«Non appena abbandoniamo l’universale come verità astratta che si auto-avvera, dobbiamo essere coinvolti in situazioni specifiche.
E quindi è necessario ricominciare, e di nuovo, nel mezzo delle cose»
(Tsing, 2005, p. 1-2)
Introduzione. Spettri inquietanti del mondo
Il mondo abitato attualmente sembra essere passato da una realtà unica, data e legittimata da Dio, a uno svolgimento storico infondato e dimenticato da Dio, fatto di narrazioni parallele guidate da una fede nell’evoluzione progressiva, nella realizzazione della lotta di classe o dello spirito e nelle logiche ordinatrici di sistemi, epistemi e miti. Secondo Friedrich Wilhelm Hegel (1977 [1807]), la modernità non è semplicemente un’altra epoca di sviluppo umano, ma il culmine (con la Rivoluzione francese) di una dialettica tra razionalità e libertà. Tuttavia, né la proclamazione del caos meta-narrativo postmoderno e del globalismo transnazionale, né la fine della scienza e dell’autorità colgono lo stato del nostro mondo circa duecento anni dopo. Al contrario, una proliferazione di nuove verità e narrazioni post-veritiere della produzione del mondo si sta diffondendo al di là del centro occidentale; il capitalismo, la democrazia, la tecnologia, l’ethnos, l’indigenità, l’identarismo e il nativismo bianco hanno offerto un’altra cruda ri-essenzializzazione delle narrazioni di formazione culturale antropocentriche.
Una delle narrazioni più pervasive dell’era post-post-moderna (un’era successiva al crollo dei quadri di riferimento pre-moderni e alla proliferazione dei relativismi) è stata quella di un quadro di riferimento antropocentrico, incorporato in un’ecologia che nutre e serve l’anthropos: genetica, ecologia, modellazione planetaria (Rabinow, 2003). Questo si è articolato, ad esempio, nelle teorie e negli studi sulla globalizzazione, che hanno cercato di teorizzare una rete omogenea di flussi di esseri umani, dati, immagini, speranze e affetti che abbracciano, modellano e quindi creano un’immagine del «globo» come entità, quasi come l’immagine di un corpo umano con le sue arterie esposte. L’Antropocene ha dato a tutto questo un altro nome, forse meno ottimista, che si concentra sul segno che l’esistenza umana moderna e industriale ha lasciato sul «nostro pianeta» (Majaca 2024). Il pianeta, soprattutto nel periodo in cui è stato abitato dall’uomo, emerge quindi come quadro di riferimento e di comprensione, anche se il «marchio» distruttivo e tossico si estende probabilmente oltre la stratosfera, nella quale la maggior parte della nostra spazzatura cosmologica brucia, creata da uomini narcisisti megalomani che non considerano la Terra come la sfera abitabile definitiva per l’umanità.
La storica dell’arte Maria Stavrinaki (2019; 2024) ci ricorda che la possibilità di una distruzione totale (nucleare) della nostra specie e del suo mondo, l’apocalisse causata dall’uomo, è servita alla modernità come un modo piuttosto deprimente di riconoscere il tempo specificamente «umano» sul pianeta Terra, rendendolo pensabile nella sua forma finita e olistica. Per l’avanguardia degli anni ’30 e poi degli anni ’60, la preistoria, un tempo precedente agli esseri umani, divenne un termine di paragone per la fine del nostro tempo sulla Terra.
Nel campo delle scienze umane e sociali, in particolare della musica, della letteratura e delle arti da un lato, e dell’antropologia dall’altro, l’idea di «mondo» ha dato origine a un’immaginazione altrettanto complessa: una ricerca dell’unità nella diversità, un quadro di riferimento per il pensiero, una decanonizzazione dell’universalità occidentale (Messling, 2023). La letteratura, la musica e l’arte mondiale si sono confrontate con la speranza di una diversità afferrabile che, a differenza della globalizzazione, mantiene la propria differenza e rimane in parte intraducibile (Ette, 2021, Cassin, 2014). Per gli antropologi, il «mondo» è diventato un modo per riunire nuovi approcci negli studi sulle ontologie indigene e transumane, offrendo una contro-narrazione a un modo appropriativo di concepire il mondo. In questo modo di pensare, i mondi reali vengono creati alle frontiere dei nostri concetti, dove il «nostro» modo di pensare, la concezione razionale e naturalista occidentale del mondo, non funziona più (Danowski e Viveiros de Castro, 2016). In ogni caso, lo spettro del mondo rimane un problema di scala.
