon e Ajmal [Maiwandi] e Amon e Ashraf [Ghani] e Rahraw [Omarzad], e la generosità della comunità culturale afghana» (Christov-Bakargiev 2012). Sono stati Francis Alÿs e Mario García Torres i due artisti occidentali che hanno realizzato lavori più specifici.
Mario García Torres. Su commissione di dOCUMENTA (13) realizzerà il film documentario Tea 1391 (Afghanistan/Mexico), e la pubblicazione per la serie 100 Notes – 100 Thoughts intitolata N°026, A Few Questions Regarding the Hesitance at Choosing between Bringing a Bottle of Wine or a Bouquet of Flowers. Ben prima del suo invito a Kassel, l’artista aveva già realizzato diverse opere legate alla figura di Boetti. In Shot of Grace with Alighiero Boetti Hairstyle [Como] (2004), la citazione all’artista è presente solamente nel titolo; già due anni dopo, però, l’artista espone Share-e-Nau Wanderings (A Film Treatment) (2006), una serie di fax rivolti fittiziamente all’italiano in cui viene abbozzata la sceneggiatura per un film che vede il protagonista vagare nel quartiere dove Boetti ha aperto il One Hotel, il quartiere di Shar e-Naw. Questo lavoro – che parla di distanza – è inoltre una citazione all’opera Serie di merli disposti a intervalli regolari lungo gli spalti di una muraglia (1971-1993) di Boetti, una raccolta di telegrammi indirizzati al gallerista Enzo Sperone, inviati a distanze temporali che seguono le potenze di due.
Nel 2010 realizzerà la serie di diapositive accompagnate da una voce di sottofondo, dal titolo Have you ever see the snow (2010) [2]. Considerando queste opere come un corpus unico, si può dire che si tratta di un lavoro sulla distanza, sull’alterità, sull’incapacità di penetrare le esperienze e sulla violenza del tempo che passa. È sempre all’opera un confronto fra la Kabul mediatizzata – ciò che arriva allo spettatore tramite le immagini dei notiziari, gli articoli di giornale, le chiacchiere – e una Kabul reale la quale, però, data la sua inaccessibilità, è possibile cercare solo tramite altri media. E infine, questo corpus di opere è tanto più pregnante perché mette in campo una delle contraddizioni centrali di un artista come storico: come penetrare e raccontare l’esperienza di qualcun altro? La soluzione di Torres sarà quella di far ripartire l’attività del One Hotel egli stesso, dalla quale nascerà un film, non come opera esaustiva, ma come la traccia di un’esperienza. Guardando Tea 1391 (Afghanistan/Mexico), si è pervasi dalla sensazione di spaesamento (dis-placedness). Le riprese sono effettuate tra l’Afghanistan e il Messico, ma due oggetti ritornano, identici, mostrando la saldatura fra temporalità e spazialità diverse. Il primo e più ricorrente è il tè, bevanda tradizionale afghana ma ugualmente diffuso in tutto il mondo. Il secondo è la radio, che appare solo due volte, all’inizio e alla fine del cortometraggio. All’interno dell’inquadratura, pressoché identica se non per lo sfondo, ciò che dà ragione del diverso tempo e luogo è la trasmissione captata dall’apparecchio. Ci troviamo immersi in svariati campi di onde elettromagnetiche – come già aveva notato Benjamin – e questo spettro di frequenze può essere ricevuto dai nostri dispositivi, a un tempo permettendoci di raggiungere luoghi distanti, e a un tempo connotando la nostra località. Il film, in linea con le altre sue opere precedenti a dOCUMENTA (13), è ugualmente un lavoro sulla distanza: anche quando si raggiunge con il proprio corpo il luogo distante, quella distanza non viene pienamente colmata. Avendo letto della distruzione dell’edificio del One Hotel, il suo è un avvicinarsi disperato alla ricerca di un obiettivo dato per perso; armato solo di una serie di fotografie parziali e disorganiche e dalla fede che la struttura sia in realtà ancora in piedi. Lui stesso sa che incontrerà i capovolgimenti, gli anacronismi e i deja-vu che sono una delle caratteristiche distintive del rapporto fra l’Occidente e l’Afghanistan. Sia Torres che Christov-Bakargiev parlano di come uno di questi abbia a che fare con la documenta 5 curata da Harald Szeeman, del 1972. L’anno prima (stesso anno di apertura del One Hotel) curatore e artista si accordano per l’esposizione dell’opera Mappa del 1971, un planisfero ricamato dalle tessitrici afghane dove gli appezzamenti di ogni stato sono riempiti con il motivo delle rispettive bandiere. Benché l’opera alla fine fosse stata ritirata, nel catalogo figurò lo stesso. Mappa chiude questo tortuoso percorso. L’opera è stata esposta a Kassel per dOCUMENTA (13), ad accompagnarla la corrispondenza, in italiano, fra Szeeman e Boetti riguardo all’indecisione e ai ripensamenti sulla presenza dell’opera.
