“Se qualcosa è andato storto nella storia
dell’umanità (…) forse prese a farlo proprio quando
gli uomini persero la libertà di immaginare e di
attuare altre forme di esistenza sociale, al punto che
ora alcuni ritengono che questo particolare tipo di
libertà non ci sia mai stato, o non sia mai stato
esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità”.
(Graeber, Wengrow, 2022)
“Nella chiara e critica luce del giorno, gli
amministratori dell’illusione sussurrano il nostro
bisogno delle istituzioni: e le istituzioni sono tutte
politiche, e la politica è tutta correttiva; sembra che
allora abbiamo bisogno di istituzioni nel comune,
che trovino una sistemazione per quest’ultimo, che
ci correggano.
Ma non ci faremo correggere”.
(Harney, Moten, 2021)
Questo articolo a quattro mani nasce primariamente dalla nostra voglia di aprire un dialogo che parta dal nostro campo di ricerca comune, ma (ancora) mai condiviso, in un periodo storico nel quale la questione della cura è diventata un elemento non più demandabile per ripensare le relazioni sociali in termini non solo di mera resilienza ma di resistenza ai regimi urbani, sociali ed economici che si danno.
La cura, infatti, almeno dalla pandemia in poi, è emersa come un concetto politico, affatto buonista, capace di tenere insieme una critica radicale alle gestioni autoritarie e classificatorie dei bisogni e delle fragilità e la necessità di riparare (o di costruire) legami di interdipendenza che tengano in considerazione anche i desideri e le aspirazioni di ciascunə ad un livello relazionale, non verticale e, di conseguenza, sempre generativo.
Con questo termine intendiamo, in totale accordo con quanto scrivono lə autοrə del Manifesto della cura (The Care Collective, 2021), una pratica di interdipendenza che colga l’ambivalenza di cosa sia cura e che quindi permetta il riconoscimento dei bisogni sia di chi dà, sia di chi riceve cura, costruendo così una circolarità promiscua, cioè indiscriminata.
Essendoci occupate dello stesso spazio urbano nelle nostre ricerche, che avevano focus molto diversi, ci siamo trovate oggi a condividere riflessioni nelle quali il concetto di cura si è dimostrato centrale per ripensare e ricostruire modi e pratiche di relazioni e di agire, coi nostri corpi, nello spazio, attraverso esso ed interagendo con esso.
La città di Atene è la protagonista di questo scritto perché è il luogo dove queste riflessioni sono situate, seminate e germogliate. E’ anche il luogo dove ci pare che una controstoria urbana possa raccontarsi attraverso pratiche di cura collettive che nel tempo si sono configurate come antagoniste alle politiche di austerità e le sue conseguenze odierne. Tuttavia non è nostra intenzione alimentare ulteriormente il mito che da sempre ammanta Atene: non crediamo affatto, infatti, che la sua centralità nella costruzione dell’idea occidentale di “democrazia” sia un elemento rilevante, né ci interessa stimolare una curiosità esotica, esaltando il protagonismo politico dei “greci” durante gli anni della crisi economica. Piuttosto, vogliamo suggerire che la sua interstizialità, il suo stare al centro del Mediterraneo e quindi ai margini dell’Europa, al centro della storia antica e quindi ai margini di quella contemporanea, al centro del discorso egemonico e quindi al margine della sua pratica quotidiana, siano ciò che costruisce questo spazio come denso e carico di possibile.
Nel proporre una controstoria di Atene, vogliamo dunque rievocare frammenti di crisi multiple e sovrapposte che, rivelando la fragilità delle istituzioni e aprendo nuovi margini per creare alternative, hanno contribuito a spostare il lavoro di cura dallo spazio privato e domestico,e a collocarlo nello spazio pubblico, rendendo quest’ultimo co-produttore dell’agire sociale. Nel farsi così pratica collettiva, il lavoro di cura non è più (o almeno non esclusivamente) lavoro femminile, lavoro di donne; piuttosto ha capacità di creare nuove modalità di relazioni tra individui, con la città e le sue infrastrutture, infischiandosene e talvolta configgendo con l’istituzionalizzazione, dirigenziale e universalistica, dei sistemi di governo.