Universalismo e situazionismo
In questo articolo, mi propongo di riflettere sulla nozione di mondo come spettro, inteso sia come forza spaventosa sia come orizzonte di immaginazione piena di speranza. In particolare, mi concentro sul modo in cui un tipo di museo, che chiamo «museo del mondo», viene mobilitato e concettualizzato come contenitore e custode del mondo. Esamino anche i modi in cui questo tipo di museo è stato creato nell’Europa moderna con la funzione di catturare, afferrare, conservare e mettere in mostra un’idea astratta del «mondo là fuori», che è marcatamente diversa da «noi», le spettatrici e gli spettatori di questi musei. Questo tipo di spettro museale è definibile come revenant: come non-morto, come uno zombie, che (seguendo il doppio senso derridiano di ritorno), ritorna dal passato al presente, come il concetto di difficult heritage definito di Sharon Macdonald (2009) o ancora di più, come le voci silenziose delle «collezioni sensibili» concettualizzato da Britta Lange (2011, 2019). Questo spettro del mondo si copre con il suo lenzuolo bianco; è una trappola, una violenza, un’intimidazione. Cerca di instillare la stessa ansia in tutti noi, incute paura e impone la sottomissione. Dà all’egemonia dell’universalismo mondano la sua forma spettrale.
Ma lo spettro del mondo non è solo quello che incute paura; ispirandomi alla hauntologia di Jacques Derrida [1] (giocando sulla vicinanza nella pronuncia francese delle parole ontologia e haunting), cerco di individuare uno spettro parallelo: quello di un mondo che deve ancora venire. Un orizzonte che non si è ancora chiaramente palesato e che può fornire una forma immaginativa e speculativa per relazionarsi con il mondo a partire dall’esperienza situata, dal concreto, dal particolare e dal minore (Deleuze e Guattari 1986 [1975]; Messling e Tinius, 2023). Questo spettro del mondo è benigno, è un orizzonte dell’immaginazione che accende la nostra fantasia e ci unisce nella nostra paura ed eccitazione comune. È qualcosa che sta emergendo, non è vecchio, non è chiaro quale forma abbia. Lo chiamo situazionismo mondano.
Questi spettri – l’universalismo mondano e il situazionismo mondano – articolano due approcci diversi al «mondo» che abitiamo e alle sue costruzioni immaginarie; sono prefigurazioni mondane che si ritrovano in modo diverso nell’antropologia e nel museo del mondo. Entrambi gli spettri sono difficili da afferrare, ed entrambi coesistono. Uno spettro è quello di un mondo che deve ancora venire; l’altro è quello di un mondo che è giunto alla fine. Questa è la «profonda ironia» identificata da Anna Tsing (2005, p. 9): questi due spettri del mondo, sono «implicati sia negli schemi imperiali per controllare il mondo che nella mobilitazione liberatoria per la giustizia e l’emancipazione» (2005, p. 9).
Una antropologia spettropolitica
La mia «spettropolitica» antropologica si basa su Spectres of Marx. The State of the Debt, the Work of Mourning and the New International (1994 [1993]) di Jacques Derrida, un testo che presenta due discorsi offerti in apertura della conferenza Whither Marxism? Global Crises in International Perspective. La conferenza, tenutasi il 22 aprile 1993 presso il Center for Ideas and Society della University of California, Riverside, era organizzata da Bernd Magnus e Stephen Cullenberg, che hanno curato un volume di accompagnamento alla pubblicazione separata di Derrida. Entrambi i volumi «affrontano le questioni relative alla connessione tra la morte del comunismo e il destino del marxismo» (Magnus e Cullenberg, 1994 [1993], p. xi). Spectres of Marx affronta la questione di come «gli intellettuali della tradizione marxista rispondono, teoricamente e politicamente, alle trasformazioni globali» avvenute dopo il 1989 (Magnus e Cullenberg, 1994 [1993], p. ix). Derrida ha affrontato questa fase emergente come «l’ignoto di ciò che deve rimanere a venire» (Magnus e Cullenberg, 1994 [1993], p. xvii). Questa frase si ricollega alle mie preoccupazioni per lo spettro del mondo, inteso come possibilità di guardare indietro, ma preoccupandosi del futuro.