Rainer Crone e David Moos danno una chiave di lettura che carica di significato la presenza dell’opera all’interno dell’esposizione. Per spiegarne il nucleo di significato, raccontano l’esperienza del viaggio in aereo, da cui si possono osservare gli enormi spazi dell’Europa come se li si stesse guardando da una cartina. Le congiunzioni fra terra e mare creano delle linee simili a confini, ma che non sono state decise dall’umano, per loro si è trattato di: «Un momento di transizione che ha collegato i nostri sensi ai nostri pensieri, accolti dalla memoria di sapere ed esperienza, anticipando un’altra transizione dallo stato elementale dell’aria alla terra, viaggiando da un continente a un altro. Questo momento – un luogo in un tempo – dove il sapere è confrontato con l’esperienza, è precisamente il momento dove si verificano le origini e la validità di quel sapere» (Crone – Moos, 1990).
Gli autori proseguono spiegando come Mappa di Alighiero e Boetti, si basi proprio sul confronto con un sentimento di dis-placedness, lo stesso che ha guidato il dislocamento delle sedi di dOCUMENTA (13). I confini infatti sono convenzioni, un sapere immateriale e astratto che si ripercuote realmente sulla vita delle persone. Ma il confine è anche una linea immaginaria tracciata tra sé e la diversità dell’altro, la stessa che Boetti prima e Carolyn Christov-Bakargiev poi hanno provato a capire e superare muovendosi verso l’Afghanistan: il primo aprendo un albergo, che è il luogo dove, attraverso l’ospitalità, i confini si mischiano e la distanza diventa un fattore che unisce piuttosto che dividere; la seconda cercando uno spazio di agency che l’arte possa guadagnarsi oltre i confini imposti dal discorso istituzionale e dalle pratiche del capitalismo cognitivo.
Possiamo ora tratteggiare la figura di un artista come storico: la ricerca, quasi ossessiva, del One Hotel da parte di Mario García Torres, culminata nella sua riattivazione in occasione di dOCUMENTA (13), mostra un modo di fare storia diverso. Una modalità di accedere al passato che è contraddistinta dall’inaccessibilità. Era arduo arrivare in Afghanistan (è servita la mediazione istituzionale di documenta) e, una volta arrivati, come recuperare l’esperienza che nell’hotel aveva preso corpo? È emerso un limite lampante: anche provando a ricostruire le vicende dai pochi frammenti presenti, come le testimonianze di Annemarie Sauzeau oppure un sopralluogo sull’edificio, c’era uno spettro della storia che era impossibile toccare.
Anche questo testo parte dall’inaccessibilità dei dati: l’Afghanistan oggi è un luogo isolato e irraggiungibile, i dati dei seminari di dOCUMENTA (13), a detta del loro archivio, sono sotto termini di protezione per circa trent’anni. Io stesso non ho potuto vedere l’esibizione di cui ho voluto trattare, non ero presente con il mio corpo-mente ai fatti e agli eventi qui citati. È questa la scommessa: che un artista come storico possa trasmettere la storia tramite l’esperienza piuttosto che tramite l’informazione, per toccare e registrare uno spettro della storia che altrimenti è sempre negato o omesso dalle possibilità del discorso. Per dare ragione di questa possibilità, si è ricorso al pensiero dell’antropologo Alfred Gell. Il sistema teorico avanzato in Arte e Agency individua le opere d’arte come nodi di storie ramificate, questo è possibile perché a loro viene riconosciuto lo stato di agenti sociali, possono dunque stringere relazioni, influenzare ed essere influenzate da altri agenti sociali.
