Quando l’8 settembre 1943 venne annunciata la stipula dell’armistizio di Cassibile, con il quale l’Italia firmò la resa incondizionata, pose fine all’alleanza con la Germania nazista ed ebbe inizio la guerra di liberazione italiana, mia nonna Delia Trozzi aveva undici anni e viveva a Pescocostanzo, un piccolo paese situato nel territorio degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. In modo all’epoca del tutto inconsapevole, Delia si trovava a vivere in una delle località che di lì a poco sarebbero state attraversate dalla linea Gustav (Winter Linie), una delle fortificazioni difensive che l’armata tedesca approntò durante la Campagna d’Italia per frenare l’avanzata degli eserciti alleati dal Sud Italia. La linea Gustav tagliava trasversalmente il centro sud della Penisola dal Mar Tirreno al Mar Adriatico, partendo da Gaeta e arrivando a Ortona.
Sebbene per molto tempo la Winter Linie abbia goduto di scarsa considerazione nella ricerca storica, svolse in realtà un ruolo cruciale (Del Biondo, 2017), resistendo ai tentativi di sfondamento alleati fino a metà maggio 1944, e costituì il fronte su cui la guerra entrò in fase di stasi per otto mesi. Se si considera che la Campagna d’Italia durò in totale ventidue mesi, si comprende bene la dimensione devastante che tale lunga fase assunse per gli abitanti delle aree coinvolte (Fimiani e Baris, 2016). Le popolazioni che vivevano nelle zone interessate dalle operazioni militari dispiegatesi lungo la linea Gustav furono sottoposte a una doppia violenza, quella prodotta dai bombardamenti delle forze alleate e al contempo quella delle truppe tedesche, che portavano avanti il «percorso di distruzioni» (Gribaudi, 2005, p. 317) finalizzato a fare terra bruciata e ostacolare l’avanzata degli Alleati.
Oltre a ciò, le zone situate lungo le linee di difesa tedesche o in prossimità di esse furono sottoposte a massivi sgomberi dei civili, allo scopo di eliminare ogni intralcio alle operazioni militari dei tedeschi e per rastrellare forza lavoro da impiegare sul luogo o da inviare in Germania. Le evacuazioni, stabilite in modo unilaterale dalla Wehrmacht, coinvolsero centinaia di migliaia di civili, che furono in parte trasferiti in modo coatto nel Nord Italia, in parte costretti ad allontanarsi e a trovare altre sistemazioni in modo autonomo.
È a questa dispersione forzata di persone che mia nonna si riferisce quando racconta lo sfollamento, che nel suo processo di memorializzazione sembra configurarsi come l’evento più dirompente e profondamente traumatico dei tredici anni da lei vissuti tra regime fascista e guerra. È alle durissime condizioni di privazione vissute da sfollata che mia nonna pensa quando dice “aviscia returna’ ju ‘43” [dovrebbe tornare il 1943], rivolgendosi a chi non finisce di mangiare il cibo che ha nel piatto. Gli abitanti di Pescocostanzo furono costretti a sfollare il 2 novembre 1943. Come ricorda Gaetano Sabatini «Pescocostanzo fu occupata dalle truppe tedesche in ritirata nell’ottobre ’43. Il 2 novembre successivo (la data forse più funesta nella storia del nostro paese) fu intimato, armi spianate, lo “sfollamento” totale. Furono disperse in tutta Italia le nostre famiglie, fu scacciata dalle nostre contrade la vita civile» (Sabatini, 1950, p. 12).
