Ho visto Tu es libre un pomeriggio d’inverno al Teatro i di Milano. In sala c’erano tantissimi ragazzi giovani, studenti di teatro in formazione. Ho pensato che il testo e la sua messinscena – per la regia di Renzo Martinelli – fossero davvero un esercizio di formazione, a tratti un po’ brutale, attraverso cui guardare alla macchina teatrale nei suoi punti più sensibili: lo scarto fra l’immaginario che sprigiona dal testo e l’abito, necessariamente finito, che il regista gli dà, e dunque la visione come punto fermo e concludente; l’impotenza dello spettatore e la non-finitezza dello spettacolo anche dopo che sono finiti gli applausi (il rimbombo delle domande nella testa a distanza di tempo); il punto in cui lo spettatore colloca il suo “io”, e dunque anche il suo giudizio, ovvero la difficoltà di non giudicare davanti a temi grandi e controversi.
Francesca Garolla, che ha scritto il testo e qui interpreta proprio il ruolo dell’autrice, non guarda la scena farsi e disfarsi davanti ai suoi occhi, ma la attraversa come l’ago il tessuto, e sovrappone con i suoi interventi strati su strati di possibili significati. Nel gennaio del 2015, per qualche giorno, sui giornali si è parlato di Hayat Boumeddiene, cittadina francese e moglie di Amedy Coulibaly, il terrorista del supermercato kosher di Parigi avvenuto all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo. Di lei si è detto poco o niente, e sempre le stesse cose: dal bikini alla jiad, la fuga verso la Siria, la clandestinità. Una figurina bidimensionale, o forse un ectoplasma.
Tu es libre non si interessa della figura di Hayat in sé, delle decine di Hayat europee partite per la guerra sacra, ma delle possibilità che questa figura contiene, e di quello che ha da dire a un io rattrappito e paralizzato da categorie sclerotiche, inadatte a raccogliere tanta complessità. Questa ipotetica Hayat è anche la Haner dello spettacolo, studentessa universitaria francese con una famiglia normale, un’amica del cuore normale, un fidanzato normale; è Andromaca: vittima e carnefice, figura femminile per eccellenza nell’addio a Ettore ma maschile fin dalla radice etimologica del suo nome. Nello spettro fra la giustizia e la violenza, fra quello che chiamiamo “buono” e la decisione di prendere le armi, si gioca una questione di coscienza individuale antichissima, ineffabile. La libertà non è di tutti, il viaggio dalla Francia alla Siria non è certo biunivoco.
Ho conosciuto Francesca Garolla in un viaggio in auto verso l’aeroporto di Palermo, dove partecipavamo al Festival delle Letterature Migranti. Lei presentava appunto il volume Je suis libre, pubblicato in italiano e in francese da Cue presse dopo la presentazione del testo durante il Festival di Avignone 2017 nell’ambito dei Rencontres d’été (il lavoro nasce da una residenza alla Chartreuse de Villeneuve lez Avignon, Programme Odyssée – ACCR). Migrazione di persone, parole, diritti, possibilità: i temi di cui abbiamo parlato in questa intervista.
Parlami della traduzione in immagini del tuo testo. Che rapporto hai con questa “tridimensionalizzazione” delle tue parole?
Dal punto di vista drammaturgico ho assunto il mio punto di vista, non ho potuto assumere quello di nessun altro, tant’è che ho creato il personaggio dell’autrice, me stessa, in effetti, che cerco di capire il perché di una scelta così incomprensibile. Da questa ricerca è nato e si è sviluppato poi il testo teatrale. Detto che, in generale, non intendo mai la scrittura teatrale come scrittura “solo” per il teatro e tengo molto al fatto che il testo sia autonomo, leggibile anche al di là della sua messinscena. Renzo Martinelli, il regista, ha dato corpo alle mie parole, ha ideato questo allestimento, ha creato uno spazio astratto, lo ha reso evocativo, ha voluto realizzare una sonorità particolare, ha immaginato che il passato in cui Haner non era ancora partita per la Siria e il presente delle deposizioni dei suoi cari si potessero mischiare. Io ho un immaginario da autrice, poi quando quell’immaginario deve essere agito dagli attori, tutto cambia: nel mio immaginario di scrittura l’autrice avrebbe potuto essere in uno spazio terzo, nella sua camera, con la scrivania e la lampada. Ma qui sono in scena, sono esposta perché sono viva, sono qui, ed è molto più interessante.
