In tutto quel caos, di fiamme e detriti, una domanda attraversa veloce la mente dell’uomo: “E se in futuro non si sapesse cos’è appena accaduto? Se venisse dimenticato? Cosa posso fare per rimediare?”. Un pensiero radicale aveva appena sconvolto la vita di Twana. [1]
Per parlare dell’Archivio Twana Abdullah è necessario conoscere il luogo in cui è nato, con una digressione sulle persone che l’hanno creato, ricomposto e salvato dall’oblio. Twana Abdullah è stato un fotografo che ha documentato il suo popolo e la sua terra, i Curdi e il Kurdistan iracheno. Aveva scelto di raccontare la vita di coloro che incontrava, ossia la gente comune, i rappresentanti politici, i paesaggi, le città e i villaggi, i combattenti Peshmerga contro la dittatura del regime Baathista di Saddam Hussein. Twana Abdullah era divenuto l’occhio vigile della storia del suo popolo, colui che aveva messo l’esistenza del documento visivo sopra ad ogni necessità. Estremamente prolifico, ha prodotto circa 20.000 fotografie tra il 1974 e il 1992, i cui materiali, positivi e negativi in diversi formati, sono oggi custoditi nell’archivio. Nel 1992 Twana viene assassinato durante un negoziato politico tra partiti curdi, quando mancavano meno di due anni allo scoppio della guerra civile del 1994. Il suo fascicolo resta ancora irrisolto, senza responsabili o mandanti segnalati. Dopo la sua morte chi si fece carico della salvaguardia dell’archivio è stata Qaida Surchi, sua moglie. Poi Rawsht Twana, il figlio, ha raccolto l’eredità del padre con la decisione di spostare tutto il materiale in Europa. Attualmente Rawsht collabora con Caterina Erica Shanta, artista e regista, con la quale cataloga l’archivio Twana Abdullah per la scrittura e la realizzazione di un film.
Questo articolo è la trascrizione di un dialogo avvenuto tra i due nello studio di Torino dove è conservato l’archivio e dove Rawsht e Caterina si ritrovano ogni giorno da diversi mesi per lavorare insieme.
Caterina Erica Shanta: È il 1974 [2], un uomo trova la madre ancora in vita sotto le macerie di casa sua. La trae in salvo. Poi corre in soccorso dei suoi familiari, parenti, vicini di casa. È difficile capire cosa succede; attorno all’uomo innumerevoli persone si muovono, corrono, hanno fretta. Cercano di rimediare al dramma collettivo con ciò che trovano a disposizione. Sotto le macerie di Qaladize, appena bombardata dal governo iracheno, Twana decide di iniziare a fotografare. Prima di allora non lo aveva mai fatto, ma sentiva l’urgenza di raccontare, depositare la memoria oltre la sua vita. In quel momento nasceva l’archivio Twana Abdullah, che raccoglie diciotto anni di attività lavorativa e di attivismo politico. Non è stato il primo o l’unico fotografo del luogo, ma la sua intenzione, il suo sguardo, già dal primo momento possedevano una prospettiva documentaria, inedita per quell’area geografica. Voleva raccontarsi per raccontare, un’attività difficile in tempi di guerra, persecuzione e repressione. Nonostante tutto, lo fece.
Rawsht Twana: Pensa che Twana nell’arco della sua vita ha deciso per ben due volte di andarsene. Ha venduto la casa, i mobili, ha salutato la famiglia con grandi festeggiamenti, ma alla fine ha sempre cambiato idea. Doveva continuare a fare quello che faceva, fotografare a qualsiasi costo. Questo archivio rappresenta un periodo dimenticato della storia del Kurdistan iracheno, ci sono poche informazioni a riguardo e ancor meno immagini. Questi diciotto anni di attività ritraggono molti accadimenti, tante guerre, il genocidio dei Curdi, la cultura censoria del regime che ha vietato anche la lingua parlata o scritta. Quindi trovare scrittura curda – curdo Sorani – dentro alle fotografie oggi è come assistere ad un atto politico di resistenza visiva. Documentare queste cose era estremamente importante per Twana, costituiva un’ammissione di esistenza. L’aver scoperto questo archivio durante la mia adolescenza mi ha messo nella posizione di doverlo salvare, per conoscere i fatti dell’epoca, seppur attraverso la memoria dei testimoni che oggi raccontano mediante queste immagini. I ricordi spesso sono imprecisi, ma talvolta sono l’unico strumento per comprendere cosa è accaduto. Molti dei testimoni non abitano più in Kurdistan, ma sono altrove, in altre zone del mondo. La diaspora curda è parte dell’archivio stesso e del suo salvataggio. Tuttavia il suo valore intrinseco è custodito in ciò che esso rappresenta e racconta: lo stare in un luogo nonostante i problemi. Nelle immagini si vedono periodi molto pesanti, come ad esempio la guerra Iraq-Iran, la distruzione della mia città, Qaladize, nel 1989, la deportazione dei Curdi nei campi; ma in mezzo a tutte queste fotografie e negativi, trovi anche delle immagini che ritraggono gli innumerevoli picnic che si facevano fuori città, la festa di Newroz e altre feste primaverili, la nascita di molti bambini, i matrimoni, il bere birra, whisky o Arak tra amici, la felicità di giocare una partita a carte al bar – Nadi – del paese, il bagno al fiume, i laghi, i fiori nelle campagne, l’uomo che vende le verdure al banco. Twana è rimasto in Kurdistan per mostrare a tutti che c’era anche questa vita e non solo la morte.
