«La vera traduzione non è una relazione binaria tra due lingue, ma una storia a tre.
Il terzo punto del triangolo è ciò che sta dietro le parole del testo originale prima che venisse scritto.
La vera traduzione esige che si ritorni al pre-verbale (…).
Una lingua parlata è un corpo, una creatura vivente».
John Berger, Confabulazioni, 2014
Prendere corpo è un podcast radiofonico realizzato dalla classe quarta B del Liceo Scientifico Amaldi-Sraffa di Orbassano (To), che potete ascoltare QUI
Esso è il risultato di un progetto guidato dal coreografo Salvo Lombardo, dall’antropologa Giulia Grechi e dalla storica dell’arte Viviana Gravano nell’ambito del progetto di sperimentazione Media Dance della Lavanderia a Vapore di Collegno diretto da Mara Loro (QUI potete leggerne una presentazione). Chi scrive ha la fortuna di essere l’insegnante di lettere della classe. Più che un resoconto o un saggio, questa è, per usare un’espressione di John Berger, una “confabulazione”: tra l’esperienza in sé e le parole con cui posso tradurla io – e questo impone un mio preliminare posizionamento; e, soprattutto, le parole con cui l’hanno tradotta l_ student_ che l’hanno vissuta, a cui cercherò di lasciare il giusto spazio, in un’intenzione di autorialità debole.
La scuola anestetica
Un triangolo simile a quello di cui parla Berger, a mio avviso, esiste anche nella scuola: tra le menti e i contenuti (e il linguaggio che veicola i secondi tra le prime) c’è un punto cieco, visibile ma non visto: ed è il corpo, nella relazione con gli altri corpi, con lo spazio e il tempo. Me ne sono accorto quando, giovane insegnante, ho messo piede in un’aula di prima media. Il primo giorno, per loro; e anche per me. E le nostre presenze eccedevano la parola. Che cosa avrei dovuto dire? A che cosa potevano valermi tutte le parole studiate nei libri? Un panico a cui, credo, ho trovato parziali rimedi nel corso degli anni.
Direi oggi che, guardando alla prassi educativo-didattica consolidata dalla tradizione, la parola chiave sia “trasparenza”: è bene stabilire chiaramente che cosa si intende fare, come, in quali tempi e con quali risorse. C’è un portato giustamente rassicurante in tutto ciò. Che, tra l’altro, consente di glissare sull’interrogativo del perché fare qualcosa anziché qualcos’altro: la logica batte il senso.
Un corollario è l’anestesia: è bene che l’ambiente sia depurato di stimoli sensoriali, cognitivi ed emotivi; sono ammessi solo quelli necessari, e con moderazione (si possono anche concedere momenti di confusione, ma solo come intervalli, privi di significatività). Solo così gli obiettivi possono essere raggiunti e adeguatamente valutati, nella prospettiva – che direi convergente – che percorsi, mete e modalità siano prefissati.
Bisogna regolare l’eccesso di informazioni: e il corpo è una fonte troppo disturbante. Eppure questo dominio aveva, e ha, un prezzo. Basterebbe osservare una scuola togliendo l’audio, come in un film muto: le posture flosce protratte per ore dagli studenti e dalle studentesse, i loro sguardi spesso vacui; i volti deformati de_ docenti intenti a spiegare, la fretta con cui si trascinano da un’aula all’altra; le schiene piegate sotto il peso dei libri.
Di qui il mio interesse per le arti performative: forse, pensavo, si sarebbe potuto attingere dalle discipline che si occupano artisticamente del corpo, e trarne strumenti da mettere al servizio del progetto educativo-didattico. Non per metterlo in discussione nelle sue finalità, ma per realizzarlo con maggior efficienza. alcuni esempi: la lettura ad alta voce e la mise en espace per apprezzare di più la letteratura; lo stretching prima di fare grammatica latina. Tentativi – forse goffi, e certo non originali – attinti da esperienze condotte in prima persona, principalmente grazie alla frequentazione degli ambienti teatrali, e sperimentati poi a scuola in uno stato di tendenziale isolamento professionale e anche metodologico. Perché è difficile definire problemi e soluzioni se mancano le parole per farlo; e le parole nuove possono anche nascere da intuizioni individuali, ma hanno bisogno di reti, di comunità, per crescere.