Un artista come storico
Nel 1914 una donna di nome Mary Richardson entrò nella National Gallery e sfregiò la Venere Rokeby (1647) di Velázquez, dichiarando che quel gesto era un modo per richiamare l’attenzione sull’arresto di Emmeline Pankhurst, guida del movimento. David Freedberg, nell’ormai classico Il potere delle immagini, inserisce questo esempio nella sua analisi sull’idolatria e l’iconoclastia. Enumerando diversi casi celebri di attacchi a opere d’arte europee, arriva a concludere che l’iconoclasta contemporaneo non è necessariamente uno squilibrato o un pazzo, ma al contrario, che «tutti gli iconoclasti sono consapevoli della maggior o minor pubblicità che deriverà dai loro gesti, conoscono il valore finanziario, culturale e simbolico dell’opera aggredita» (Freedberg 2009). Essi comprendono il vero potere delle immagini, ed è per questo che vogliono distruggerle. L’antropologo Alfred Gell segue il ragionamento di Freedberg per poi integrarlo nella sua teoria: egli afferma che Richardson ha «equiparato la donna del dipinto (Venere) a Emmeline Pankhurst e i ‘patimenti’ dell’immagine a quelli di Mrs Pankhurst in prigione» (Gell 2021). Così facendo, il risultato dell’attacco (il quadro sfregiato) è in grado di tenere assieme il livello altamente storicizzato a cui appartiene la Venere di Velàzquez, e la micro-storia della vita e del credo politico di Richardson, attraverso il quale si accede alla storia delle suffragette, la cui ribellione era motivata dall’esclusione delle donne dalla partecipazione alla vita civile attraverso il divieto di voto.
«Il contrasto tra l’agency sapiente e controllata che Velázquez ha esercitato nel creare l’immagine dipinta di Venere e i gesti indiavolati di Richardson nello sfigurare l’immagine in modo che la sua “morte” corrispondesse a quella di Pankhurst crea lo spazio in cui la vita delle immagini e delle persone si mescolano e si confondono» (Freedberg 2009).
Nella visione di Gell l’attenzione è spostata sull’intensa moltiplicazione delle relazioni che ha luogo dopo l’attacco, il grafico in cui abbozza una topografia dell’agency dietro la Venere sfregiata è 3intitolato Gli spazi biografici condivisi di persone e immagini [3]. Gell sembra parlare di due indici annidati l’uno dentro l’altro, il primo è il quadro originale, mentre il secondo sono i tagli. Ognuno di essi è alla testa di due diversi filoni di abduzione di agency, i quali si toccano di nuovo nell’analogia tra Pankhurst e Venere. Questi due filoni, questi due “spazi biografici” non ci vengono però incontro allo stesso modo. I tagli, infatti, sono anomalie, un gesto di attrito e resistenza contro una storia – in questo caso, quella dello sguardo predatorio maschile – dalla quale apparentemente Richardson sentiva se stessa e la sua causa escluse. Penso che gli eventi degli ultimi anni abbiano dato conferma di come l’opera d’arte possa essere una “piccola porta” tramite cui applicare forme di resistenza e libertà nella e dalla storia [4].
Ma ciò che l’artista come storico – spesso fallendo – vuole riportare alla luce dal passato e riuscire a trasmettere, è un’esperienza. Non è forse questo un modo di prendersi cura della storia? Scavare e sviscerare aspetti che tutto sono tranne universali, inseguire fatti di cui rimangono pochissime tracce, rivivere l’esperienza che di ogni storia o avvenimento si è segnata dentro i corpi di chi ha vissuto quelle epoche. L’artista come storico propone un nuovo compito sociale dell’artista, un compito in grado di eludere le dinamiche di potere – la riscoperta del One Hotel avviene nel mezzo dell’occupazione occidentale, in un Afghanistan in guerra – per poter dare corpo a una storia come esperienza la quale non può essere “scritta dai vincitori”. Uno degli obiettivi di dOCUMENTA (13) era comunicare allo spettatore una dis-placedness, una pluralità di visioni e posizioni inesauribili a colpo d’occhio, fargli afferrare e rispettare i concetti di complessità e differenza. La genealogia delle attività afghane, da Alighiero Boetti a Mario García Torres, contrapponevano la dis-placedness delle relazioni e dell’esperienza di una Kabul come nodo di relazioni, alla dis-placedness dell’informazione mediatica di un Afghanistan “tratto” dal continuum dello spazio-tempo per venire congelato in uno stato di guerra, minaccia e alterità permanente. Questa prospettiva embodied, che si svincola dalla conoscenza puramente linguistica della storiografia [5], è l’apporto imprescindibile dell’arte al sapere storico.