Secondo me è importante conoscere questo archivio non solo per il popolo curdo in diaspora, ma anche per altri popoli che affrontano drammi simili. È importante saperlo, perché oggi siamo diversi.
C: Non hai trovato l’archivio come lo vediamo oggi. Mi hai raccontato che quando Qaladize, la tua città natale e la città di Twana Abdullah, è stata sgomberata nel 1989 dal governo di Ba’ath [3], tuo padre è stato costretto a chiudere lo studio fotografico Gowand che aveva in città. Ha dovuto portare con sé le minime attrezzature per poter continuare a lavorare. Siete andati al campo profughi di Khabat, zona Erbil. Tutto il materiale visivo che lui aveva realizzato sino ad allora è stato accuratamente nascosto, una parte in uno scantinato – alcune case avevano cantine molto resistenti perché concepite come rifugi antiaerei – e una parte dentro ad una scatola di latta dell’Unicef, custodita all’interno di una grossa scatola polverosa. In quella piccola scatola c’erano i negativi più importanti che Twana ha consegnato direttamente a tua madre, Qaida Surchi. Assieme c’erano anche tre piccoli raccoglitori per negativi che lui stesso aveva archiviato e catalogato, negativo per negativo, con la descrizione manoscritta del soggetto e l’anno di realizzazione. Poi nel 1991 siete ritornati a Qaladize per ricostruirla, ma ci sono stati scontri con il governo per cui siete fuggiti in Iran [4]. Solo nell’autunno del 1991 avete definitivamente ripreso possesso di ciò che era rimasto delle case. La città era stata completamente rasa al suolo. Nell’archivio di Twana si vede molto bene cosa si è fatto per rimetterla in sesto. Appena le case furono ricostruite vennero indette le prime elezioni libere della città [5].
Nel 1989 eri un bambino ed è molto probabile che tu non abbia memoria diretta di tutti quegli eventi. Come sei venuto a conoscenza di questa storia, è stata tua madre Qaida a raccontartela?
R: Da piccolo avevo un punto di vista infantile, non capivo appieno le situazioni, l’unica cosa che sapevo è che dovevamo prendere decisioni veloci per spostarci con la famiglia. Dopo la morte di mio padre, nel giugno 1992, vivere a Qaladize era diventato troppo pesante a causa delle esperienze pregresse. Abbiamo deciso che ci saremmo tutti trasferiti a Raniya, a casa di zia Zara. Poi nel 1994 c’è stata la guerra civile, molte persone sono morte, anche molti parenti. Al termine della guerra l’inflazione dei prezzi era elevatissima per cui era divenuto difficile comprare qualunque cosa, compresi i beni di prima necessità. Quindi solo nel 1999 abbiamo costruito la nostra prima mudhouse. Era piccolina ma ci stavamo tutti, quattro fratelli, una sorella e mamma Qaida Surchi. Frequentavamo la scuola e siamo rimasti stabili in quel luogo fino al 2007. Tuttavia non c’è mai stato un anno che si possa considerare “tranquillo”: come ben sappiamo nel frattempo è finita la guerra civile ed è esplosa la guerra tra gli Stati Uniti e il regime di Ba’ath, che ha condotto alla morte del dittatore Saddam Hussein nel 2004. Perciò solo nel 2006 sono venuto a conoscenza della scatola polverosa con dentro i negativi buttati alla rinfusa. Mia madre l’aveva sempre portata con sé in tutti gli spostamenti e in tutte le case in cui siamo stati. Nella nostra mudhouse era nascosta sotto lo spiovente del tetto, un luogo accessibile dalla strada, ma nel quale nessuno avrebbe mai guardato. La scatola era un bene prezioso, anche se Qaida ha dovuto vendere diverse attrezzature fotografiche di Twana per sopperire alla fame. Mamma ha tenuto solo la Praktica, che Twana aveva sempre con sé come una seconda pelle. Non c’è mai stato un anno davvero tranquillo. Ad esempio durante la guerra civile si è trovata costretta a bruciare diversi positivi fotografici, soprattutto quelli che ritraevano figure politiche. Doveva proteggere la famiglia. Twana le aveva sempre detto che i più importanti erano i negativi: in quelle strisce di celluloide c’era tutto il suo lavoro. La scatola polverosa era il bene più prezioso e mamma lo sapeva, ma non aveva modo di conoscerne appieno il contenuto, quindi i negativi rimasero lì dentro fino all’anno in cui le chiesi cosa fossero. Era il 2006, lo stesso anno in cui ci siamo trasferiti nella casa nuova, più grande e costruita su un appezzamento di terra donato dal governo alle famiglie dei martiri. Twana Abdullah era un martire.