La pandemia come cesura
Quindi non si tratta di introdurre elementi estetici all’interno di una cornice anestetica: bisogna provare a cambiare paradigma. Ecco, credo che Prendere corpo possa aver generato alcune indicazioni interessanti in questo senso. Ma prima, due parole sull’emergenza Covid-19: come è noto, ha colto tutt_ alla sprovvista, generando molteplici forme di sofferenza.
La scuola è stata tra le realtà colpite in modo più prolungato e strutturale: smaterializzazione dei corpi e digitalizzazione a passi forzati, problemi a livello di didattica e di valutazione, generalizzato malessere psicologico, ulteriore allargamento delle disuguaglianze. Impossibile non rimpiangere la scuola di prima. Ma rimpiangere esattamente cosa? La presenza, ossia i corpi: qualcosa, però, di mai veramente sottoposto a esame, mai preso in carico seriamente. Più in generale, della pandemia è stato colto (dentro e fuori dalla scuola) il potente effetto di condizionamento (le nuove regole, dall’isolamento al distanziamento, dalle sanificazioni alle mascherine), ma molto meno l’aspetto di decondizionamento dal tempo precedente; e ciò oggi rischia di inficiare il ripensamento del futuro.
All’indomani dello scoppio della pandemia, la Lavanderia a Vapore di Collegno (To), Centro Regionale per la Danza della Fondazione Piemonte dal Vivo, in particolare il direttore, Matteo Negrin, e la responsabile dell’Area ricerca e innovazione, Mara Loro, hanno invece avuto l’acume e il coraggio di dirigersi verso un ripensamento radicale: posta la condizione di protratta emergenza e di chiusura del comparto artistico e culturale, hanno saputo fare rete. Hanno coinvolto le istituzioni locali deputate alla salute pubblica (l’Asl Torino 3), e la realtà accademica (il Dipartimento di Pedagogia dell’Università Bicocca di Milano) e scolastica (l’Ufficio Scolastico Territoriale di Torino) trasformando Media Dance, format di proposte rivolto tradizionalmente alle scuole del territorio, in un vero e proprio progetto di sperimentazione che si poneva una domanda: che ruolo possono svolgere le arti performative nel promozione dell’educazione e della salute in un frangente come quello della pandemia? Ne sono scaturiti in particolare quattro progetti-pilota, connessi ad alcune residenze d’artista.
Il progetto
Prendere corpo è una di queste sperimentazioni. A guidare il percorso è stato Salvo Lombardo, artista associato della Lavanderia, insieme a Viviana Gravano e a Giulia Grechi. Il progetto ha coinvolto la classe quarta B del Liceo Scientifico in quanto attività di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, ex Alternanza Scuola-Lavoro), per un totale di 35 ore. Un gruppo classe che conosco dal primo anno, composto da persone corrette, simpatiche pur non essendo troppo espansive, dedite allo studio, seppur con un approccio un po’ scolastico, che abbisognava di un piccolo scardinamento. E questo progetto era pensato apposta per loro.
Nella progettazione avviata durante il primo lockdown nella primavera del 2020, la proposta era stata quella di avviare gli studenti e le studentesse a una pratica prevalentemente corporea, in dialogo tra danza e sport, da svilupparsi nello spazio pubblico: quello della scuola e del territorio di Orbassano, nel torinese. Il protrarsi delle chiusure scolastiche nell’autunno e l’impossibilità della presenza fisica hanno messo a dura prova la tenuta del progetto: respinta con determinazione l’idea di sospendere le attività, ci si è diretti verso una riconfigurazione a distanza. Non potendo impiegare il corpo come mezzo, lo si è preso in esame in quanto (s)oggetto di studio. Spiega Salvo Lombardo nelle note del progetto: “In ogni ambito del nostro quotidiano (…) avere un corpo equivale ad essere-corpo”; pertanto “ogni discorso, ogni narrazione, ogni rappresentazione legata al corpo deve considerarsi, in qualche modo, come strettamente legata a processi di incorporazione”.
Di qui l’idea di un workshop “incentrato su una riflessione che pone il corpo in relazione ai concetti di potere, autorità e rappresentazione”, secondo una prospettiva intersezionale, che mira a esplicitare i meccanismi di canonizzazione e di marginalizzazione dei corpi in base a categorie identitarie, con particolare riferimento a tre ambiti tematici: la rappresentazione del corpo femminile, la rappresentazione del corpo maschile e la relazione tra corpo e spazio pubblico. Per gli incontri tra le tre guide del progetto e la classe è stata utilizzata la piattaforma Zoom. Tali incontri si sono strutturati in tre moduli intensivi (tre-quattro giorni consecutivi) nei mesi di marzo-maggio 2021.