Consapevoli delle implicazioni politiche e biopolitiche implicite nel concetto di crisi come blindspot che “genera una produzione di conoscenza centrata su eventi, cambiamenti e rotture” (Roitman, 2013:13), vogliamo superare la concezione di crisi come mera infrazione che produce una sospensione temporale in attesa di un ritorno ad una presunta normalità, e guardare piuttosto alle continuità e alle pratiche di cura che si dispiegano nella riproduzione, riparazione e riarticolazione del quotidiano, del collettivo ed essenzialmente del politico. Ci preme ripensare la crisi da un punto di vista che privilegi la creazione di infrastrutture che sono al tempo stesso sociali e relazionali, a volte precarie e temporanee, ma pur sempre efficaci nel produrre nuovi orizzonti di solidarietà, conflitto e significato politico. La controstoria di Atene in frammenti è un tentativo di raccontare una città e la sua capacità di curarsi. Cura di cui vogliamo sottolineare i significati multipli: quello di prendersi cura di sé e degli altri, (to take care of); quello di atto e pratica quotidiana (to care for), ma anche nel significato di interessarsi e preoccuparsi (to care about), in una dimensione collettiva, nello spazio pubblico che aggrega e crea nuove forme di socialità (to care with).
La cosiddetta catastrofe dell’Asia Minore del 1922, la più recente e tristemente famosa crisi economica greca (2008-2018), l’estate della crisi dei rifugiati (2015-2016), e la pandemia di COVID-19 rappresentano per noi dei momenti cruciali per (ri)pensare un concetto di cura spazializzata, come infrastruttura che si colloca al di fuori, nei fatti in conflitto con lo stato e le sue istituzioni che producono modi di governamentalità (Fassin, 2011) e stati di eccezione (Agamben, 2003). Questi momenti, storici e politici, sono stati generati e hanno generato conflitti ma hanno anche permesso l’affiorare di pratiche collettive di cura in cui la città di Atene non è solamente sfondo ma diviene soggetto.
Il concetto di infrastruttura ci pare in questo senso proficuo, proprio perché, lungi dall’essere la mera emanazione di un’autorità centrale, è prevalentemente un concetto relazionale che pone in essere le possibilità di un un’azione collettiva e di un’agency imprevedibile. Non è un caso, infatti, che i movimenti transfemministi, specie durante la pandemia, abbiano utilizzato moltissimo, dentro e fuori metafora, la definizione di infrastruttura di cura per rifarsi al complesso sistema insieme materiale e simbolico, gestuale e locutorio che si assembla allə attorə sociali e costruisce cura. Se le questioni di cura sono storicamente questioni care al femminismo che dagli anni ‘70 in poi ha cercato di ripoliticizzare il dibattito da una prospettiva di genere (Federici, 1975; Bhattacharya, 2017; Farris, 2017) e più recentemente postcoloniale (Gago, 2020; Olufemi, 2020; Verges, 2021), non è un caso che anche le moltissime studiose che si sono occupate e si occupano di infrastrutture (Star, Ruhleder, 1990; Cowen, 2014; Easterling, 2014; Tsing et al, 2021; Berlant, 2022) siano femministe.
Inoltre crediamo che, in una città come Atene dove, per ragioni anche meramente climatiche, lo spazio pubblico è sempre vissuto e attraversato, esso stesso diventi una di queste infrastrutture. Parafrasando Henri Lefebvre (1974), lo spazio, lungi da essere mero palcoscenico, è piuttosto una continua produzione dell’azione sociale (ma anche interspecie), che lo determina e che è determinata da esso.
Bisogna però ora fare una precisazione su cosa intendiamo per spazio pubblico. Non ci riferiamo di certo alla magnanima costruzione di qualcosa data al pubblico, per un pubblico. In effetti, come mette bene in evidenza l’antropologo catalano Manuel Delgado, lo spazio pubblico è, nella sua stessa concezione e progettazione come tale, uno spazio ideologico, dove lo stato proietta il suo campo di dominio, nominandolo come democratico (Delgado, 2007). Noi, piuttosto, con questa espressione ci riferiamo a quello spazio di possibilità che si crea nell’atto generativo delle relazioni. In questo senso lo spazio pubblico per noi è relativo all’uso che se ne fa (Crosta, 2010), e non al suo statuto iniziale.
La progettazione di un parco, come il Pedion tou Areos che emergerà diffusamente nella nostra trattazione, ad esempio, non lo rende di per sé uno spazio pubblico, se però quel parco diventa l’infrastruttura de «l’affetto, il pensiero, la socialità e l’immaginazione che costituiscono i mezzi sottocomuni della riproduzione sociale» (Harney, Moten 2021:139), quello spazio per noi è pubblico.