Delia lasciò il paese con un gruppo di cinquantadue persone, composto dalla propria famiglia e dalle famiglie di Zia Rita e Zia Natalina, e iniziò un viaggio a piedi che la portò a Sulmona, passando per Gamberale, Ateleta e Palena. L’inizio dello sfollamento fu caratterizzato dalle razzie operate dai soldati tedeschi, che sottrassero agli abitanti di Pescocostanzo tutto il bestiame e i beni e le provviste che erano riusciti a raccogliere per sostentarsi nei giorni dell’esodo: “Gli animali so’ stati i primi che si so’ pijati, a tutti. A noi papà li era fatti porta’ in montagna in modo che, dice, non li vedono… ma non c’è stato niente da fa’, l’hanno ritrovati anche là e s’hanno pijati tutto. Quando semə [1] sfollati semə caricato il carro di buoi di roba da mangiare, da vestire ma, arrivati e Gamberale, s’hanno pijati i buoi con tutto il carro e tutto quello che ci steva sopra”. Non appena partiti, i fratelli di Delia Cesare, Giovanni e Vittorio vennero catturati per essere impiegati nel lavoro delle trincee: “A casa nostra solo Ferdinando [non hanno preso] perché era piccolo, teneva tredici anni, non gli serviva. Zio Cesare, zio Vittorio e zio Giovanni se li so’ presi, da subito, a Gamberale. Però so’ scappati tutti e tre, ma no tutti e tre insieme, perché l’hanno portati alle trincee e l’hanno messi ddò pareva a loro, non stavano tutti e tre insieme. È ritornato chi prima e chi dopo ma se ne so’ scappati, non è che li hanno lasciati loro”.
Le sottrazioni coatte di beni così come il rastrellamento degli uomini da parte delle truppe tedesche costituiscono due dei quattro tipi di violenze che Gabriella Gribaudi individua nella Campagna d’Italia: saccheggio dei territori, rastrellamento degli uomini, distruzione degli abitati e massacri dei civili (Gribaudi, 2005). Come si vedrà più avanti, gli sfollati di Pescocostanzo vissero almeno tre di queste categorie di azioni violente. Mentre altri gruppi di sfollati da Pescocostanzo si misero in viaggio verso la Puglia, il gruppo di Delia decise di muoversi verso Gamberale perché avrebbe potuto essere ospitato da una conoscenza del padre di Delia. Ma un intreccio di assoluta diffidenza nei confronti dei soldati tedeschi e l’assenza di indicazioni agli sfollati da parte delle autorità su dove fosse più sicuro spostarsi condusse il gruppo in una delle zone in cui la battaglia tra inglesi e tedeschi imperversava in modo più feroce.
Gamberale, come racconta Delia, era occupata dalle truppe tedesche ed era pertanto il bersaglio dei continui cannoneggiamenti da parte dei soldati inglesi, posizionati a Capracotta: “Andando a Gamberale noi semə iti incontro alla guerra. Perché non lo sapevamo. Perché non è come mo’ che la Protezione Civile ti dice che devi fa’, hai visto quando è stato il terremoto? [si riferisce al terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009]… Noi semə iti a Gamberale perché c’era una persona che conosceva papà e mio zio e gli hanno chiesto se ci poteva ospita’ per qualche giorno, e quella poveretta ha detto di sì. Noi semə iti là e semə sbagliato, perché là era ancora più guerra di Pescocostanzo. La maggior parte so’ andati alle Puglie, e so’ stati meglio, noi semə sbagliato però non lo sapevamo, semə andati all’avventura. I genitori mica lo sapevano che se andavamo alle Puglie era meglio. Ci ricordavamo che i tedeschi per mandarci via da Pescocostanzo ci dicevano di attraversare il fiume e andarcene alle Puglie, che ci si so’ morte due persone pure, che l’acqua se l’ha portate. E noi dicemə «no, perché dovemə fa quello che dicono loro? Iemə verso Sulmona che forse stemə meglio». Invece quissi che iannə iti verso le Puglie [invece coloro che sono andati in Puglia], compresa nonna Francesca e Peppino [la futura suocera e il futuro marito di Delia], so’ stati meglio. Invece noi a Sulmona no, non semə stati bene per niente perché non ci ha aiutati nessuno. […] Però come fai a sapere se non c’hai uno di quelli che comandano che ti spiega «avete pija’ questa di strada e no questa» e ognuno è andato all’avventura”.