Osservare gli sguardi
Nelle settimane precedenti, ero stato molto vago con gli studenti e le studentesse. Un po’ per creare un senso di attesa, un po’ perché in effetti non sapevo che piega avrebbe assunto il progetto. Era consustanziale a esso un certo grado di apertura, di imprevedibilità: di opacità. All’avvio del progetto mi sono eclissato, seguendo solo frammentariamente le sessioni di lavoro, e accordando piena fiducia alle guide, un po’ per necessità legate ad altre incombenze lavorative, un po’ per rispettare lo spirito del PCTO, ma soprattutto per deliberata scelta: ero curioso di capire cosa sarebbe potuto emergere in assenza della mia figura inevitabilmente normativa.
Buona parte di quanto è poi avvenuto si è manifestato ai miei occhi a percorso concluso, sotto le insegne della meraviglia. Ho però chiesto a studenti e studentesse di stilare un diario di bordo, modulo dopo modulo, rispondendo ad alcune domande aperte. Un modo per avere traccia di quanto stesse avvenendo, e, soprattutto, per cogliere il loro punto di vista sul processo. Nel ripercorrere le tappe del percorso attingerò dunque a questo deposito di parole.
L’impatto e l’immaginario
Il primo modulo è stato dedicato alla reciproca conoscenza e alla libera esplorazione e discussione di un archivio di immagini (fotografie e video soprattutto, tratte dall’arte e dalla comunicazione nel senso più ampio) legate ai tre sotto-temi che ho esplicitato nel paragrafo precedente. Ho chiesto loro una prima impressione. Ecco come comincia Filippo: “Guardo con impazienza quella piccola schermata bianca mentre la rotellina del caricamento continua a girare incessantemente. 15:08, sono passati otto minuti dopo le tre, ma ancora niente. Dopo essermi assicurato di aver selezionato il link giusto, mi stiracchio sporgendomi dalla sedia e sbadiglio; ora vorrei dormire, speriamo valga la pena di passare altre ore davanti al pc, mi dico. Poi finalmente la rotellina smette di girare a vuoto e la schermata si ingrandisce; mi alzo dalla sedia ed entro nella chiamata”.
Osservando trasversalmente le scritture, emergono con una certa frequenza alcune osservazioni. Sulle aspettative iniziali si alternano pregiudizi di noia (Federica: “Inizialmente ero un po’ scettica nei confronti di questa attività, (…) pensavo che non mi sarebbe interessata o che mi avrebbe addirittura annoiata”) e, soprattutto, stati di incertezza e dubbio, che spesso si sono protratti anche dopo l’avvio (Giulia: “ero molto confusa, non avevo idea di che cosa avremmo trattato e quale sarebbe stato l’obiettivo del corso; dopo il primo giorno in realtà lo ero ancora di più”).
L’impatto con le immagini è stato forte. Sono rimaste impresse, tra le altre, la celebre fotografia di Naomi Campbell “la quale con una certa intimità versa del latte sul seno, fissando la telecamera con sguardo provocante” (Mirko), realizzata da David LaChapelle; l’immagine per la rivista VMan che ritrae cinque uomini seminudi abbracciati, “vicini e in sintonia tra loro” (Erika); e ancora “due ragazze di colore con il tutù e le punte di danza e sullo sfondo un muro ricoperto di scritte in segno di protesta per Black Lives Matter” (Irene). E altre ancora. “Argomenti un po’ taboo e che potevano suscitare imbarazzo” (Jacopo); “cose che vediamo tutti i giorni, ma di cui non si parla mai abbastanza” (Federica). L’effetto? “Imbarazzo e silenzio” (Davide).
A questa difficoltà se ne è sommata una seconda, la quale però è stata anche, neanche troppo paradossalmente, una forma di risoluzione della prima. Sto parlando della libertà. I conduttori del progetto – “sconosciuti” (Elena) ma “accoglienti” (Simone) e “con una vera e propria preparazione dietro” (Giulia) – hanno dedicato estrema cura a coinvolgere gli studenti e le studentesse (Federica: “dicendo addirittura il nostro nome”) in una discussione libera, senza giudizi (Giulio: “non vi sono risposte errate ma solo una moltitudine di punti di vista differenti”), e apparentemente priva di telos, che si è disvelato a poco a poco: “dopo i primi due incontri non avevo per nulla chiara la finalità del progetto, ma grazie al terzo incontro tutto mi è sembrato più chiaro e sono molto curioso e eccitato” (Jacopo). Nel terzo incontro è stata infatti lanciata la proposta: realizzare delle ricerche per poi approdare alla realizzazione di un podcast per webradio.