Quando aprii la scatola ero un adolescente che vedeva per la prima volta dei materiali inediti e misteriosi. Immagina lo stupore e la meraviglia. Non sapevo cosa fossero quelle pellicole, ma nel mezzo c’erano fotografie di diverso formato, inclusi i positivi rimasti che sono stati il mio primo accesso visivo all’archivio. I negativi non sapevo minimamente come maneggiarli, quasi non li toccavo. Poi c’erano tre piccoli classificatori blu, con pellicole catalogate e manoscritte da mio padre, ad esempio “Paesaggio di Shaqlawa, qualche amico, Rawand”, etc. Mamma mi disse per la prima volta che quello era l’archivio di Twana Abdullah e che lo aveva salvato per amore e memoria. Nella scatola c’erano poi altri documenti: la sua carta d’identità, la patente per il negozio di fotografia Gowand, registrazioni della banca, un flash, gli occhiali, una macchina fotografica Praktica e un piccolo treppiede. Come dicevo, non avrei saputo minimamente maneggiare quei materiali senza rovinarli, eppure ero estremamente curioso di sapere cosa contenessero. Volevo vederli, portarli alla luce. All’epoca lavoravo con Omar, facevo il sarto. Avevo scoperto che Omar era stato l’assistente fotografo di mio padre. Chiesi a lui le indicazioni, ma non su come maneggiare l’archivio, bensì su come si facesse fotografia. Volevo fare anche io come Twana, ero convinto che se avessi saputo fotografare, avrei capito meglio la sua visione del mondo. Omar afferrò un cartoncino ed una penna e su quello scrisse tutti i parametri per impostare le luci, comprendere le ombre e i settings di una macchina fotografica, inclusi i tempi di scatto. Posso dire che quella è stata la mia prima lezione di fotografia.
Negli anni successivi sono diventato un fotografo professionista, ho imparato anche a maneggiare i negativi e sono diventato archivista. Iniziavo a conoscere le fragilità del materiale fotografico. Avevo inoltre scoperto che c’era un secondo nucleo dell’archivio che si trovava in uno scantinato non lontano da Qaladize, a casa di Hassan, un caro amico di mio padre. Era conservato dentro a dei grossi sacchi neri, all’interno dei quali c’erano centinaia di negativi rimasti sepolti nella polvere delle macerie e sopravvissuti sia alla distruzione di Qaladize del 1989, che ai bombardamenti della guerra civile del 1994. Diciamo che erano quasi “intatti”, se non per l’umidità e le muffe che li avevano rovinati, insieme a qualche morso di topolino. Ero felicissimo di aver trovato quei materiali, anche perché credevo che la scatola polverosa fosse l’unica cosa rimasta. Poi contattai Akeed Surchi, mio zio, fratello di Qaida. Lui all’epoca viveva in Germania, era partito dal Kurdistan poco dopo il 1981, dopo essersi salvato dalla morte durante la guerra Iraq-Iran. Le sue ferite non sono mai scomparse del tutto. Mi disse che ogni tanto Twana gli inviava delle pellicole da sviluppare in Germania, i cui positivi venivano poi rispediti da Akeed in Kurdistan. I negativi li teneva mio zio, al sicuro a casa propria. Ho trovato una lettera nella quale lui scriveva a Twana: “Mi dispiace di non mandarti tanti soldi, sono pochi, ma proverò ad aiutarvi più spesso. Con questa lettera ti mando 900 marchi, due macchine fotografiche, una Praktica con obiettivi e una Minolta con 3 obiettivi, 15 pellicole, 10 colori, 5 in bianco e nero”. Ho rimesso assieme quasi tutto l’archivio, circa 20.000 fotografie, nell’arco di sette anni, dal 2006 al 2013. In quel tempo ho iniziato a conoscere personalità da tutto il mondo, altri fotografi e giornalisti che venivano in Kurdistan. Con loro ho studiato, ho seguito delle masterclass e workshop di fotogiornalismo documentario. Tuttavia nella mia testa rimaneva sempre il dubbio su come portare alla luce i materiali prodotti da Twana, come far conoscere la sua attività di fotografo e la sua importanza non solo a livello documentale, ma anche storico, dentro e fuori il Kurdistan. Mi facevo molte domande sul suo riconoscimento, così tentai un primo approccio con alcune mostre: esponevo le mie fotografie assieme a quelle di mio padre. A pensarci era la prima volta che Twana Abdullah esponeva ad Erbil, a Qaladize e Sulaimaniya.