La permanenza a Gamberale durò pochi giorni: “Poi c’hanno cacciato dalla casa della signora che c’ha ospitati e ce ne semə iti alle masserie. Alle masserie semə stati qualche giorno, iannə arrivati loro [i soldati tedeschi], c’hanno cacciati tutti quanti… a piedi rifai tutta quella strada, prima a Gamberale, poi piano piano semə arrivati alla stazione di Palena, poi via dicendo fino a Sulmona. A dormi’ fuori il mese di dicembre. Di neve per fortuna ce ne steva poca, però faceva fridd’, le persone grandi accendevano i fuochi, però avanti ti bruciavi e dietro ti congelavi”. Da gennaio a maggio il gruppo di sfollati di cui faceva parte mia nonna si stabilì nella frazione di Sulmona Le Marane, ospiti di una conoscente che mise a disposizione una stanza per l’intero gruppo. Sebbene anche Sulmona fosse occupata dalle truppe tedesche, nei ricordi di Delia la (relativa) tranquillità del periodo trascorso a Sulmona in confronto ai giorni precedenti era determinata dal fatto di non trovarsi sotto il fuoco incrociato dei due eserciti.
Nonostante ciò, i mesi a Le Marane vengono ricordati come una fase di enormi privazioni: “Dalle Marane andavamo alla Badia, ci stavano pure le carceri, papà mi si pijava a me che ero la più piccola cuscì la gente aveva pietà e ci deva qualche cosa, ma no gratis, a pagamento! Però non te lo davano nemmeno a pagamento, e nemmeno con me piccola piccola. Vabbè, andemmə a ‘na casa e stavano a mangia’, ancora le tengo innanzi agli occhi quelle fettuccine, le fettuccine col sugo si stavano a mangia’. E papà fece la faccia tosta, disse «Io so’ grosso non me detə niente a me, detemə nu piatto pe’ quella criatura». Però non gliene è fregato proprio niente”. Oltre alla fame, nei racconti di Delia è il senso di paura costante e totalizzante a caratterizzare i ricordi dello sfollamento. Quando le chiedo quale fosse la causa principale della paura, mia nonna risponde senza esitazione “loro”, riferendosi ai soldati tedeschi. La paura nei loro confronti invadeva tanto la vista – “Solo a vederli vestiti c’avevamo il terrore proprio. Quando arrivavano quelli me jiva ficcando sotto la gonna di mamma!” – quanto l’udito – “Ti trattavano male già alla voce come entravano, ‘Rauss, Rauss!’, che forse significa ‘uscire da là’, perché quando dovevi uscire sempre ‘sta parola dicevano” – e alla paura generata dai soldati tedeschi venivano ricondotte situazioni che verosimilmente avevano altre cause: “E poi il fatto che mi uscittero i pidocchi. E il medico, quann’ iemm’ a Sulmona, disse ‘quesse so’ state le paure’”.
Nella narrazione Delia non nomina quasi mai esplicitamente i soldati tedeschi ma li chiama in causa utilizzando le parole “loro”, “quissi” o “quisti”, quasi a voler porre una distanza anche nell’evocazione del loro ricordo. Tale distanza sembra essere determinata da una sorta di de-umanizzazione nei confronti dei soldati tedeschi, che vengono spesso identificati con comportamenti non umani e bestiali: “Se è stata la guerra o se ci so’ proprio di carattere i tedeschi così cattivi questo non lo so. Perché loro facevano proprio i cani, che quando arrivavano io mi infilavo sotto la gonna di mamma, per la paura che tenevo”. Le brutalità dei soldati tedeschi nei confronti dei civili è una delle due categorie di violenza che, secondo Gabriella Gribaudi, caratterizzò l’esperienza delle popolazioni sfollate intorno alla linea Gustav.