Certamente non sono mancate voci critiche: “ho capito il fine di questa attività, ma non il senso” (Alice A.). La classe ha amato in particolare la libertà di non parlare: “ho apprezzato quando hanno spiegato che per loro il silenzio di alcuni di noi è considerato come una vera e propria risposta” (Lara).
Queste premesse hanno consentito una discussione che è cresciuta progressivamente, secondo i tempi di ognun_. Un progressivo disvelarsi interno alla persona (Ambra: “le domande che ci proponevano mi facevano pensare e approfondire i miei stessi pensieri”) e interno al gruppo (Alice F.: “fare questa tipologia di laboratorio permette anche a noi ragazzi di conoscerci meglio, di capire i nostri diversi punti di vista”). Quando la parola è ancorata al corpo, e si fa vera, produce un riconoscimento di sé e dell’altro: “ed era come se tutto ad un tratto aprissi gli occhi su qualcosa che sembrava ovvio ma a cui non avevo mai pensato” (Sara).
La ricerca
Nelle settimane successive, la classe ha avuto un mandato improntato alla medesima libertà: organizzarsi autonomamente in piccoli gruppi, per affrontare ricerche estremamente libere in termini di temi, fonti, modalità di lavoro e di esposizione. Il diario di bordo consente di ricostruire le fasi del lavoro. La classe è stata suddivisa in otto gruppi di due-tre persone: di qui anche il numero degli episodi del podcast. Senza entrare nel merito delle scelte contenutistiche di ogni équipe di lavoro, provo a cogliere alcuni tratti comuni.
Interessante la diffusa paura della libertà, così espressa da Elena: “ed è proprio questo che mi spaventa, tutta questa libertà mi angoscia, perché non avendo dei limiti che mi portano verso un’unica strada, io sono completamente persa. All’inizio ero molto contenta di avere tutte queste possibilità, ma ora non ho la minima idea di cosa cercare e soprattutto di come cercare”. Comune è stata l’attenzione alle specificità del medium radiofonico (spesso poco conosciuto), agli intenti comunicativi (informare, ma anche esprimere un punto di vista, e inoltre coinvolgere piacevolmente), e soprattutto alla scelta degli argomenti; su questo punto si sono concentrati gli sforzi di collaborazione per giungere ad accordi sulle scelte e per suddividere i compiti secondo inclinazioni e capacità: “mettere insieme le idee di tutti (…) per dare vita ad un quadro variegato (…) che magari singolarmente non avrebbe potuto essere raggiunto” (Filippo). I temi emersi principalmente sono stati: le violenze di genere e il protagonismo delle donne; la mascolinità tossica; il body shaming; omosessualità e omofobia; le identità transgender; il superamento degli stereotipi di genere; l’interazione tra corpo e spazio pubblico nella ricerca artistica contemporanea.
Ho chiesto loro una riflessione specifica sulle fonti utilizzate. Complice la pandemia, è prevalso incontrastato Internet, e in particolare i social media, ma anche siti di informazione giornalistica. Presenti talvolta libri e riviste. Frequente il ricorso a canzoni (persino, a opera di Riccardo, un riarrangiamento), film, serie tv, video, pubblicità, opere d’arte. In alcuni casi anche la famiglia è stata considerata una fonte; in altri, si è giunti a intervistare persone lontane e sconosciute, famose e non. Sulla navigazione web emergono sporadicamente valutazioni in merito all’attendibilità delle risorse (ad esempio Filippo, Federica e Davide parlano di “fonti non particolarmente accreditate e non troppo specifiche”).