Tra il 2014 e il 2017 c’è stata la durissima guerra contro l’ISIS che i curdi hanno combattuto. Durante questo periodo ho conosciuto altri fotografi internazionali. Grazie a questi contatti sono riuscito a portare diverse immagini dell’archivio Twana al DOX Center for Contemporary Art di Praga, con la mostra “Over my Eyes”, una collettiva di fotogiornalismo internazionale sull’Iraq. Twana copriva l’apparato storico sul Kurdistan iracheno. La mostra è durata dal 3 settembre 2017 all’8 gennaio 2018. Quando ho deciso di partecipare alla mostra di Praga con le fotografie di mio padre, ho contattato di nuovo mio zio Akeed, che nel frattempo era ritornato in Kurdistan dopo quasi 35 anni. Con lui ho condiviso la mia idea di portare l’intero archivio Twana Abdullah in Europa. Mi ha detto che era una buona intuizione, che serviva a far conoscere anche altrove il patrimonio di Twana Abdullah. Poco dopo l’inaugurazione della mostra di Praga, il Kurdistan iracheno ha indetto un referendum per l’autonomia politica. Questo ha comportato l’imposizione di un embargo internazionale con la conseguente chiusura dei confini e degli aeroporti del Paese. In ogni caso ero già fuori dal Kurdistan iracheno per la mostra di Praga e con me avevo già tutto l’archivio, chiuso in zaini e scatoloni. Ho scelto Torino come città per continuare il mio lavoro da archivista.
C: Spesso mi interrogo sul valore dei materiali salvati dalla distruzione e dall’oblio. Ogni giorno vengono riscoperte migliaia di immagini, sono tesori sepolti che raccontano storie dimenticate. Nel caso dell’Archivio Twana Abdullah si comprende che il valore è depositato nei negativi, come già Twana aveva suggerito quando era in vita. Tuttavia l’aver portato queste migliaia di immagini fisicamente in Europa pone una domanda contestuale, ossia sul displacement di tali materiali, che ora non sono più presenti nel luogo della loro creazione, ma sono già altrove [6]. Come va letto questo archivio qui ed ora, in Europa? Con quale prospettiva bisogna approcciarsi? La questione si lega soprattutto all’utilizzo di tale archivio, finalizzato a ricostruire storie dimenticate e per condividere narrazioni diasporiche. Dalle attività di Twana e dai documenti che ci sono pervenuti si evince che l’archivio si costruiva sia sul territorio curdo, per cui le pellicole si trovavano nello studio fotografico Gowand di Twana e a casa sua, ma anche altrove, in Germania, dove Akeed Surchi iniziava a raccogliere e a custodire tali materiali nell’arco di una decina d’anni, tra i primi ’80 e i primi ’90. Il fondo archivistico nasceva già in origine in due luoghi geografici separati. Perciò lo spostamento dei materiali archivistici è parte della storia stessa dell’archivio Twana Abdullah, che per contingenza ha avuto diverse case nel tempo. Tale approccio apre a diversi quesiti sul futuro degli archivi e delle popolazioni in movimento, in diaspora, che realizzano costantemente immagini e prodotti culturali. Da un lato è strumentale alla conservazione del fondo trovare un luogo stabile dove poter fare housing, ma dall’altro è lo stato di contingenza delle popolazioni stesse che obbliga questi materiali ad essere sempre spostati. L’archivio Twana Abdullah in questo senso è un esempio perfetto. A mio modesto avviso questo è importante perché pone il suo eventuale lettore in una posizione d’apertura e di forte autocritica rispetto agli strumenti culturali da utilizzare per conoscerlo. È inevitabile mettersi in ascolto per trovare un punto d’incontro e di dialogo sulle immagini stesse. Ad esempio il mio è uno sguardo italiano, di donna bianca europea, che si è formata all’interno di una cultura universitaria e di educazione all’immagine che esige una completa decostruzione per potersi approcciare all’archivio. A tal fine abbiamo elaborato un metodo di lavoro basato sul dialogo e sull’esercizio del dubbio, nel tentativo di interpretare e descrivere correttamente le immagini. All’interno della nostra prassi di lavoro abbiamo inserito anche lo strumento dell’intervista, da realizzare a chi diviene riconoscibile come testimone e appare in diverse immagini per archi temporali prolungati. Una delle questioni che però spesso ritorna nel nostro metodo di lavoro è l’esistenza di altri archivi, con i quali incrociare l’archivio Twana Abdullah per poter ricostruire meglio determinati eventi e archi temporali [7].