Lo spazio infatti, non astrattamente ma nella sua materialità, è una produzione sociale, perché incorpora le forme urbane e i loro usi concreti e, così facendo, genera conflitto.
Il grande apporto del pensiero femminista al discorso sulla città (Loraux, 1997; Bondi, 2008; Lees, 2016; Kern, 2020) è quello di mettere in luce come questo, ma anche le micro-pratiche del quotidiano che producono e riproducono lo spazio, abbiano sempre anche a che vedere col privilegio.
Come evidenziano lə autorə di The Urban Infrastructure of Care (Binet et al., 2022), infatti, è fondamentale che la pianificazione valorizzi la cura e la renda visibile. Questo è possibile chiedendosi chi sono le persone che usano lo spazio, ma soprattutto come lo usano, quali limiti lo spazio costruito impone loro, perché e come questə, nel loro agire quotidiano, modificano intenzionalmente lo spazio progettato per venire incontro alle loro esigenze e ai loro desideri. Detta in termini antropologici, è necessario chiederci quale agency le persone esercitino sullo spazio per trasformare le infrastrutture istituzionali in infrastrutture di cura e quali di queste nascano dal gesto generativo del diritto alla città (Lefebvre, 1968). In questo senso, e anche grazie al contributo della critica femminista, le infrastrutture smettono di essere considerate meri artefatti tecnologici (spesso molto costosi) e diventano concetti relazionali (Star, 1999) che, «mai neutrali, ma politica perpetrata con altri mezzi» (MacFarlaine e Rutherford, 2008: 370), si rivelano concrezioni dense, al contempo materiali e simboliche, che si producono e si riproducono attraverso l’azione sociale.
Quando, quindi, parliamo di infrastrutture di cura ci rifacciamo a questo orizzonte di senso, un orizzonte preminentemente politico e non meramente metaforico, nel quale lo spazio e la sua materialità hanno un ruolo fondamentale.
Farsi casa o della materialità dell’abitare come pratica di cura
Gli eventi che coinvolgono Atene nei primi decenni del secolo scorso ci offrono un primo esempio per ripensare la relazione tra spazio e relazioni di cura in un contesto che ha ancora potenti risonanze emotive e politiche nella Grecia contemporanea.
A seguito del trattato di Losanna del 1923 con cui Grecia e Turchia hanno sancito lo “scambio di popolazioni”, un imprecisato numero di persone (dal milione e mezzo a più di tre milioni) grecofone e di religione ortodossa, originarie o che vivevano in Asia Minore, furono deportate in Grecia dalla Turchia, dopo che molte erano già fuggite lì, e circa trecentomila (non solo turchi, ma anche albanesi e rom di fede islamica e l’intera comunità islamica di Creta) subirono la stessa sorte ma viaggiando dalla Grecia alla Turchia.
Il trattato seguì di un anno quella che è nota come “catastrofe dell’Asia Minore”: la cacciata, con la caduta dell’Impero Ottomano e l’avvento della Turchia moderna, delle comunità greche dalla Turchia. L’arrivo ad Atene di profughə dall’Asia Minore fu una delle motrici principali della trasformazione urbana della città che, allora molto piccola, non era in grado di accogliere un così alto numero di rifugiatə, e gli interventi statali si dimostrano insufficienti a soddisfare la crescente richiesta di case.
Molti spazi pubblici della città, in modo particolare università, teatri, piazze e parchi (e tra loro il Pedion tou Areos) ospitarono a lungo gli alloggi di fortuna delle migliaia di famiglie che non avevano un posto dove stare. Questi, insieme ai quartieri autocostruiti dallə stessə rifugiatə, diventarono luoghi propriamente dell’abitare.
I Turkosporoi (“semi di Turchia”), come venivano chiamati in modo denigrante lə rifugiatə, nonostante fossero grecofonə e ortodossə, infatti, faticarono per lungo tempo a inserirsi nel contesto urbano di Atene, piccolo e poco cosmopolita rispetto alle loro città di Anatolia, e subirono un fortissimo razzismo. Spintə ai margini metaforici e fisici dello spazio urbano, andarono ad abitare negli interstizi tra la città e i paesi circostanti. I quartieri di Nea Smyrni, Nea Ionia, Nea Filadelfia e Kessariani, solo per citarne alcuni, nacquero dalle autocostruzioni deə rifugiatə, che contribuirono alla trasformazione urbana e socio-economica di Atene.