Oltre ai rastrellamenti, alle razzie, alla distruzione di interi paesi e ai massacri, tali efferatezze si manifestarono in modo specifico nei confronti delle donne, attraverso gli stupri di guerra. Sebbene nella memoria popolare i soldati tedeschi si caratterizzino per durezza, rigore e inflessibilità e nonostante gran parte degli studi sugli stupri avvenuti durante la Campagna d’Italia si concentrino sulle violenze sessuali operate dalle truppe coloniali del Corpo di Spedizione Francese (le cosiddette “marocchinate”) (Chiurlotto, Chianese, Gribaudi, Baris, Frezza), anche nei luoghi occupati dai soldati tedeschi le donne furono sottoposte a questo ulteriore tipo di violenza: “‘Na volta si presero pure mia sorella Angelina e mamma teneva paura che la violentavano, e invece la lasciarono, perché era piccola pure lei… Bè insomma era un po’ signorinetta… non lo so se avranno avuto pietà o se era l’ordine che tenevano di non tocca’ quelle più piccole. Però la paura ce la semə pijata sia mamma, io non tanto lo capivo ero piccola, e figurati lei. Invece altre due che stavano con lei che erano di Pesco (però noi non avemə mai detto niente), due di Pescocostanzo l’hanno prese e hanno fatto il comodo loro. Una si chiamava Maria [nome di fantasia] e quell’altra non me lo ricordo. C’avevano almeno 4-5 anni più di mia sorella, lei era del ‘27, quelle c’avevano 20 anni”.
La violenza sessuale è indicibile, Delia non nomina mai la parola “stupro” e si riferisce ad esso parlando di “fare il comodo loro”. L’indicibilità dello stupro di guerra è determinata non soltanto dal fatto che esso rappresenta la riduzione dei corpi femminili a oggetti di cui gli uomini possono disporre a proprio piacimento, ma anche dal fatto che esso costituisce sia uno strumento di annientamento del nemico, sia un mezzo di comunicazione tra uomini attraverso il quale si afferma il potere di una fazione sull’altra. Come riportano molti racconti orali di testimoni della Campagna d’Italia, spesso gli uomini – padri, mariti, fratelli – venivano costretti ad assistere agli stupri senza poter intervenire, precisamente perché la violenza sulle donne rappresentava a livello simbolico il modo per privare gli uomini stessi della possibilità di assolvere alla funzione storicamente e socialmente loro attribuita di protettori delle proprie mogli, figlie e sorelle: “E che i genitori hanno potuto reclama’? Ti dovevi sta zitto e basta, che sennò subito pijavano le pistole. E hanno fatto quello che gli pareva, perché si vede che non erano controllati. I genitori erano talmente intimoriti che non parlavano, si stavano zitti, perché dicevano «questi mo’ ci ammazzano a tutti quanti», e dopo si mettevano a piagnerə”.
Lo stupro di guerra, inoltre, si inserisce in un contesto di storica identificazione del corpo femminile con la nazione e di assimilazione della conquista del territorio con l’appropriazione sessuale delle donne. All’interno del sistema patriarcale, la violazione dei corpi delle donne costituisce quindi un esercizio di potere sull’intero territorio e viene percepita come un attacco all’identità stessa di un popolo. È anche come conseguenza di questo processo che lo stupro genera vergogna non solo nelle donne che l’hanno subito, ma in tutta la comunità di appartenenza e il trauma individuale viene assunto come trauma collettivo. Come afferma Gribaudi «L’onore delle donne è un segno distintivo dell’integrità di tutta la famiglia, di tutta la comunità. Attraverso le donne vengono colpiti anche gli uomini che non hanno saputo difenderle» (Gribaudi, 2005, pp. 530-31).
La violenza viene quindi percepita come un evento che ogni vittima deve gestire in modo privato. Quando chiedo a mia nonna perché le fosse stato detto di non raccontare nulla dello stupro delle due ragazze pescolane, alla cui cattura da parte dei soldati tedeschi lei aveva assistito, Delia risponde: “Per loro, perché erano segnate, diciamo. Noi lo sapevamo che l’avevano pijate per forza, ma a iu puaesə magari dicevano «eh, quesse so’ state coi tedeschi», perché ci so’ state quelle che so’ state coi tedeschi. Ma ‘ste poveracce no. Però noi non abbiamo detto niente, perché una era pure fidanzata. E mamma diceva «quella se lo vede essa se glielo vuole di’, se non glielo vuole di’ [al suo fidanzato], noi stemoce zitte». Dopo che hanno fatto il comodo loro l’hanno rilasciate. Poi si so’ sposate, grazie a Dio…..”.