L’indagine di Derrida è inquadrata come una risposta al desiderio di «imparare a vivere finalmente» (1994 [1993], p. xvi), cosa che, per lui, può avvenire solo «tra la vita e la morte» e non solo in una delle due (1994 [1993], p. xvii). «Imparare a vivere», per Derrida, significa «imparare a vivere con i fantasmi, nell’intrattenimento, la compagnia o il consociativismo, nel commercio senza commercio dei fantasmi» (1994 [1993], p. xvii-xviii). Questo avanzare in compagnia dei fantasmi, questo «essere-con gli spettri», sarebbe anche, secondo Derrida, una politica della memoria, dell’eredità e delle generazioni a venire, e quindi qualcosa «in nome della giustizia» (1994 [1993], p. xviii).
Non sorprende che lo studio dei musei antropologici e della difficile eredità coloniale affronti, come una hauntologia etnografica (una spettrografia), gli spettri e i fantasmi. Si va da Les Statues Meurent Aussi (1953, commissionato da Présence Africaine) di Chris Marker e Alain Resnais alla preoccupazione di Ciraj Rassool per la ri-umanizzazione dei resti umani saccheggiati e rinchiusi nei magazzini dei musei occidentali (2015). Gli studi sulle pratiche del patrimonio e i musei delle collezioni etnografiche hanno a che fare con tracce, zombie e spiriti, dal momento che si occupano di resti umani, sia materiali che antropologici (Bach, 2017; Tinius e Zinnenburg, 2020; Oswald, 2022). In antropologia, gli effetti della teoria degli affetti e una generale preoccupazione per l’immateriale, per la more-than-human agency – dallo sciamanesimo agli oggetti come soggetti – hanno creato un interesse per quella che Justin Armstrong ha definito una «etnografia spettrale», che «vede oltre i confini della lingua effettivamente parlata e del contatto umano diretto, fino all’interazione tra spazio, luogo, oggetti e temporalità» (2010). Secondo Derrida, la logica di una hauntologie «non solo sarebbe più grande e più potente di un’ontologia o di un pensiero dell’essere» (1994 [1993], p. 10). Il «lutto», per Derrida, finisce invece per cercare di «identificare le spoglie e localizzare i morti» (1994 [1993], p. 9). In effetti, come afferma lo stesso Derrida, «l’effetto di spettralità» (1994 [1993], p. 48) denota il disfacimento dell’opposizione, «anzi questa dialettica» tra il presente e il passato e il presente e il futuro. In un secondo momento, in Spectres of Marx, Derrida approfondisce questa differenziazione sulla sua concezione di spettri come «la persistenza di un presente passato» e la comprensione di Marx degli spettri del comunismo, che annunciano e chiamano un presente «a venire» (1994 [1993], p. 126). Questa separazione dei fantasmi buoni da quelli cattivi, in altre parole, è ciò che Derrida chiama una «spectropolitics» (1994 [1993], p. 133). Questa spettropolitica sconvolge le temporalità, come notano Peter Buse e Andrew Scott, poiché «i fantasmi arrivano dal passato e appaiono nel presente» (1999, p. 11). Si potrebbe anche dire che i fantasmi prefigurano, anticipano e quindi forniscono una visione (un’apparenza) di un possibile futuro (buono o cattivo).