Al flusso di rifugiatə arrivati in Attica nel 1922, inoltre, ne seguirà, nel 1955, uno altrettanto imponente, causato dal “pogrom di Istanbul” del 1955.
Oggi questo segmento controverso di storia appare in qualche modo pacificato, e i mikrasiates sono considerati i veri e propri fautori dell’ammodernamento dei costumi e degli stili di vita della capitale. Ci sarebbe molto da dire su come la costruzione dell’ideologia storica nazionale abbia obliato e contemporaneamente inglobato la sofferenza e le difficilissime condizioni attraverso cui le greche e i greci di Anatolia sono diventati “cittadinə” e purtroppo non ne abbiamo lo spazio.
In questo contesto, il nostro interesse si rivolge all’uso dello spazio pubblico che lə rifugiatə dell’Asia Minore facevano, abitandolo, e un riferimento al lavoro di Doreen Massey non è solamente dovuto ma inevitabile. Nel suo seminale testo For Space (2005), Massey sviluppa il concetto di throwntogetherness per descrivere l’ineludibile caratteristica che ha lo spazio (specie quello pubblico delle città) di farsi e rifarsi attraverso le relazioni sociali, di genere e politiche, sempre presenti e intrecciate, in assemblaggi multipli e simultanei di materialità, tempi, poteri e identità che sono sempre in divenire (Massey, 2005). Abitare lo spazio, quindi, comporta un particolare regime di visibilità e di appartenenza al divenire materiale dell’urbano che, come ci ricorda Camillo Boano, significa fondamentalmente ri-centrare questa dimensione relazionale e svilupparla nel senso di una vita collettiva. Così facendo lo spazio, «rendendo visibile la vita collettiva, dove la cura come processo di tenuta insieme (di materialità e di temporalità) favorisce le nozioni di prendersi cura, riparazione ed immaginazione (…) si fa infrastruttura di cura» (Boano, 2020:12).
Questa idea di processo si ritrova anche nella riflessione dell’urbanista Lidia Decandia sull’origine delle città, la quale, citando il geografo Edward Soja, scrive chiaramente che «nel privilegiare, quasi sempre, il momento in cui la città è emersa come aggregato spaziale coerente, abbiamo infatti (…) minimizzato l’importanza dei processi dinamici associati con la spazialità della vita sociale e con la costruzione di specifiche geografie umane» (Decandia, 2017:148). Nella stessa direzione vanno David Graeber e David Wengrow ne L’alba di tutto, dove spiegano, sulla base delle evidenze archeologiche, che le città, lungi dall’essere semplicemente dispositivi di potere e luoghi abitati stabilmente, nacquero come esperimenti civici su larga scala, come luoghi dove gruppi sociali di piccole dimensioni, organizzati però in coalizioni o confederazioni fluide si incontravano a scopo rituale e in una dimensione di cura reciproca, in assenza di classi dirigenti ed élite gestionali (Graeber e Wengrow, 2022).
Uno spazio di mobilità e di transito, il contrario dell’immaginario della fortezza a cui siamo così abituatə.
Riappropriarsi dello spazio pubblico come spazio di relazioni
L’estate del 2016, tristemente nota come l’estate della crisi dei rifugiati, offre secondo noi uno spunto importante per riflettere sulle dinamiche e le infrastrutture che nel tempo sono state create e mobilizzate per far fronte alle crisi, esattamente nell’ottica proposta da Decandia: ritrovarsi insieme non per difendersi da minacce esterne ma per creare nuove forme di care, di mutualismo e solidarietà, di integrazione e cittadinanza che vadano al di là dei vuoti proclami e programmi nazionali di emergenza e accoglienza. Se i mikrasiatikes arrivarono ad Atene occupando inizialmente gli interstizi della città, nel 2016 Atene è una città che si è già riconfigurata in un’ottica di autogestione delle pratiche cura in un momento in cui la crisi economica del 2008 sembra raggiungere il suo culmine. Sotto il diktat della Troika, lo svuotamento dello stato sociale segue e allo stesso tempo acuisce uno stato di povertà diffusa che interessa trasversalmente tutte le classi sociali: proliferano cliniche sociali, soup kitchens, food banks che accolgono e offrono supporto e cura ad ateniesi in difficoltà, tanto quanto a migranti e rifugiatə arrivati nella capitale greca.