Hayat-Haner-Adromaca: chi sono queste tre donne?
La primissima intuizione che mi ha mosso, quando mi sono messa a scrivere Tu es libre, è stata la riflessione su come il terrorismo degli ultimi anni sembra aver modificato la figura degli eroi, positivi o negativi che siano: sono chiunque, come a dirci che la storia non è più decisa dall’alto o legata a una strategia (come poteva essere nel caso delle Torri gemelle) ma sembra oggi appartenere alla sfera della decisione/azione individuale. In particolare, mi aveva colpito la figura di Hayat Boumeddiene, di cui si sa pochissimo, di lei si sono perse completamente le tracce: abbiamo solo le foto di lei in bikini e poi di lei completamente coperta; poi è sparita nel nulla. Nella mia scrittura io ho sempre dei riferimenti contemporanei, non necessariamente dati di realtà o storie vere, collegamenti all’oggi; ma ho sempre anche dei riferimenti al classico. Proprio per questo ho voluto accostare la figura di questa donna, che non era nulla in sé, era solo una riga sul giornale anche se ha avuto un ruolo significativo, con la figura di Andromaca. Questo è il presupposto da cui sono partita. Mi sono poi interrogata sulle ragioni che negli anni recenti hanno portato al fenomeno dei foreign fighters, cerando però di evitare la logica binaria causa-effetto. Mi sono chiesta come leggiamo il fenomeno se tentiamo di non guardarlo solo come una scelta condizionata (dalle proprie origini familiari, dagli incontri casuali magari in chat…) ma anche come una scelta libera. Non una scelta di libertà, perché ovviamente incide sulla vita degli altri, ma una scelta libera. Mi rendo conto che può essere un ragionamento urticante, che tocca il binomio bontà-cattiveria e la nostra capacità di concedere a tutti, proprio a tutti, il libero arbitrio.
La libertà è anche quella dello spettatore?
La struttura del testo alterna dialoghi e deposizioni processuali: fa leggere gli uni alla luce degli altri, e viceversa. I non-detti sono fondamentali, è una costruzione per strati che completa lo spettatore, perché fino all’ultimo lo spettatore crede quello che vuole credere. Come dice la madre: «noi non sappiamo come è andata, l’unica che potrebbe dircelo è Haner, ma Haner non è qui». Io abbandono il personaggio di Haner due anni prima, prima della sua partenza, prima di tutto il resto: non ne so più nulla da allora. Sta allo spettatore decidere se ha bisogno di aggiungere qualcosa per poter dare un senso a questa storia.
Che legame ha questo tuo lavoro con il tema della migrazione?
Noi dimentichiamo spesso che siamo liberi di andare dove vogliamo. Noi “occidentali” possiamo davvero andare dove vogliamo, e il fatto che non sia così per tutti è una differenza fondamentale tra noi, che possiamo, e gli altri, che non possono. La migrazione ci spaventa, ma soprattutto non ricordiamo che c’è semplicemente qualcuno libero di migrare e qualcuno che questa libertà non ce l’ha. Paradossalmente come società accettiamo più facilmente il turismo sessuale in certi Paesi che, per esempio, la presenza di cooperanti (peggio se giovani e donne) in certi luoghi del mondo. E non ci rendiamo conto della responsabilità enorme che abbiamo con la nostra assoluta libertà, mentre “quegli altri” continuano a rimanere, semplicemente e terribilmente, in fuga.
Teatro: guardare al reale
di Francesca Garolla
La convenzione teatrale vuole che vi sia una netta linea di separazione tra il palcoscenico e il pubblico. La “quarta parete”.
Un limite che segna la differenza tra chi guarda, gli spettatori, e chi viene guardato, gli attori.
Un confine netto, che indica la fine dell’immaginato e l’inizio del reale: da una parte la rappresentazione, dall’altra la vita.
Eppure, questa “quarta parete” non si vede.
Non c’è.