Oggetti-Soggetti
Nel suo saggio Those Who Are Dead Are Not Ever Gone: On the Maintenance of Supremacy, the Ethnological Museum and the Intricacies of the Humboldt Forum, il curatore Bonaventure Soh Bejeng Ndikung sostiene che «l’oggettivazione di […] esseri rituali e spirituali, portatori storici, entità culturali, orientamenti ed essenze è in linea con la de-umanizzazione e l’oggettivazione degli esseri umani provenienti dal non-Occidente» (2018, p. 20). Il suo parallelo tra i «cosiddetti oggetti», che sono stati «detenuti da quando sono stati portati via dalle loro società come prigionieri», e gli «umani come schiavi» mira a una «profonda riconfigurazione di ciò che significa essere umano» (Ivi) e, a sua volta, di ciò che significa essere un oggetto. A suo dire, il museo universale del mondo occidentale avrebbe elaborato tre concezioni (errate) in merito ai «cosiddetti oggetti». In primo luogo, alcuni oggetti «sono effettivamente gli antenati per alcuni di noi» (Ivi, p. 21), piuttosto che oggetti senza spirito; in secondo luogo, «alcuni di loro sono effettivamente entità rituali che possiedono anch’esse una soggettività», che «hanno sentimenti e desideri. Hanno fame e sete», e come tali «contengono la possibilità di guarire, mediando tra gli uomini e gli dei», (Ivi); in terzo e ultimo luogo, alcuni di loro «sono stati creati o sono emersi all’interno di tradizioni o concezioni dell’arte che si trovano a una distanza abissale dalle tradizioni artistiche occidentali» (Ivi, p. 22).
Questa terza categoria di oggetti sono spettri di altri mondi, che infestano molte collezioni, ma non vengono mai rivelati in modo realistico, a meno che non sia possibile una comprensione contestualizzata di questi mondi, attraverso una conoscenza situata di questi oggetti, mondi, cosmologie e ontologie. In altre parole, la «riumanizzazione» o «risocializzazione» (Rassool, 2015; Sarr e Savoy, 2018) di oggetti e resti umani disumanizzati e, quindi, desocializzati non è una questione tecnocratica, ma una questione di conoscenza situata (Haraway, 1988). Per questi motivi, Ndikung ci invita a considerare «il corpo come museo primario» e parla quindi di un «museo del corpo» (2018, p. 49). I corpi e le loro relazioni con gli «oggetti» sono archivi di informazioni e movimenti, conoscenze ed esperienze situate e idiosincratiche, non generalizzabili e non collegate alle esperienze condivise da altri esseri umani. Ndikung propone che l’edificio museale, l’istituzione – «che tende a essere questo spazio in cui si conservano gli ‘oggetti’, lo ‘spazio in cui si conservano le conoscenze’» – sia il «museo secondario» che i corpi incontrano (2018, p. 49). In altre parole, suggerisce di considerare l’archivio situato, incorporato e sedimentato delle esperienze dei corpi in relazione alla forma istituzionalizzata del museo secondario. Non chiede una rinnovata fenomenologia dell’esperienza museale, ma fa un appello all’esperienza concreta e situata come punto di partenza per pensare al significato del mondo nei musei mondiali. Questo, sostiene, consentirebbe persino al museo di essere «scaricato e liberato dal peso della sua normatività […] e liberato dall’onere di cercare di raccontare una singola narrazione o una storia lineare» (Ndikung, 2018, p. 49).
Per una curatela minore
La distinzione tra il museo secondario (l’istituzione che custodisce il mondo) e il museo primario del corpo (il luogo da cui si costruisce il mondo) ci riporta con nuovi occhi alla differenza cruciale tra universalismo mondano e situazionismo mondano. Il primo è un approccio che spinge il museo del mondo a conservare e immagazzinare «cose» e «conoscenze» dal mondo esterno per conoscerle, in una pulsione che porta Ndikung ad affermare come «l’istituzione del museo etnologico o museo del mondo sembra essere nel mezzo di una grave crisi di soffocamento» (2018, p. 3). L’altro approccio riguarda l’introspezione situata: come un momento concreto, un’esperienza, una pratica, possano condurre a una comprensione del mondo che non è reificata, ma può agire come una forma di punto di riferimento universale minore. In altre parole, discuterò le interazioni di due tipi di produzione ed esperienza del mondo che aiuteranno a collocare la storia del museo del mondo e a spiegare i tipi di attrito al centro della mia ricerca. Questi due approcci al concetto e alla cura del mondo, worldly universalism e worldly situationism, corrispondono a due diverse forme di pratiche curatoriali, di cui mi occupo: la «curatela maggiore» e la «curatela minore». L’universalismo mondano (worldly universalism) segue un principio di interiorità, di consumo in nome di un ritorno al centro. Cancella il suo contesto come punto di vista non marcato. Si tratta di una narrazione importante che aspira a un olismo ispirato dalla sete moderna di «collezionare il mondo» (Penny, 2021), spinta dal desiderio di conoscere il mondo; un desiderio di poter rappresentare, contenere la totalità del mondo in un’unica istituzione, anche se in modo selettivo o attraverso oggetti rappresentativi scelti (Clifford 1986). Torno qui alla metafora di Ndikung della «tosse causata dal soffocamento del museo etnologico/museo mondiale/museo universale», che «sta diventando forte e rumorosa» (2018, p. 4).
