“L’immaginazione è dunque una potenza collettiva”
(Antonio Negri, Lenta ginestra.
Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, 1987)
1. Il lungo Sessantotto della felicità nel tempo libero
“L’Europa sappia che non volete più un infelice né un oppressore sul suolo francese; questo esempio fruttifichi sulla terra, diffonda l’amore della virtù e della felicità. La felicità è un’idea nuova in Europa! «Le bonheur est une idée neuve en Europe!»”. Così il celebre motto con il quale Louis Antoine de Saint-Just concluse il discorso di presentazione del rapporto alla Convenzione nazionale il 13 ventoso, anno II – 3 marzo 1794, il celebre decreto contro i nemici della Rivoluzione. Solo quattro mesi dopo lo ritroveremo vittima della ghigliottina.
Una Nuova Idea in Europa era il titolo di un manifesto dell’Internazionale Lettrista (Potlatch, n. 7, 3 agosto 1954), nel quale si affermava che “il tempo libero è la vera questione rivoluzionaria”, in Europa. È l’inizio, anticipato, della rivoluzione situazionista a venire.
In questo slittamento della felicità – che doveva fare i conti con i nemici della rivoluzione – nel tempo libero – come vera questione rivoluzionaria europea – ho sempre visto le premesse gioiose, poetiche e libertarie di quel Sessantotto globale – “tempo lungo […] non cronologico”, come ribadiscono Ilenia Caleo, Silvia Calderoni, Annalisa Sacchi e Viviana Gravano nella Call di questa rivista – Sessantotto che io non ho vissuto e che forse alcune intuizioni dei situazionisti riuscirono a intravedere in anticipo e diffondere nei tempi e negli spazi, fino a noi, come gemme del futuro passato, al presente anteriore.
“Il fine dei situazionisti è la partecipazione immediata ad un’abbondanza di passioni della vita attraverso il cambiamento di momenti deperibili deliberatamente predisposti. La riuscita di questi momenti non può consistere in altro che nel loro effetto passeggero. I situazionisti considerano l’attività culturale, dal punto di vista della totalità, come metodo di costruzione sperimentale della vita quotidiana, permanentemente sviluppabile con l’estensione del tempo libero e la scomparsa della divisione del lavoro (a partire dalla divisione del lavoro artistico). L’arte può cessare di essere un rapporto sulle sensazioni per diventare un’organizzazione diretta di sensazioni superiori. Si tratta di produrre noi stessi e non delle cose che ci soggioghino” (Tesi sulla rivoluzione culturale, in «Internazionale Situazionista», n. 1, 1958).
E questa costruzione sperimentale della vita quotidiana, con l’arte intesa come organizzazione diretta di sensazioni superiori deve echeggiare fino a noi, appunto, dentro la Finis Europae che stiamo vivendo, nonostante, lo abbiamo già scritto, una certa idea di Europa, eretica, aperta, plurale, inclusiva, solidale, pragmatica e allo stesso tempo artistica, irrequieta, indisciplinata, visionaria, insubordinata e immaginifica, si sia da sempre fatta e continui a farsi proprio in situazioni insolite e insolitamente frequentate da frammenti di classi dirigenti a venire e da moltitudini di intelligenze vaganti, dai piedi scalzi: taverne e cabaret, strade e viali, brasserie e bar, atelier e trattorie, gallerie e spazi sociali, teatri e biblioteche, botteghe artigiane e palestre popolari, porti aperti e confini nazionali attraversati, campi sportivi e discoteche, club e locali notturni, aule scolastiche pomeridiane e città universitarie all’imbrunire. Per una arte poetica che anticipi e destabilizzi l’arte politica, rimettendo in moto l’immaginazione di nuove istituzioni a partire da suggestioni artistiche, oltre gli artifici istituzionali esistenti.
2. Un altro anniversario: Frankenstein, per restituire la felicità
Spesso il principale artificio istituzionale dell’Eurozona, la “moneta senza Stato”, è stata definita come un mostro à la Frankenstein, o come un azzardo avanguardistico di una (im-)possibile integrazione politica continentale. Il mostro dell’Euro-Frankenstein è stato il tema anche “popolare” di discussione e di fomento dei peggiori istinti nazionalistici, protezionistici, isolazionisti, paragonando l’artificio dell’europea moneta “comune”, ma non “unica”, al celebre “mostro alto otto piedi”, formato da arti assemblati da molteplici cadaveri, pensato dalla giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin in Shelley (successivamente al matrimonio con il poeta Percy B. Shelley) nell’estate del 1816, a villa Diodati nei pressi del lago di Ginevra, in una gara letteraria con il suo stesso compagno, quindi Lord Byron e il medico Polidori, poi pubblicato nel 1818, esattamente due secoli fa: Frankenstein contemporaneo di Karl Marx. Eppure il Frankenstein letterario, da sempre travisato nell’ottuso e bruto mostro cinematografico di molto successivo, è quella creatura chiamata artificialmente alla vita che rimane profondamente turbata dalla visione delle condizioni di miseria, povertà, ingiustizia nella quale vive la famiglia presso il capanno (cottage) nel quale è rifugiato. E così parla, nel libro: “passò un lungo periodo di tempo prima che scoprissi una delle cause del disagio di questa cara famiglia: la povertà, un male di cui soffrivano duramente” […] “Pensavo (povero sciocco!) che fosse in mio potere restituire la felicità a questa gente che tanto la meritava” (Shelley, 1982: 126, 129).