R: L’archivio Twana Abdullah rappresenta una sorta di unicum, perché è estremamente puntuale su diverse questioni che hanno attraversato la storia del Kurdistan Iracheno tra il 1974 e il 1992. È molto ricco, seppur diverse immagini siano andate inevitabilmente perdute – lo sappiamo appunto dalle testimonianze, ma anche dalle fotografie che appaiono dentro alle fotografie stesse. Esisteranno certamente altri fondi, o almeno sono esistiti, che si sono costituiti all’epoca da altri studi fotografici del Kurdistan Iracheno. Tuttavia molti di questi materiali sono andati distrutti o perduti a causa degli innumerevoli spostamenti che ha subito la popolazione, oppure i proprietari non li hanno ancora resi pubblici. Attualmente l’unica cosa che possiamo fare è lavorare su quello che c’è, renderlo consultabile e diffonderlo, nella speranza che in futuro altri archivi come questo vedano la luce. L’archivio Twana Abdullah è forse uno dei più completi rispetto alla zona in cui è stato realizzato: completo nel senso che racchiude una grandissima quantità di storie e descrive visivamente il passare degli anni talvolta in modo dettagliato. Dalle parole di Twana Abdullah sappiamo che lui aveva l’intenzione di creare questa mole di immagini per il futuro, affinché rimanesse qualcosa di tangibile e visibile di quello che è accaduto al mio popolo. Quindi queste fotografie sono diventate documenti storici, ossia un punto di riferimento culturale.
C: Quindi rendere l’archivio fruibile ad una molteplicità di persone significa iniziare a riflettere sul concetto di autorappresentazione, per chiedersi “Chi siamo stati?”. Per te quanto è importante mettere in circolo l’archivio Twana Abdullah?
R: Estremamente importante. Come dicevo, l’archivio è un documento storico, ancor di più quando questo può essere consultato e studiato anche da altre persone oltre noi due. Dopo averlo portato a Torino, l’archivio esigeva un riordino, perché nello stato in cui si trovava non poteva essere consultato ai fini di ricerca. Assieme abbiamo quindi iniziato The Twana Archive Project, un progetto di ricerca per fornire all’archivio Twana Abdullah il passaggio fondamentale che lo renderà consultabile ad una platea allargata di persone. Lo stiamo catalogando, per cui ogni immagine ora ha una data, una locazione geografica dello scatto ed una descrizione testuale su ciò che è rappresentato. Per fare ciò abbiamo ottenuto un finanziamento dall’Italian Council grazie anche alla rete di partner che ci accompagna: Archive Books, Arab Image Foundation, Careof. Inoltre abbiamo iniziato a condividere alcuni contenuti dell’attuale fase di ricerca, in ottica di totale apertura. Siamo a caccia di testimonianze per poter fare le interviste, per cui abbiamo realizzato un portale internet in tre lingue – Inglese, Curdo Sorani e Italiano – per presentare l’archivio Twana Abdullah, la ricerca e per raccogliere memorie [8].