Il worldly situationism, al contrario, segue un principio di uscita, apoptosi e apprendimento. Si tratta di una narrazione minore che si sforza di essere deferente, consapevole dell’irreparabilità di certe ferite e della non (ri)pagabilità di certi debiti, e che lascia solo un riconoscimento simbolico (Tinius e Pesarini 2023). Si basa sul punto di vista marcato del contesto da cui parla, l’esperienza concreta, e cerca di costruire, partendo dalla consapevolezza della ferita, una comunanza sfregiata, una giustizia post-traumatica senza riparazione, un’esperienza condivisa del mondo attraverso uno sguardo umiliato. La sua idea di mondo è quella di un orizzonte di possibilità pieno di speranza, consapevole delle ferite lasciate dagli eccessi ingerenti dell’universalismo occidentale.
In primo luogo, questo articolo non si propone di tracciare una genealogia, ma piuttosto un modo di delineare i movimenti, un’euristica, piuttosto che un tracciato enciclopedico. Si tratta di proposte concettuali, un kit di strumenti concettuali.
Pensare il mondo
Il mondo è una categoria preoccupante nel cuore della ricerca antropologica ed è uno dei problemi principali nell’analisi dei musei e delle pratiche curatoriali contemporanee. La categoria del mondo si differenzia significativamente dalla traiettoria concettuale di globale, terrestre e planetario: Questo per una serie di ragioni, tra cui principalmente l’osservazione etnografica che si tratta della categoria centrale attorno alla quale musei, curatori e antropologi raccolgono, espongono e concettualizzano i loro «oggetti». A differenza di globale, terrestre o planetario, che evidenziano il capitalismo, il colonialismo, l’estrattivismo e l’ecopolitica come denominatore comune per un orizzonte di pensiero condiviso (e introducono un postumanesimo non privo di problemi nel pensare all’unità), mondo (world) e worlding sono concetti che pongono al centro le domande filosofiche, ontologiche, epistemologiche e antropologiche: cosa esiste che ci permette di pensare a noi stessi come un ‘noi’ condiviso? (Mbembe 2019) Si tratta di un concetto significativo che pone, innanzitutto, una questione di scala a cui ho già accennato nei paragrafi iniziali. Questa è la problematica centrale attraverso la quale affronto la questione del mondo, come un prisma per pensare a come il mondo può essere ingerito, rivendicato, rappresentato da un lato (universalismo mondano) o risituato, pensato, proiettato dall’altro lato (situazionismo mondano).
Inizio questa sezione con una presa di posizione critica che precede la mobilitazione ottimistica del worlding come presa di coscienza del pensiero e della pratica indigeni, attraverso la svolta ontologica dell’antropologia sociale e culturale. Secondo Gayatri Chakravorty Spivak (1985, p. 247), il worlding descrive la pratica coloniale di trasformare «lo spazio colonizzato» in uno spazio per l’auto-colonizzazione del ‘nativo’ attraverso atti di mappatura, cartografia, descrizione, registrazione, attraversamento e archiviazione. Apre il suo articolo The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives (1985) con una riflessione sul modo in cui «l’Europa si era consolidata come soggetto sovrano definendo le sue colonie come ‘altri’, anche se le costituiva, ai fini dell’amministrazione e dell’espansione dei mercati, in quasi-immagini programmate di quello stesso sé sovrano» (1985, p. 247).
