Il 26 gennaio rappresenta in Australia un giorno di festa nazionale, l’Australia Day, anniversario dello sbarco da parte degli inglesi avvenuto nel 1788. La stessa ricorrenza, per una piccola parte di abitanti australiani, precisamente per gli “aborigeni”1 non rappresenta una festività, ma il giorno della dichiarata invasione da parte dei colonizzatori inglesi. Un interessante articolo de Il Post del 22 marzo 2015 rende ben evidente quale sia la situazione attuale delle comunità aborigene in Australia che rappresentano circa il 3% della popolazione. L’articolo evidenzia come negli ultimi cento anni sia avvenuto un istituzionale processo di discriminazione e al contempo di assimilazione forzata della cultura occidentale sulle popolazioni indigene. Basti pensare alla “politica di assimilazione biologica” con la quale migliaia di bambini furono prelevate dalle loro comunità indigene con lo scopo di essere educati secondo i principi della cultura occidentale. Un’inchiesta prodotta dalla Commissione per i Diritti Umani e Pari opportunità (The Human Rights and Equal Opportunity Commission, HREOC), ha fornito numerose informazioni circa questa pratica applicata in modo capillare su tutto il territorio australiano. <<Dal 1911 al 1970 circa 100.000 bambini aborigeni, la maggior parte di discendenza mista e sotto i cinque anni, furono allontanati dai genitori e familiari e rinchiusi in istituzioni spesso a migliaia di chilometri dalle loro terre. Le direttive governative sull’organizzazione di questi centri, e spesso lo zelo di amministratori e missionari che gestivano queste istituzioni, hanno completamente traumatizzato molte giovani vite. I bambini erano spesso separati dai propri fratelli per impedire che continuassero a parlare la loro lingua, erano regolarmente umiliati e terrorizzati, esposti a violenze fisiche, minacce psicologiche e abusi sessuali di ogni genere. Nonostante l’enfasi sull’educazione, i bambini di queste “generazioni rubate” (stolen generations) furono principalmente preparati a svolgere lavori manuali per poi essere assegnati a famiglie anglo-australiane dove erano impiegati come servitori.>>2
Un sistematico processo di distruzione di una cultura, molto meno retorico di quanto possa aleggiare oggi nei nostri immaginari. A tal proposito risulta interessante come nella non lontana Nuova Zelanda, al turista viene oggi offerta la possibilità di “conoscere ed approfondire” qualunque aspetto degli usi e costumi aborigeni attraverso organizzatissimi tour. Dal sito istituzionale della Nuova Zelanda, così come in quello dell’Australia, si accede, infatti, alla sezione Maori Culture: <<Māori are the tangata whenua, the indigenous people, of New Zealand. They came here more than 1000 years ago from their mythical Polynesian homeland of Hawaiki. Today Māori make up 14% of our population and their history, language and traditions are central to New Zealand’s identity. As a visitor to New Zealand, you can experience Māori culture by visiting a marae with an organised tour, watching a carving or weaving demonstration or learning about fascinating myths and legends from passionate Māori guides.>>3
In Nuova Zelanda molti indigeni vivono infatti confinati nelle riserve, riproponendo e mostrando usi, costumi, riti di una civiltà praticamente inesistente già da tempo la cui esistenza è legata ad una riproposizione spettacolare di ciò che il turista cerca in essi. In Australia la maggior parte degli indigeni vive in aree periferiche. L’isolamento geografico, che viene socialmente camuffato da una attribuito tentativo di mantenere e preservare l’originaria collocazione territoriale, è la conseguenza di un profondo isolamento sociale. La sopravvivenza di tali comunità spesso prive dei servizi basilari è legata agli aiuti governativi, attualmente messi in discussione dal Premier australiano, il liberale Tony Abbott.4
Quanto può risultare lontana questa Australia dall’Australia che rappresenta “un” se non “Il” sogno nel cassetto, non solo di tanti europei. L’immaginario australiano è diffuso e ben radicato. Qualità della vita in testa alle classifiche, leggendarie paghe stratosferiche, ma ancora le modernissime città della costa come Sydney, Brisbane e Melbourne e le città più tranquille come Victoria e Adelaide. Nell’entroterra, a poche centinaia di chilometri dalle metropoli, la natura intatta, i paesaggi incontaminati e una fauna unica al mondo: foreste tropicali, deserti senza fine, savane, montagne erose dai venti, città modernissime e la grande barriera corallina. Una cultura lontana, così come sono lontani i racconti che da li partono e che si espandono nel mondo: la cultura aborigena e l’imponente bellezza di Ayers Rock, gli animali che hanno popolato i racconti dell’infanzia e quelli più temuti e letali al mondo.5
E’ importante il ruolo che gioca questa tipologia di immaginari in contesti in cui vengono riproposti modelli strutturati su scala geografica. Un aspetto interessante proposto dalla Biennale di Venezia6, così come altri tipi di manifestazioni su modello affine come le Esposizioni Universali, è il doppio livello di lettura di cui dispone il visitatore che si confronta con i padiglioni degli altri paesi e il proprio con cui ha la possibilità di connettersi più facilmente al di là di qualunque tipo di proprietà si tratti. Nel caso del Padiglione dell’Australia7, l’immaginario, è ciò su cui gioca l’artista.