L’eredità di Frankenstein è in questo messaggio di restituzione della felicità a quella larga fetta di umanità che, oggi come ieri, è relegata nella squallida povertà, a fronte di una ristretta parte di società che naviga nella immensa ricchezza. È questa la potenza di radicale metamorfosi sociale, che innesca la trasformazione grazie alla mostruosa forza della vita dinanzi al “desiderio del mostro” (Fadini, Negri, Wolfe, 2001), Frankenstein, per ristabilire la giusta felicità contro vite impoverite, economicamente, culturalmente, nella vecchia Europa di allora, agli albori delle rivoluzioni industriali ottocentesche, e in quella di oggi cupamente depressa in rancorose lotte tra ottuse classe dirigenti.
3. L’arte è trovare un sistema per cambiare
Fu anche una rivolta contro la depressione, la primavera europea del Sessantotto: sia quella “sequestrata” dal realismo socialista ad est, per dirla con Milan Kundera, che quella attraversata da donne e giovani ad ovest, dove tutte e tutti scesero in strada, svuotando di colpo gli studi degli psicanalisti. Ce lo ricorda Edgar Morin oggi, nella sua recente introduzione a Maggio 68. La breccia (2018), che pure nella nuova sede di Nanterre dell’Università di Parigi, zeppa di colleghi professori “radicali”, Lefebvre, Touraine, Baudrillard, proprio nei primi mesi del Sessantotto, venivano radicalmente contestati dagli studenti Enragés, come raccontato dall’affabulatore Greil Marcus in quel formidabile testo sui “percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada ai Sex Pistols”, secondo il sottotitolo dell’edizione italiana di Lipstick traces (Marcus, 1991: 441).
E così, per assonanza temporale e postura indisciplinata tanto all’ordine quanto al caos, mi torna in mente quel Pino Pascali – ragazzo di Polignano a Mare, artista “spaziale” (in tutti i sensi possibili) che attraverserà anche la Scuola romana dei Sessanta, di Piazza del Popolo e dintorni, che proprio nel 1968 morirà, in seguito all’incidente in moto nel sottovia di Corso d’Italia, l’accidentato, odioso, Muro Torto – nelle incantate parole di Paola Pitagora (piccolo capolavoro): “a Venezia si era ribellato alle imposizioni contestatarie degli studenti, ma anche alla polizia. Era impaziente” (Pitagora, 2001: 157). Pino Pascali era impaziente, voleva sempre trovare un modo per “cambiare”, lo dice esplicitamente: “il realismo e l’astrazione mi spaventano ugualmente, perché non cambiano… L’arte è trovare un sistema per cambiare: come l’uomo che ha inventato la scodella per la prima volta” (158).
L’arte intesa come sistema per cambiare. E Pino Pascali sarà immerso completamente nel suo tempo, per cambiare il modo di intendere l’arte, passando, nella sua brevissima, intensissima vita (1935-1968), dai disegni al cinema, dalla TV alla pubblicità, dai quadri alle sue celebri “finte sculture”, fino a vere e proprie occupazioni permanenti dello spazio che ha intorno, opere-installazioni che ancora occupano, ad esempio, il cuore della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. Soprattutto, ora, nella nuova direzione della Galleria Nazionale da parte di Cristiana Collu, che ha cambiato, sovvertito, l’organizzazione spazio-temporale delle opere, in assemblaggi e cortocircuiti di visioni e immaginario, rileggendo con sapienza innovativa le tradizionali collezioni, in una esposizione non a caso titolata Time Is Out of Joint.
È l’invenzione artistica di un tempo nuovo, immerso nella scomposizione di quello passato, mille piani di assemblaggi collettivi, concatenamenti artistici, immaginazione costituente, nuove istituzioni nei sodalizi artistici tra pari. Una costruzione generale di forze nell’immanenza sociale, per evocare un immaginario che da Spinoza giunge a Gilles Deleuze, Felix Guattari e Antonio Negri, nell’affermazione di una enorme forza comune per abitare e trasformare l’epoca che ci è toccata in sorte, per dare ritmo al tempo, come movimento, per respirare insieme, cospirare tra i molti.