L’umiliazione inferta ai genitori rafforzava l’onta impressa sulle donne che avevano subito la violenza, “segnate”, come dice mia nonna, da una vergogna che innescava un ulteriore processo di colpevolizzazione delle vittime da parte della comunità stessa di appartenenza: «La vittima dello stupro, in questa visuale, finiva per essere l’uomo, privato del suo ruolo protettivo, della sua virilità, verso il quale la donna si era macchiata di una ‘colpa grave’, non essendo riuscita, in un certo senso, a salvaguardarsi» (Baris, 2003, p. 111). L’unico modo per spiegare, o almeno nominare, tali eventi è attribuendo ai soldati tedeschi una connotazione non civile, non-umana e bestiale, sebbene nel racconto di mia nonna il fenomeno degli stupri di guerra sembra conservare nel tempo la connotazione di indicibilità. Nelle due interviste svolte, Delia non ha mai raccontato spontaneamente tali eventi – mentre ha riportato autonomamente alla memoria ricordi di altri tipi di violenza – ma ne ha parlato solo dopo una mia domanda specifica, come se il monito al silenzio dato all’epoca si estendesse anche al presente. Sebbene gli stupri di guerra abbiano assunto una valenza collettiva, proprio perché la violazione dei corpi femminili svolse una potente funzione simbolica e politica, tuttavia l’elaborazione di tale trauma assunse forme prettamente private e individuali. Il silenzio che avvolse il fenomeno degli stupri durante la Campagna d’Italia – in Abruzzo come altrove – comportò una rimozione massiva di tale fenomeno dalla memoria, che non solo invisibilizzò il trauma delle donne ma impedì anche un’elaborazione collettiva e politica di questa specifica forma di violenza (Baris, 2003; Gribaudi, 2005).
Lo sfollamento rese indispensabile l’elaborazione di nuove strategie di sopravvivenza ma anche l’attivazione di micro-pratiche di resistenza. I fratelli più grandi di Delia vennero catturati più di una volta dai soldati tedeschi e mandati a lavorare nelle trincee, ma riuscirono sempre a fuggire e a ricongiungersi con la famiglia. Mia nonna ricorda con particolare precisione una delle volte in cui suo padre vide i figli Cesare e Giovanni comparire dopo un periodo di cattura, vestiti con i giubbotti militari: “Niü stavamo ancora là a Gamberale e stavamo in mezzo alla strada proprio, perché ci erano cacciati dalle case. Ci stava ‘na strada sopra a noi, [i fratelli] jann’ visto ‘na massa di gente e jann’ pensato “po’ esse che so’ loro”. E da là papà me’, appena ha visto quelle due persone alte là sopra, perché loro co’ i pastriani da militari non sei mai sicuro [che fossero loro], e papà disse “a me me sembrano Cesare e Giovanni”. Però come li ha visti salta’ sotto alla strada subito ha dittə a mamma “quiji so’ Cesare e Giovanni”. Mamma, figurati, non ci credeva proprio per quanto era contenta. E erano loro, erano loro due». Nei periodi in cui i fratelli di Delia riuscivano a sfuggire alla cattura dei soldati tedeschi aiutavano il gruppo nella ricerca di cibo, andando a piedi a Pescocostanzo a prendere alcune provviste che, prima di essere espulso dal paese, il padre di mia nonna aveva nascosto in grandi barili che poi aveva sotterrato. Nascondere cibo per sottrarlo alle razzie dei tedeschi, così come, per gli uomini, fuggire alla loro cattura, costituiscono due delle molteplici forme attraverso le quali le popolazioni sottoposte allo sfollamento misero in atto pratiche oppositive che, seppure non inserite (ancora) in una resistenza organizzata, costituirono “comportamenti trasgressivi” (Parisella 1997, p. 80; Baris 2003) dal forte significato politico. Il bestiame costituiva poi uno specifico terreno di contesa, dal momento che rappresentava una delle principali fonti di sostentamento per la comunità pescolana. E se nella maggior parte dei casi furono i pescolani a vedere sottratti i propri animali, si verificarono anche episodi in cui essi si riappropriarono di ciò che gli apparteneva: “E quisti [i soldati tedeschi] tenevano i muli sotto dove abitavamo noi a Sulmona. E loro erano i padroni di tutte le case e erano missi là ‘sti muli, certi bei muli. E papà li era visti un po’ agitati [i soldati tedeschi] e già era dittə ai figli, dice «chissi sicuro o di notte o domani mattina chissi se ne viann’. Prima che loro si portano via [i muli], avetə pija’ i muli e li avetə porta’ a quella montagna che sta a Sulmona [Montagne del Morrone]», e cuscì fecero. Però a di’ la verità mamma lo diceva sempre, «semə stati fortunati che sennò quessi [i soldati tedeschi] li erano accisi proprio [i fratelli di Delia]», non è che se li pijavano e se li portavano, li ammazzavano perché erano fatto ‘na cosa contro di loro. E così fecero, se ne jerənə là [se ne andarono lì], si portarono il mulo e ‘sto mulo fu la salvezza nostra”.