Senza voler contribuire all’ulteriore romanticizzazione della mobilitazione collettiva e le iniziative di solidarietà che sono proliferate ad Atene e nel resto della nazione, vogliamo mettere in luce la capacità di una città di riorganizzarsi dal basso e mobilizzare le sue infrastrutture per crearne di nuove. Pedion tou Areos è uno dei (pochi) parchi di Atene che nell’estate del 2015 finisce sotto la luce dei riflettori nazionali e internazionali: con l’arrivo di centinaia di rifugiatə dall’Afghanistan in una città al collasso nel caldo torrido di luglio, il blocco dei capitali e l’ansia relativa alla scarsità di beni alimentari e medicinali, Pedion tou Areos diventa un punto di incontro tra rifugiatə e Ateniesi. Lo spazio pubblico si rinconfigura come un’infrastruttura di cura per sé: centinaia di tende vengono fornite allə rifugiatə che già usano questo spazio come tappa intermedia del loro percorso migratorio, ONG, volontarə e attivistə locali portano cibo, acqua, medicine, vestiti. Pedion tou Areos non è più una proiezione e manifestazione della pianificazione urbana, ma diventa uno spazio che costituisce ed allo stesso tempo è costituito da nuove relazioni di cura che, nel farsi collettive, si pongono come antagoniste alle restrittive politiche migratorie europee e a quelle piuttosto ambigue del governo greco, aprendo la strada ad una vastissima mobilitazione di solidarietà dal basso, in città, nelle isole e alle frontiere.
Anche la pandemia metterà in evidenza dinamiche simili, di aspro confronto tra il governo della città e la città stessa: l’interdizione dello spazio pubblico, infatti, ha concorso paradossalmente a riconfigurarlo come uno spazio di relazioni orizzontali di cura e non solo di rischio e contagio.
Il margine come spazio di cura
Il periodo pandemico in Grecia si è caratterizzato da un lato dalla paura del contagio, esasperata anche dalla mancanza quasi completa di un welfare sanitario adeguato, smantellato durante gli anni della crisi economica, e dall’altro da misure fortemente repressive da parte dello stato, atte non tanto a preservare la salute dei cittadini e delle cittadine, quanto a normarne la vita quotidiana e le modalità di accesso agli spazi. Un esempio di ciò può essere rintracciato nel grande evento organizzato dal comune di Atene per inaugurare la nuova “piazza Omonia” (un’operazione di rigenerazione urbana di un luogo considerato degradato nel centro della città, ma che si trova nelle prossimità di diverse grandi strutture di ricezione turistica), in piena pandemia, in concomitanza con le violente cariche della polizia nelle piazze di quartiere dove le persone uscivano a respirare.
Una di queste piazze era plateia Protomagias.
Spazio che connette il centro alla prima periferia (il quartiere di Kypseli), si tratta di una piazza a scaloni in cemento, sul limitare del Pedion tou Areos, per molti anni lasciata all’incuria e ora al centro della speculazione rigenerativa, diventerà anche il luogo di una fermata della nuova linea della metropolitana. Da sempre considerata un “luogo marginale”, plateia Protomagias era generalmente frequentata dagli abitanti dei quartieri limitrofi e da alcune comunità con background migratorio. Improvvisamente durante la pandemia è diventata lo spazio di elezione di persone diversissime per retroterra culturale, sociale, per età, che si recavano lì a fare le più svariate attività: sport all’aria aperta, musica dal vivo, bere birrette, portare i bambini a giocare, chiacchierare, costruendo «un senso di comunanza quotidiana, di simultaneità delle azioni collettive che costituiva una sorta di comunità temporanea ed eterogenea» (Kallianos e Karathanasis, 2021). Lo spazio pubblico di plateia Protomagias permetteva di combinare pratiche di cura rispetto a due situazioni dolorose combinate: il virus, perché essendo un luogo aperto ne limitava la diffusione tra persona e persona, e, non meno importante, permetteva la rottura dell’isolamento a cui le persone erano costrette. Il suo potenziale generativo non riguardava più il controllo dello spazio da parte di un potere centrale ed autoritario, che (come nel caso dell’inaugurazione della nuova piazza Omonia) legava una presunta garanzia di sicurezza all’istituzione del suo potere, ma piuttosto si faceva infrastruttura di interdipendenza e cura reciproche e orizzontali.