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Midway this way of life we’re bound upon /
I woke to find myself in a dark wood/
Where the right road was lost and wholly gone
La curatrice Linda Michael, apre il testo di presentazione della mostra Whong Way Time di Fiona Hall con il famoso incipit del I canto dell’Inferno di Dante Alighieri. La selva oscura e la complessità esperienziale della fase mediana della vita di Dante Alighieri, per la curatrice ben illustrano il lavoro artistico presentato nel Padiglione Australiano: <<In her ambitious installation for the Venice Biennale, Wrong Way Time, Fiona Hall brings toghether hundreds of disprarate elements which find alignments and create tensions around three intersecting concerns: global politics, world finances, and the environment>>7. È un tempo dal senso sbagliato il “nostro”, è un tempo che vuole conoscere il passato, per poi piegarlo al presente, censurarlo e poi plagiarlo, allontanarlo per poi ripescarlo. All’interno del padiglione il visitatore è infatti accolto da un ticchettio continuo che confonde, proveniente soprattutto da orologi a cucù, un sottofondo familiare ma al contempo quasi minaccioso perché sovrapposto e dilatato. L’artista sembra ammonire che se il tempo è una unità di misura scientifica e razionalizzata, il suo essere simultaneamente una dimensione, rende tutto più complesso e soprattutto soggetto al giudizio, quindi per sua natura oggetto di valutazione. Non è un’operazione semplice contenere la descrizione della mostra di Fiona Hall. Wrong Way Time è un’esposizione immersiva e come ha dichiarato l’artista in numerose interviste, la mostra è “campo” inteso come display per un raggio di azione minato di “follia, malvagità e tristezza”.
L’artista intende “solleticare la consapevolezza” che ciascuno ha raggiunto circa la realtà e società contemporanea intrisa di guerra, violenza, saccheggio ambientale, cambiamenti climatici. La riflessione diventa su scala globale, il senso è sicuramente sbagliato, è stato interpretato male o non è stato arrestato ciò che poteva essere fermato. Nello spettatore si innesca così una ricerca continua di associazioni e rimandi concettuali e culturali al fine di scoprire e capire, diventa incessante il tentativo di legare il proprio immaginario con ciò che vede diventa prioritario.
L’allestimento della mostra induce il visitatore in uno stato meditativo, la luce illumina gli oggetti che emergono dall’oscurità. E questi oggetti, oltre ad essere numerosi oggetti e significanti, sono composti da materiali più disparati come banconote, foglie, giornali, atlanti, pane, bronzo, latta, profumi, piante. Le fonti culturali sono altrettante numerose: Dante, Blake, Bosch, Aboriginal, Oceanic, African art.
Alcuni critici, nel definire il metodo di Fiona Hall hanno parlato di “ecologia degli oggetti” in quanto l’artista trasforma il materiale in oggetto, l’oggetto in concetto, i concetti in immaginari. La serie Manihuri (Travellers) (2014), indaga l’impatto della colonizzazione e del capitalismo attraverso pezzi di legno scelti dall’artista che richiamano nella forma creature viventi. La Hall ha infatti raccolto detriti di legno (tra cui pino, pioppo, manuka e kanuka) dal Fiume Waiapu sulla costa orientale dell’Isola Nord di Aotearoa in Nuova Zelanda, una volta circondata da fitte foreste prima di essere distrutta a causa degli scarichi chimici e dello sviluppo urbanistico. La serie Tender (2003–06) si compone da più di ottanta nidi sospesi questa volta realizzati con dollari americani triturati. Dal forte impatto visivo All the King’s Men (2014–15), composta da figure tridimensionali sospese e dall’aspetto spettrale le cui teste sono state lavorate a maglia con il tessuto mimetico di uniformi provenienti da diversi paesi. Le teste sono sfigurate, soldati di fanteria, vittime di guerra. Il tessuto mimetico appare nuovamente in Kuka Iritija (Animals from Another Time) (2014), il cuore dell’esposizione. Per questa serie, Fiona Hall si avvale della collaborazione di un collettivo composto da artiste donne aborigene provenienti dal Tjanpi Desert Weavers molto note in Australia per la produzione di opere d’arte in fibra, tjanpi o erba.
La serie è composta da una serie di animali estinti e in via d’estinzione nativi dell’Australia Centrale, creature esistenti prima che i bombardamenti nucleari compiuti dai Britannici negli anni cinquanta a Maralinga rendessero inabitabili la regione. Gli animali sono realizzati attraverso la lavorazione di tessuto proveniente da uniformi militari contemporanee britanniche e australiane, suggellando concettualmente la narrazione della perdita e dislocamento delle popolazioni Aborigene sotto il dominio coloniale.
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1 Alla voce “aboriginal” il noto dizionario Collins – English Dictionary riporta quanto segue: of, relating to, or characteristic of the indigenous peoples of Australia. Pioneers in dictionary publishing since 1819 The Australian government suggests that the most exact and inclusive way of referring to the indigenous peoples of Australia is Aboriginal and Torres Strait Islander peoples. Other terms which are acceptable are:Aboriginal people(s), Australian Aboriginals and Torres Strait Islanders
2 La Biennale di Venezia è la prima Esposizione Biennale d’Arte nel mondo, da quel lontano 1893 in cui il sindaco Riccardo Selvatico e la sua amministrazione diedero avvio all’iniziativa.
3 www.newzealand.com/Official site of New Zealand Tourism, Business, and Investment.
4 Il Post, 22 marzo 2015 http://www.ilpost.it/2015/03/22/proteste-australia-aborigeni/
5 La descrizione dell’immaginario australiano prende spunto dal sito ufficiale dell’agenzia di viaggio CTS – Centro Turistico Studentesco e Giovanile e Atacama Travel – Viaggi e Turismo.
6 Con la 56.ma Biennale di Venezia, sezione Arti Visive, si inaugura il nuovo Padiglione dell’Australia progettato da Denton Corker Marshall e gestito dall’Australia Council for the Arts. È il primo edificio ad essere costruito nel 21° secolo negli storici Giardini della Biennale.
7 L. Michael (edited by), Fiona Hall. Wrong Way Time, Australia Council for the Arts. Piper Press, 2015.