Nel maggio 1944 (stando al racconto di Delia, mentre Sabatini riporta i primi di giugno), con il progressivo spostamento del fronte verso nord, le truppe di occupazione tedesche lasciarono Pescocostanzo, dando la possibilità ai pescolani sfollati di tornare. Al rientro in paese i pescolani trovarono le case distrutte, saccheggiate, private di porte e finestre: «Dopo otto mesi (ai primi di giugno del ‘44) potemmo constatare, riconvenuti affannosamente… dall’esilio, il danno ai concittadini, alle case, alle chiese, ai morti del cimitero! Pescocostanzo ha avuto circa cinquanta case distrutte, quasi duecento scoperchiate o incendiate, tutte saccheggiate… andarono perduti tesori inestimabili d’arte, nelle chiese, nelle case private…» (Sabatini 1950, p. 13).
Mia nonna e la sua famiglia non fecero ritorno nella propria casa in paese – che, come tutte le altre, non era immediatamente abitabile – e si sistemarono nella loro masseria di Mancini, appena fuori Pescocostanzo. Poterono rientrare nella loro abitazione in paese nel novembre dello stesso anno: “Niü semə tornati a maggio a Mancini, al paese semə ritornati proprio quando fece la prima neve, era novembre, perché iu Peschiu stava sfasciato e iu primo anno semə tenute le porte che non è che si chiudevano, poggiate con ‘nu spago attaccato. Maggiormente quella che dava alle scale. E niü stavamo sotto alla cantina. Stavamo là perché stavamo più caldi forse. Io ero piccola non è che mi ricordo tutte le cose. Però dopo, pure mezza sfasciata come era [la casa], semə risaliti sopra [in paese]”.
È nella masseria di Mancini che inizia il lento processo di ricostruzione e di ricostituzione delle condizioni necessarie alla sussistenza. In tale processo, il mulo che i fratelli di Delia aveva sottratto alle truppe tedesche si rivelò di fondamentale importanza: “Quel mulo è stata la salvezza nostra, perché faceva tutto lui, non tenevamo niente da magna’ e papà col mulo iva a carica’ [cibo] a Castel di Sangro, a Ateleta”.
In occasione di uno di questi viaggi ad Ateleta il padre di Delia acquista e porta a casa una gallina: “Nonno, papà mio, ha itə verso Ateleta perché diceva “niü non potemə sta’ di ‘sta maniera, è impossibile”, poi abituato con tutte quelle galline che tenevamo prima… Ha itə là e sa’ quante galline ha riportato? Una”. Questa gallina viene ricordata da mia nonna e dai suoi fratelli come ciò che ha avviato una seppure lenta ricostituzione della vita domestica così come era strutturata prima dello sfollamento, quando la famiglia possedeva moltissime galline e le uova costituivano sia uno degli ingredienti principali della dieta quotidiana sia una stabile fonte di guadagno. “Quando ‘sta gallina dopo iu sfollamento [fa il primo uovo], immagina st’òv che era per noi! Dice, «iu mettemə sopra quella finestra che sta alto e non ci va nisciuno». [Qualcuno rispondeva] «E no, no, che ‘llocə issero i pe’ apri’ e fanno casca i_òv» [E no, no, perchè lì dovessero andare ad aprire farebbero cadere l’uovo]. È rimasta alla storia, se via’ a zio Cesare se la ricorda. Dice, «allora iu mettemə dentro a ‘na piccola credenzuola», dice «no, che ess! Ess iaprənə tutti quanti!» [No, non lì! Lì aprono tutti]. Insomma, a farla breve con quella masseria cuscì grossa non si sapeva ddò mette st’òv. All’ultimo dicette “mo’ ci penso io”, mo’ chi dei fratelli ebbe st’idea non me lo ricordo. Dice “mo’ lo sai che facemə: iu mettemə dentro a stu cistu”. Tenevamo nu cestariejə pe’ i a i_òrt [avevamo un cestino da portare quando andavamo all’orto], però sotto già c’erano messa ‘na bella pezza de lana. C’hann miss i_òv dentro e, a farla breve, là ci stevano le pertiche che ci si appiccavano le salsicce e i caciocavalli, iu mettemm dentro a nu cistu e iu appiccammo pell’aria [ride] e là stava sicuro proprio. Quello ti fa capi’ quanto avemə sofferto, pe’ pensa’ “s’avessa rompere”, alla fine se si rompe n’ovo non è la fine deju munn… Ma siccome eravamo passato tutti quei guai senza magna’, tenevamo paura che si rompesse. E là stai sicura che non si poteva rompere… È la povertà che ti fa capi’ le cose piccole”.