Il secondo modulo ha ospitato le presentazioni delle ricerche dei gruppi alla classe. E si è verificato un gioco di sguardi tra pari: “sono rimasta meravigliata (…) sono nate idee stravaganti” (Erika); “siamo riusciti, inconsapevolmente, a trattare di temi sì legati fra loro ma del tutto diversi” (Ginevra); “ogni idea portata era originale, ogni gruppo ha inserito il suo stile” (Ambra). Un aspetto che ha qualificato questo momento è stata la danza dialogica dell’espressione e dell’ascolto: “sono intervenuta di più (…) esprimendo le mie opinioni e i miei pareri riguardo i progetti dei miei compagni, e mi sono sentita molto coinvolta” (Sara); ”sentire il pensiero dei miei compagni riguardo il lavoro compiuto (…) è stato molto soddisfacente (Beatrice); “sono rimasto appagato dallo sforzo di qualche compagno o compagna che ha sempre avuto difficoltà ad esporsi completamente, mentre qui ha trovato, magari colto dall’opinione personale sul tema, l’occasione per uscire dalla propria bolla” (Davide). Sapiente la regia delle guide: “Giulia, Salvo e Viviana non hanno ritenuto giusto o sbagliato il materiale di nessuno” (Sara); “le esperienze personali dei coordinatori hanno dato una marcia in più alle discussioni” (Federica).
In onda
Dopo aggiustamenti di vario tipo, nelle settimane successive i gruppi si sono avviati nella vera e propria costruzione – direi artistica, nel senso di poetica e tecnica insieme – delle loro puntate. Nel terzo modulo è avvenuta la registrazione vera e propria, anch’essa via Zoom (dato che pur essendo rientrati a scuola in presenza, le “attività extracurricolari” dovevano proseguire online): “ero molto dubbioso sulla registrazione “a distanza” e mi sarei arrabbiato se questa cosa avesse rovinato il prodotto finale perché in questi mesi tutti ci siamo impegnati per la realizzazione di questo progetto” (Simone).
Il diario di bordo dà conto delle evoluzioni di questo processo: in alcuni casi, si è dovuto sfrondare e restringere; in altri ampliare il discorso dando “più spazio ai nostri pensieri e pareri” (Ambra Cavalluzzo, Irene Greco e Riccardo Rossetto); talvolta si è dovuto ovviare a problemi legati ai diritti d’autore, o alla mancata risposta da parte di potenziali intervistati. Un lavoro in cui la variabile tempo è stata cruciale, come testimoniato da Giulia, Elena e Ginevra: “le domande (…) ci hanno occupato un po’ di tempo, in quanto non siamo riuscite subito a formulare delle domande che ci andassero bene; alla fine però abbiamo scritto cinque domande, le quali sono state poi poste a ciascuno dei nostri nonni e ognuna di noi ha registrato la risposta. Abbiamo poi confrontato i vari pezzi e li abbiamo montati assieme. Per tagliare, modificare i file audio, ci abbiamo messo un po’, poiché non siamo riuscite subito a fare un lavoro preciso e curato, riguardo al taglio di ogni singolo audio”. Anche se sovente il lavoro è proseguito senza intoppi, talvolta ci sono state delle difficoltà, come raccontato da Alice F., Sara e Giulio: “sono sorti alcuni dubbi che ci hanno portato ad un iniziale cambiamento nella struttura, che non ci convinceva più. Giulio, infatti, reputava questa base “troppo piatta e povera di argomentazioni”, nonostante Sara ritenesse comunque funzionale anche solo far sentire le nostre opinioni (…).
Durante le registrazioni, però, il nostro progetto finale è ulteriormente cambiato, questa volta non a causa di pareri contrastanti ma a causa di problemi più tecnici, come ad esempio la durata di ogni podcast”. Insomma, un gran lavoro di labor limae. “Ed è proprio nel momento finale”, dice Filippo, “quando Salvo legge ad alta voce i nomi dei nostri podcast uno dopo l’altro, che avverto un senso di pienezza”.
E alla fine il podcast è pronto per andare in onda. Il 21 maggio, Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo, dal teatro della Lavanderia a Vapore si è propagato un ascolto pubblico, in presenza per un ristretto uditorio, e a distanza attraverso le frequenze digitali di Radio Banda Larga (QUI un video racconto dell’evento, e QUI qualche altra mia considerazione). La classe, anche in questa occasione, non c’era, ma ha seguito e partecipato da scuola. L_ abbiamo vist_ su un grande schermo nelle caselle di Zoom, ognun_ al suo banco, con la mascherina. Nessun lieto fine, ma una testimonianza ulteriore del tempo purgatoriale in cui è stata condotta questa indagine sul corpo.
Un’educazione all’opaco
Le ultime pagine del diario sono dedicate alle emozioni provate durante il percorso. Ho chiesto, e ottenuto, sincerità: il che mi impone una cura speciale per queste parole. Ad esse viene riconosciuto un territorio: “hanno pervaso il mio corpo”, dice Emanuele.