Secondo Spivak, gli «agenti di questa trasformazione cartografica», ossia coloro che creano la finzione del territorio di origine del nativo come appartenente al suo padrone, «non sono solo i grandi nomi […] ma anche le piccole persone senza importanza» (Spivak, 1985, p. 253f.). È proprio «l’assunzione necessaria ma contraddittoria di una terra non iscritta, che è la condizione di possibilità della mondanizzazione di un mondo, che genera la forza di far sì che il ‘nativo’ si veda come ‘altro’» (Ivi, p. 254).
Il libro di Edward Said The World, the Text, and the Critic (1983) fornisce un altro sfondo cruciale per la mia riconsiderazione critica della riproduzione problematica del concetto di mondo nel discorso antropologico. Said contestualizza le produzioni narrative che possiamo chiamare «testi» all’inizio del suo primo saggio nel particolare della storia e della vita del mondo stesso, sostenendo che «i testi sono mondani, in qualche misura sono eventi e, anche quando sembrano negarlo, sono comunque parte del mondo sociale, della vita umana e, naturalmente, dei momenti storici in cui sono situati e interpretati» (1983, p. 4).
Secondo Said, la coscienza critica (e ciò che è alla base della critica) è «una parte del mondo sociale effettivo e del corpo letterale che la coscienza abita, non in alcun modo una fuga dall’uno o dall’altro» (Said, 1983, p. 16). È quindi parte integrante del worlding che le interazioni discorsive (testi, canoni, curricula, letteratura) mettono in atto. Il lavoro del critico, per Said, consiste nel riconoscere che le forme letterarie e altre forme di enunciati, narrazioni, testi non rappresentano solo ciò che viene descritto, ma che «per ogni poesia o romanzo nel canone c’è un fatto sociale» (Ivi, p. 23).
Per Said, quindi, «la critica, in breve, è sempre situata» (Ivi, p. 26). È a partire da questa comprensione della mondanità e del mondo che sviluppo la mia concezione di una pratica curatoriale minore come una forma di «situazionismo mondano», in opposizione all’«universalismo mondano» del museo, che astrae e universalizza da una prospettiva singolare. Ciò che Said descrive come «il modo in cui la vicinanza del corpo del mondo al corpo del testo costringe i lettori a prendere in considerazione entrambi» (1983, p. 39) è simile al modo in cui Ndikung (2018) descrive l’incontro del corpo come museo o archivio primario con il museo o la collezione come istituzione e archivio o museo secondario.
Conclusione. Musei del mondo
La storia del museo moderno europeo è stata quella di appropriarsi del mondo e di renderlo visibile e conoscibile. La sua logica e le sue pratiche sono quelle dell’appropriazione e della rappresentazione, della geografizzazione olistica (una regione rappresenta il tutto) e del tokenismo (un’entità rappresenta l’altra). Il termine museo universale del mondo è utilizzato in modo euristico per descrivere le istituzioni sorte da questo principio di un universalismo mondano. La nozione di mondo è uno spettro – un tempo era un obiettivo ricercato e desiderato dai musei: la costruzione di una comprensione di un pianeta condiviso. Tuttavia, questo spettro era costruito sull’instabile progetto epistemologico e, congiuntamente, coloniale di un olismo etnografico che, per quanto liberale, presumeva di poter raccogliere, classificare, conoscere e poi mostrare per educare il mondo intero, se solo avesse raccolto abbastanza. Non sorprende, quindi, che le collezioni etnografiche abbiano preceduto la disciplina antropologica, che si è formata sulle sue spalle (Appadurai, 2020). Infatti, più che essere complice della creazione dell’antropologia moderna, Sharon Macdonald sostiene addirittura che: «Ci sono buone ragioni per ritenere che il museo abbia svolto un ruolo chiave nell’affermazione della strana ontologia illuminista moderna. Istituzione suprema per ‘fare ordine’, il museo non solo ha diviso il mondo in natura e cultura (suddividendo alcuni tipi di cose in musei della natura, altre in musei della cultura), ma ha anche, probabilmente, contribuito a solidificare la divisione tra umano e non umano e ha reso gli oggetti immobili e passivi» (2020, p. 184).