Note
[1] Il concetto affonda le sue radici nel lavoro svolto dalla “scuola degli Annales” o Nouvelle Historie. Fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, essa ha promosso un approccio multidisciplinare e ha cercato di studiare la storia trattando questioni apparentemente secondarie e “micro”: «la storicità esclude l’idealizzazione della storia, l’esistenza della storia con una S maiuscola». La rivoluzione metodologica si può riassumere nella volontà di sostituire una storia come una serie di eventi a una storia come proposta di problemi. Nonostante la genealogia del termine sia difficile da determinare con esattezza, è però in Italia – e sempre in dialogo con la rivista Annales – che esso assume un peso teorico consistente. Nato come sinonimo di “micro-analisi storica”, finirà per sintetizzare, in un periodo che va dagli anni 70’ agli anni 90’, gli interessi e la direzione di ricerca di un gruppo eterogeneo di storici e studiosi. Nello specifico, i contenuti più strutturati sono raccolti nella rivista Quaderni storici, diretta all’epoca da Giovanni Levi, e nella collana Einaudi Microstorie (ventuno volumi editi nel decennio che va dal 1981 al 1991) dallo stesso Levi e da Carlo Ginzburg.
[2] È possibile vedere parte di quest’opera in una conferenza tenuta al Dia di New York pubblicata sul loro sito (Mario García Torres, 2012).
[3] Anche in un albergo le persone sperimentano uno “spazio biografico condiviso”: per un breve lasso di tempo, diverse vite si incontrano in un unico luogo, per poi ripartire verso altre direzioni.
[4] Dall’anno in cui scrive Freedberg, gli attacchi e le contestazioni alle opere d’arte sono diventati più strutturati e non è più possibile ridurli sempre a gesti di narcisismo o malattia mentale, rimane tuttavia vero che il potere degli oggetti d’arte è fortemente legato alla riproduzione della storia, e nelle opere d’arte si cercano spazi di libertà e resistenza che sostengano, ad esempio, la trascurata storia dell’ecologia contro la storia dello sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali, mentre una minestra preriscaldata colpisce il quadro seguita dal grido: “siete più preoccupati della protezione di un quadro o della protezione del pianeta e dei suoi abitanti?”. La minestra è lanciata dagli attivisti di Ultima Generazione, un movimento di protesta legato all’urgenza ecologica. Praticano la disobbedienza civile, e attaccano frequentemente opere d’arte e monumenti. Il loro scopo è richiamare l’attenzione e far riflettere su perché siamo più scandalizzati dall’attacco a un quadro rispetto a alla distruzione che sta subendo il pianeta.
[5] La teoria di Gell si basa sulla premessa di una “irriducibilità semiotica” dell’indice, ovvero che l’opera d’arte si trova almeno per una parte all’esterno del campo linguistico. Per motivare questa scelta sfrutta il processo logico dell’abduzione, il quale “copre la zona grigia in cui l’inferenza semiotica (significati che procedono a segni) si fonde con inferenze ipotetiche di tipo non semiotico (o non convenzionalmente semiotico)”. Questo punto è lo snodo per comprendere come la teoria di Gell e l’idea di un sapere embodied possano coesistere sostenendosi a vicenda.
Bibliografia
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Freedberg D., (1993), Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino, 2009.
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Sauzeau Boetti A., Alighiero e Boetti. «Shaman/Showman», Umberto Allemandi & C, Torino, 2001.
García Torres M., On Alighiero Boetti, lezione al Dia, Chelsea, 27 febbraio 2012. LINK (consultato il 10 febbraio 2023).
García Torres M., Tea 1391 (Afghanistan/Mexico), 35mm convertito in video HD, 74’, 2012.
Daniel Dolci è ricercatore e curatore indipendente con base a Milano, laureando in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2021 ha co-fondato l’associazione culturale no profit Genealogie del Futuro, che intrecciando ecologia e arte in modalità performativa, mira a ripensare le abitudini del presente e a interrogare le preoccupazioni della contemporaneità. Nel 2022 inizia a lavorare con Depositomele, spazio espositivo indipendente con base a Milano volto alla promozione di artist* giovani ed emergenti. Sempre nel 2022, prende parte a I.C.E. – In Case of Emergency, un progetto europeo decentralizzato volto a interrogare il riscaldamento globale e a riposizionare l’essere umano all’interno dell’ambiente.