Nei mesi successivi al rientro a Pescocostanzo prese avvio un processo di condivisione collettiva delle diverse esperienze dello sfollamento. Ma, così come ha rilevato Tommaso Baris nelle interviste condotte con gli sfollati e le sfollate nel Frusinate, nel racconto di Delia l’iniziale carattere di eccezionalità della guerra lascia il posto a una sorta di abitudine alla guerra stessa. Nella percezione collettiva le estreme condizioni di vita dei sette mesi di sfollamento assumono i caratteri della normalità: “Ognuno raccontava, però mi ricordo che sembrava ‘na cosa normale. Non è che dicevi «ma lo sai che io so’ stato due giorni senza magna’ che non tenevamo più niente»… Cioè era ‘na voce unica”. La condivisione e la memorializzazione si articolarono attorno alle due differenti esperienze dello sfollamento di coloro che si erano diretti in Puglia e di coloro che invece “erano andati all’avventura” e avevano scelto il “percorso sbagliato”. La voce unica, composta dai ricordi e dalle narrazioni di entrambi i gruppi, ricongiunse tuttavia una popolazione che, nel racconto di Delia, era stata divisa da due esperienze molto diverse. Se la comunità del paese era stata dispersa durante i mesi dell’esodo, la tragicità della loro esperienza li aveva accomunati dopo lo sfollamento, quando era tempo di ricostruire e di ricucire le memorie.
Note
[1] In questa sede lo schwa (ə) è utilizzato per trascrivere la presenza, nel dialetto pescolano, delle vocali “e”, “o” atone e ne indica l’indebolimento all’interno della parola.
Bibliografia
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Cortesi E., Sfollati per ordine tedesco, in «Storia e problemi contemporanei», n. 56, gennaio 2011, pp. 33-61.
Del Biondo I., La violenza sulla linea Gustav: un caso di studio, in «Storia e problemi contemporanei», n. 75, maggio-agosto 2017, pp. 103-128.
Fimiani E. e T. Baris, La linea Gustav, in G. Fulvetti e P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 229-266.
Gribaudi G., Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Bollati Boringhieri, Torino 2005.
Sabatini G., Pescocostanzo: la sua vita nella storia, nell’arte, nel pensiero, nel turismo e nell’industria, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1950.
Giulia Fabbri è assegnista di ricerca in studi di genere presso Sapienza Università di Roma, dove nel 2020 ha conseguito un dottorato in studi storico-letterari e di genere con una tesi sulla permanenza di immaginari coloniali nelle rappresentazioni visuali delle donne nere nella cultura di massa contemporanea. È autrice di Sguardi (post)coloniali. Razza, genere e politiche della visualità (ombre corte, 2021). I suoi interessi di ricerca includono gli studi di genere nella loro intersezione con gli studi critici sulla razza, gli studi post- e decoloniali, gli studi sulla cultura visuale, i critical environmental studies e i critical animal studies.