“Lo spazio è l’uso che se ne fa”
Un’altra celebre piazza che come Omonia è in continua rigenerazione, dalla prima fase del 1896 a quelle degli anni 90 in preparazione dei giochi olimpico del 2004, è piazza Syntagma: uno spazio quadrato, completamente circondato dalla viabilità urbana, Syntagma vuole essere una vetrina della Grecia moderna ma, nel 2011, si rivelava essere poco più di un luogo di rappresentanza, un luogo di attraversamento, con la stazione della metropolitana, e di consumo, con via Ermou, la via dello shopping, continuamente presidiato da forze dell’ordine.
La peculiarità del luogo consiste nella sua verticalità: consta di un piano inclinato, con una scalinata che, dall’area pedonalizzata “bassa”, porta sino a via Amalias, arteria a due corsie sovrastata dal palazzo del parlamento; questa parte è chiamata “piazza alta”. Durante le mobilitazioni del Movimento di piazza Syntagma del 2011 questa conformazione spaziale ha determinato una peculiare spazializzazione politica. La “piazza bassa” era il luogo delle assemblee, delle discussioni, della pianificazione di alternative all’austerity. Non apertamente “politico”, era uno spazio dove stare per sentirsi meno solə, per tessere immaginazioni, per mescolarsi con le sofferenze dellə altrə. La “piazza alta”, invece, aveva tutt’altra natura. Si trattava di uno spazio più “teatrale”, sempre agghindato di bandiere nazionali, in cui venivano espresse ingiurie verso il parlamento e dove spesso si intonava l’inno greco. Nonostante le immagini della “piazza alta” abbiano spesso confuso l’immaginario su questo Movimento (Dalakoglou, 2012; Theodossopoulos, 2013) e sulla sua possibilità di essere incanalato nei ranghi della politica istituzionale, ciò di cui è stata espressione la “piazza bassa” è stato sicuramente qualcosa di immediatamente sociale (Harney e Moten, 2021), più che non propriamente politico che, dopo il violento sgombero, è continuato nei quartieri e nelle periferie, confermando la dimensione mobile e generativa che nasce dall’intersezione tra pratiche di cura e spazio.
Quello che ci pare interessante notare è che quello spazio, che incorporava la crisi e la rendeva visibile, è stato per molte persone uno spazio da abitare per non soccombere, uno spazio della «pratica dell’informale». Uno spazio di cura.
In questo caso l’analogia lessicale è puramente casuale, ma la “piazza bassa” di piazza Syntagma è stata, in quei giorni, un undercommons (ibidem).
Conclusioni, per non concludere ma per cominciare
Quello che abbiamo cercato di illustrare attraverso questi frammenti di spazialità che sono anche e soprattutto incursioni in pratiche di cura e riparazione che hanno avuto luogo, è la dimensione indissolubilmente materiale ed immateriale, visibile e sotterranea dei processi di cura che, lungi da essere la mera territorializzazione di ciò che si ha in comune, istituente un dominio che può essere appropriato dall’istituzione, possiedono una dimensione mobile e generativa (infrastrutturale) che, situandosi, trascende i luoghi stessi, costruendo pratiche: più commoning che commons. Inserendosi brillantemente nel dibattito sui commons, infatti, mal tradotti e spesso malinterpretati in italiano come Beni Comuni, Massimo De Angelis suggerisce come, invece, non tanto lo spazio (o il bene) in sé, quanto più la pratica di riproduzione di ciò che si ha in comune e che ha luogo, sia ciò che fonda il comune (De Angelis, 2017).
Lo statuto di ambiguità tipico degli spazi pubblici, in questo senso, insieme materialmente costruiti e aperti all’imprevedibile, spazi di transito e di visibilità, ci pare, è ciò che permette loro di essere il luogo dove tali processi e tali pratiche escono dalla sfera del privato e acquisiscono forza.
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Anna Giulia Della Puppa è antropologa urbana. Si è specializzata in antropologia museale e poi in metodologie partecipative. Attualmente è dottoranda in urbanistica alla Sapienza di Roma. Il suo campo di ricerca privilegiato è la città di Atene, dove vive parte dell’anno da un decennio e dove ha condotto diverse ricerche etnografiche. Qui attualmente si occupa di infrastrutture e processi di turistificazione. Fa parte del gruppo di ricerca di antropologia pubblica Montagne in Movimento.
Letizia Bonanno è antropologa sociale e si occupa prevalentemente antropologia dello stato e pratiche collettive di salute. Si interessa di metodi e teorie dell’etnografia e ha condotto ricerca di campo etnografica ad Atene e a Roma. Dal 2015 combina etnografia e fumetti.