Tra le pratiche di cambiamento più interessanti che si sono verificate negli ultimi tempi, vi sono dei tentativi di ri-mondializzare i musei del mondo, pensandoli non più come case di questi mondi, ma come luoghi che permettono a queste case di essere abitate di nuovo, per rendere possibili usi diversi. Una serie di tentativi curatoriali e museali ha cercato di mettere in atto questo re-worlding, includendo la voce o la partecipazione di comunità indigene, democratizzando l’accesso e invitando la partecipazione di un pubblico non specializzato o addirittura consegnando il museo al suo contesto urbano e di quartiere. Questi tentativi hanno messo in questione la provenienza delle collezioni e trasformato il museo in un sito di ricerca, provincializzandolo (Deliss, 2020; Heller, 2015). Il problema principale di questi lodevoli tentativi è che rimangono rappresentativi e privi di conseguenze epistemologiche e politiche: l’infrastruttura, il personale, la formazione dei curatori, dei direttori e del personale amministrativo non sono mirati, e quindi l’approccio «tick-box» criticato da Ndikung (2017) rimane il modus operandi; una creazione seriale di mostre, programmi, eventi e performance che non hanno conseguenze.
Attualmente il museo del mondo si sta dirigendo in due direzioni che non sono promettenti: si sta muovendo verso una rinnovata ri-nazionalizzazione identitaria; oppure sta cercando di relativizzare completamente le sue pretese di conoscenza. Entrambe le opzioni sono problematiche e non rappresentano la soluzione alla questione del museo post-universale. Non è ancora chiaro se un vero museo post-post-universale (un museo minore?) sarà in grado di emergere, ma, perché ciò accada, sarà necessario concepire e mettere in atto una pratica curatoriale e antropologica situata.
Nota
[1] Nel presente testo le traduzioni delle citazioni di Derrida sono dell’autore, con l’eccezione di Spettri di Marx.
[2] Crediti dell’immagine in copertina: Roberta Baldaro GARBINO #9 | 2013, fotografia analogica b/n, stampa digitale su carta, disegno a matita, 9 fotodisegni, cm 41×27 (collezione privata). Courtesy l’artista
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Tinius J. & Pesarini A., La (ir)reparabilità comincia nel/dal corpo: Per un museo del disfacimento, in A. Serlenga (ed.), Performance + Decolonialità, Luca Sossella Editore, Venezia 2023, pp. 65–81.
Tinius J. & von Zinnenburg Carroll K., Phantom Palaces: Prussian Centralities and Humboldtian Horizontalities, in J. Bach & M. Murawski (eds.), Re-Centring the City: Global Mutations of Socialist Modernity, UCL Press, London 2020, pp. 90–103.
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Jonas Tinius è antropologo socio-culturale e attualmente coordinatore scientifico del progetto ERC Minor Universality. Narrative World Productions After Western Universalism (Saarland University). È stato ricercatore ospite presso il Department of World Arts and Culture/Dance dell’University of California, Los Angeles (UCLA) e ricercatore post-doc presso il Centro di Ricerca Antropologica sui Musei e il Patrimonio del Institute for European Ethnology della Humboldt-Universität zu Berlin, dove attualmente insegna e sta completando il manoscritto di un libro intitolato Beyond the Universal Machine. Art and Anthropology After the Museum of World (de Gruyter). Ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia sociale presso l’Università di Cambridge (2016). Tra le sue pubblicazioni: The Trouble with Art. An Anthropology Beyond Philistinism (con Roger Sansi, Routledge, 2024), Universalism & … Conversations (con il progetto Minor Universality, de Gruyter, 2024), State of the Arts. An Ethnography of German Theatre and Migration (Cambridge University Press, 2023), Minor Universality. Rethinking Humanity After Western Universalism (con Markus Messling, de Gruyter, 2023) Awkward Archives. Ethnographic Drafts for a Modular Curriculum (con Margareta von Oswald, Archive Books, 2022), Across Anthropology. Troubling Colonial Legacies, Museums, and the Curatorial (con Margareta von Oswald, Leuven University Press, 2020), Der fremde Blick. Roberto Ciulli und das Theater an der Ruhr (con Alexander Wewerka, Alexander Verlag, 2020), e Otherwise. Rethinking Museums and Heritage (Berlino, 2018).