E mi sembra di poter intravedere, in molte scritture, un percorso che si snoda tra “due momenti chiave: uno di incertezza e paura, l’altro di grande energia e creatività” (Federica). All’inizio una “mancanza di prevedibilità: questa natura imprecisa unita a uno stato di dubbio che genera insicurezze, ma contemporaneamente crea un’immensa curiosità” (Erika), di cui Elena sottolinea l’aspetto di “ansia e agitazione”, mentre Ginevra riferisce di un iniziale “fastidio”; Giulia parla di un senso di “attesa”, quasi di suspense, che l’ha accompagnata in tutte le fasi del progetto. Giulio delinea un tracciato che va dalla “sorpresa” alla “confusione”, che Alice A. definisce come la “sensazione di continuare ad allungarsi verso un qualcosa senza riuscire ad afferrarlo”, al contempo “snervante” e “stimolante”, fino al giorno in cui “abbiamo trovato la nostra strada”. È un colpo di scena: “le nuvole che si spostano, passando da un cielo grigio e tempestoso a uno più limpido e azzurro” (Lara). Dice Ambra: “non appena ho iniziato a vedere i miei materiali prendere forma, ho iniziato ad essere fiera di me”. Giulio prosegue in un percorso fatto di “divertimento”, “interessamento”, “soddisfazione”, “orgoglio”.
Certo non mancano le “delusioni” per gli inciampi (Jacopo) e gli stati di abbattimento legati soprattutto al contesto pandemico (Federico: “non ero molto in vena di fare qualcosa”). Davide sottolinea il senso di responsabilità, di “serietà”, individuale e collettiva, nello svolgimento del compito. Sara pone l’accento sugli effetti relazionali del progetto, che ha saputo “consolidare l’amicizia che si stava man mano sgretolando nella triste solitudine della clausura”. Alice F. si rivolge direttamente a me: “non credo che lei possa capire il senso di libertà, di sollievo che ho provato”. Conclude Beatrice: “ho considerato questa attività quasi come un’esperienza di vita”; anche se “con il rammarico di non esserci mai potuti incontrare per “mangiare una mela tutti insieme seduti in cerchio”, come ben ricordo che disse Viviana durante il primo incontro!” (Mirko).
Verrebbe da pensare che Prendere corpo, in quanto esperienza integralmente digitale, non abbia titolo di dire qualcosa in merito al corpo, e alla sua relazione con l’ambito educativo.
Nei loro interventi finali, Giulia Grechi ha parlato di “una camminata in cui ci siamo persi”; Viviana Gravano dell’esigenza di “liberare la parola” di studenti e studentesse, e dar loro “licenza poetica”; e Salvo Lombardo di “reciprocità” e “desiderio di porci delle domande insieme”.
Ecco, a me, alla fine di questo percorso, sembra di intravedere questo: che qui vi sia stata una strategia di educazione all’opacità (di contro alla trasparenza di cui sopra). Un invito a oltrepassare una soglia e a perdersi. Affinché lì, nell’incertezza, si potessero riattivare i sensi. Decidere quali stimoli fossero significativi, e in che direzione provare a muoversi. In questo senso, anche se non siamo stat_ in uno spazio pubblico, e non abbiamo danzato, il nostro corpo, nei suoi aspetti sensori e motori, si è attivato. Lo abbiamo preso. E non individualmente, ma collettivamente. Proprio grazie alla relazione, a quella tensione dialogica che sfondava la parete dello schermo. E questo è stato vero per tutt_ – studenti, studentesse, guide, insegnante. Tutt_ siamo entrat_ in questa opacità: nessuno conosceva la strada. Che poi non era una e convergente, ma tante, divergenti e ugualmente valide. Di qui la reciprocità tra persone che hanno posizioni, saperi e storie diverse, ma ognuna un’intrinseca validità. Di qui la possibilità di una parola rinnovata e rinnovante; e vera, in quanto radicata nell’esperienza del corpo.
Alessandro Tollari (Torino, 1988) è professore di Lettere presso il Liceo scientifico dell’I.I.S. Amaldi-Sraffa di Orbassano (To). Esperto di linguistica, di pratiche di scrittura e didattica dell’italiano a stranieri, collabora con Loescher editore. Si definisce studioso di arti performative (interesse maturato soprattutto grazie alla Lavanderia a Vapore di Collegno e alla Societas Raffaello Sanzio), con una particolare attenzione alle loro intersezioni con l’ambito educativo-didattico.