4. Ascoltare e danzare l’inaudito
Nel respiro di Pino Pascali, che in quei giorni di settembre 1968 se ne andava via, in quel fiato d’artista, con e oltre Piero Manzoni, c’era quell’immaginazione collettiva di mondi a venire che arriva fino a noi, passando per una moltitudine di portavoce, mediatori più o meno evanescenti, medium comuni e collassando probabilmente a metà dei Settanta, ancora una volta con il fiato, la voce, l’urlo del primo di questi visionari intercessori, dentro e contro il Novecento, battendo il tempo, fomentando il suono, gridando l’inaudito:
“una tradizione sconosciuta di vecchi pronunciamenti, poesie e avvenimenti, una storia segreta di antichi desideri e sconfitte entrò nella voce di Johnny Rotten e, poiché questa tradizione mancava di sanzioni culturali e di legittimità politica, poiché questa storia era composta solo di storie non finite e insoddisfatte, portava con sé una forza enorme” (Marcus, 1991: 454).
Una forza enorme che urla ancora. Che ha attraversato un altro tempo collassato, di accelerazione storica, intorno a quel 1989 della rivoluzione europea mancata, due secoli dopo, grazie ad altri portavoce di questa poetica potenza comune, duratura, che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare e vedere nella macchina attoriale di Carmelo Bene, nella sua voce indescrivibile con umani aggettivi, nella sua mimica postura, vera e propria macchina desiderante, dove “tutto funziona contemporaneamente, ma negli iati e rotture, nei guasti e colpi a vuoto, nelle intermittenze e corto circuiti, nelle distanze e frammentazioni, in una somma che non riunisce mai le sue parti in un tutto” (per dirla con un classico pezzo dei suoi amati Gilles Deleuze e Felix Guattari, de L’Antiedipo).
Eppoi quando abbiamo ballato a perdifiato, nei club, rave e per le street parade, i battiti accelerati della jungle, vincolo ancestrale, millenario, con “suoni primitivi e feste tribali”, passaggio intermedio con la potenza elettronica di Kraftwerk, l’assalto devastante di Einstürzende Neubauten e la cultura metropolitana dell’hip hop, preludio aurorale al nuovo mondo di sole nero delle onde soniche di Aphex Twin, Squarepusher e Burial, sincretiche visioni di futuro.
Eccolo il rumore vitale, il filo rosso nel tessuto cangiante di un’arte della rivolta permanente contro la depressione individuale e il rancore collettivo che ha il suo ago nel Sessantotto inteso come boa trans-temporale, avviso ai naviganti, codice sonoro, messaggio nella bottiglia che aspetta i suoi ulteriori cantori, intercessori, protagonisti di tutte le storie interrotte di libertà, felicità e tempo liberato, guardando negli occhi la paura del mostro che siamo (stati), Frankenstein, ancora: “il mio spirito esultava alla vista incantevole della natura; il mio passato era cancellato dalla memoria, il presente era tranquillo e il futuro dorato dai raggi luminosi della speranza e da previsioni di felicità” (Shelley, 1982: 130).
“La nostra epoca non deve più scrivere delle direttive poetiche, ma eseguirle” (All the King’s men, in «Internazionale Situazionista», n. 8, 1963).
Bibliografia
U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio della politica, manifestolibri, Roma 2001.
G. Marcus, Lipstick traces, 1989, trad. it. Tracce di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada ai Sex Pistols, Leonardo, Milano, 1991.
E. Morin, introduzione a Maggio 68. La breccia, Raffaello Cortina, Milano 2018.
P. Pitagora, Fiato d’artista. Dieci anni a piazza del Popolo, Marsilio, Venezia 2001.
M. Shelley, Frankenstein ossia il moderno Prometeo, introduzione di L. Chiaretti, Mondadori, Milano 1982 (1818).
Immagine in homepage: “Neon di Tim Etchells, fotografato da noi stessi al Thames Festival a London, nell’estate 2010, che poi è un verso tratto da una canzone di Cat Power, i tre sotto con gli occhiali da sole sembrava stessero lì apposta, ma non so chi siano e non si riconoscono, comunque, mi pare almeno”
Giuseppe/Peppe Allegri, Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate, ricercatore, formatore, docente, consulente indipendente in scienze politiche, sociali e giuridiche, maverick quintario, attivista sociale nelle nuove forme di lavoro e organizzatore culturale. Autore di studi, saggi, articoli, ricerche e volumi, tra i quali: La transizione alla Quinta Repubblica (2014), Le due Carte che (non) fecero l’Italia (2013); La furia dei cervelli (2011) e Il Quinto Stato (2013), con Roberto Ciccarelli; Sogno europeo o incubo? (2014) e Libertà e lavoro dopo il Jobs Act (2015), con Giuseppe Bronzini. È tra i curatori dei volumi La rivoluzione fra mito e costituzione (2017), Il tempo delle Costituzioni. Dall’Italia all’Europa (2014), Ventotene. Un manifesto per il futuro (2014), Democrazia e controllo pubblico dalla prima modernità al Web (2012). Collabora con il manifesto e fa parte della redazione di OperaViva Magazine. È socio fondatore del Basic Income Network – Italia, associazione che si batte per l’introduzione di un reddito di base.