C: Gli archivi sono delle macchine del tempo, mobili e in movimento, cambiano a seconda degli sguardi che li interpretano. Sono elementi in divenire, prospettici. Credo che la prassi di condivisione degli archivi di questo tipo sia fondamentale per farli conoscere e riconoscere. Come dicevi, questo passaggio è importante in ottica futura, al fine di fare emergere altri archivi come quello di Twana Abdullah, una sorta di primo passo verso una rete di archivi più grande e in movimento. La restituzione in questo senso è fondamentale: questo progetto di ricerca e le attività di diffusione dell’archivio servono a sensibilizzare non solo la popolazione curda, ma anche chi gli archivi li accoglie – o potrebbe accoglierli. Portare alla luce, far emergere tali materiali è un passo verso un futuro ancora tutto da costruire.
Note
[1] citazione tratta dal testo Twana’s life di Caterina Erica Shanta e Rawsht Twana, (in corso di scrittura).
[2] cfr. Prospects for an Independent State, for the Kurds in Iraq”, Avraz Hussein Tayib Alduski, Faculty of Law, Economics and Social Sciences at the University of Erfurt, 2021;
[3] “In 1989 the city was totally destroyed by the Iraqi regime, the residents of the city were displaced to the settlements of Khabat, Bazyan, Kewrgosk, Daratoo, Jadida. The few hundred Kurdish villages that had come through Anfal unscathed as a result of their pro-government sympathies had no guarantees of lasting survival, and dozens more were burned and bulldozed in late 1988 and 1989. Army engineers even destroyed the large Kurdish town of Qaladize and declared its environs a “prohibited area,” removing the last significant population center close to the Iranian border”; Human Rights Watch Report, 1993, p. 10-11; Per leggere l’intero Report “Introduction : GENOCIDE IN IRAQ: The Anfal Campaign Against the Kurds, Human Rights Watch Report, 1993”;
[4] “[…] Rebellions broke out within days throughout the predominantly Kurdish north of the country. In their counterattack and when consolidating their recapture of these cities, government troops killed thousands of unarmed civilians by firing indiscriminately into residential areas; […] As the government forces closed in on a city, thousands of civilians began to flee […] Over 1.5 million Iraqis escaped from the strife-torn cities during March and early April, crossing into Turkey and Iran, or fleeing into zones controlled by Kurdish rebels (Peshmerga) in the north or into the marshes in the south, beyond the reach of government forces”. cfr. https://www.hrw.org/reports/1992/WR92/MEW1-02.htm; Per approfondimenti “Humanitarian Operation in Northern Iraq, 1991, with marines in operation provide comfort, Lieutenant Colonel Ronald J. Brown U.S. Marine Corps Reserve, History and Museum Division Headquarters, U.S. Marine Corps, Washington, D.C., 1995”;
[5] “On May 19, 1992, the multi-party elections were held in the areas under Kurdish control. The elections were historic for the Kurds since it was the first time the people of Kurdistan could freely choose their representatives. […] The only two parties that passed the 7% electoral threshold were the KDP and the PUK which gained 45% and 43.6% of the votes respectively”. Cfr. Aldusky, 2021, p. 111;
[6] “[…] Acknowledging migration as part of social practice and collective memory, it highlights the relevance of migratory archives for individual and collective subjectivities. With a transversal perspective across the fields of art, anthropology and social activism […] These practices transgress notions of the archive as static and conservative and stand out as an “active, interventionist and open-ended collective building of archives” (Appadurai 2003, 17)”. Per leggere l’intero articolo “Fiona Siegenthaler & Cathrine Bublatzky (2021) (Un)Sighted Archives of Migration—Spaces of Encounter and Resistance: An Introduction, Visual Anthropology, 34:4, 283-295, DOI: 10.1080/08949468.2021.1944766
[7] Cfr. Susan Meiselas – https://www.susanmeiselas.com/kurdistan-street
[8] Il sito web Twana Archive è consultabile qui http://www.twanaarchive.com
Caterina E. Shanta, artista e regista, dopo la laurea magistrale in Arti Visive inizia a lavorare con le immagini in movimento. Realizza film basati su archivi privati e pratiche di cinema collettivo. Attualmente collabora con Rawsht Twana al progetto Twana Archive, sostenuto da Italian Council, Archive Berlin, Careof e Arab Image Foundation.
Rawsht Twana (Qaladize, Iraq, 1988) Fotografo, archivista. Inizia a fotografare nel 2006 seguendo le orme del padre, dal 2009 inizia a lavorare come fotografo giornalista con Metrography – agenzia fotografica indipendente con base in Iraq – documentando questioni ed eventi sociali attraverso progetti intimi e a lungo termine nella regione del Kurdistan Iracheno. Le sue immagini sono state pubblicate in vari magazine e media internazionali.