Non si innalza alcun muro tra palco e platea ma, piuttosto, vi è un varco, aperto allo sguardo di chi guarda. Tutto ciò che sul palcoscenico avviene, avviene nel medesimo tempo di chi agisce e di chi assiste alla visione. Avviene al presente.
L’aristotelica unità di tempo e spazio è quindi del tutto vera per quello che riguarda l’accadere dell’azione teatrale: si è tutti nel medesimo luogo e nel medesimo tempo, nell’ora e qui.
Questa peculiarità è il limite e la forza del linguaggio teatrale. Obbliga a un continuo interrogarsi su quello che si intende per rappresentazione, per narrazione, per visione.
Obbliga a riflettere su una ritualità che, pur ripetendosi in modo sempre uguale, accade sempre in modo diverso, perché gli attori, e soprattutto gli spettatori, non sono mai gli stessi.
Eppure, nonostante un dato di fatto di per sé banale – attori e spettatori sono esseri umani che condividono lo spazio e il tempo dello spettacolo – non è affatto banale far sì che la rappresentazione teatrale rimanga in contatto con il reale.
In un momento storico in cui la realtà è, almeno per una parte di mondo, iper-accessibile e velocissima (a portata di un click o, meglio, di un dito) che senso ha la sua rappresentazione?
Perché accontentarci di una recita, di ri-chiamare la realtà, quando possiamo accedervi così facilmente, e così comodamente, dal nostro divano?
Il 16 settembre del 2001 a una conferenza stampa ad Amburgo il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen, a un giornalista che gli chiedeva cosa aveva provato davanti agli attacchi dell’11 settembre, rispose: «Quello che è accaduto, naturalmente, vi prego di sintonizzare i vostri cervelli, è la più grande opera d’arte mai esistita». Questa affermazione, all’indomani di un evento che ha inequivocabilmente modificato e determinato la storia contemporanea e i suoi equilibri internazionali, fu oggetto di gravissime critiche e condanne. Perché mostrare tanta disumanità considerando un attacco terroristico, e migliaia di vittime, al pari di un’opera d’arte?
Stockhausen fu costretto a cancellare numerosi concerti e persino una delle figlie, mi pare di ricordare, rilasciò una dichiarazione pubblica prendendo le distanze dalla dichiarazione del padre. Alla fine, il compositore ritrattò quello che aveva detto. «Nel rispetto delle vittime», si disse. Il fatto è che la sua affermazione non aveva alcun carattere morale né un giudizio di valore, ma solo uno sguardo lucido su quello che era accaduto: la realtà prendeva il posto della finzione, dell’arte, regalandoci, con un’immagine di inarrivabile potenza, l’epifanica visione della nostra vulnerabilità. E tutto ciò era molto più impattante di qualsiasi opera d’arte mai esistita.
Improvvisamente, la realtà e la sua rappresentazione erano diventate la medesima cosa, nello stesso momento, in tutto il mondo: Edipo non era più nelle pagine di un libro, né oltre la quarta parete del teatro o dentro alla cornice di un quadro, era tra noi, uno di noi, con la sua peste e la sua colpa.
Come relazionarsi, allora, dopo l’undici settembre, al tema della rappresentazione?
Nel mio lavoro di autrice mi interrogo quotidianamente su ciò che è la realtà e sulla sua rappresentazione. Realtà è la cronaca che ci arriva dai molti media esistenti? Realtà è la quotidianità in cui siamo immersi? Realtà è ciò che conosciamo? Ciò di cui abbiamo, o abbiamo avuto, esperienza?
E, soprattutto, come possiamo rappresentare la realtà, qualsivoglia realtà, oggi?
Non ho risposte, se non una: l’arte non può più permettersi di prescindere dalla realtà.
E non può permetterselo perché la rappresentazione, soprattutto quella teatrale, ha la meravigliosa possibilità di essere realtà nel momento in cui diventa testimonianza, fedele o trasfigurata, del nostro presente, nel momento in cui rende il presente narrabile, nel momento in cui fa, di questo presente, una visione agita sul palcoscenico.
Nel momento in cui ci obbliga a interrogarci su quale sia il nostro coinvolgimento e la nostra responsabilità in questo presente.
Nel momento in cui infrange, del tutto, la “quarta parete” e ci fa alzare dalle nostre poltroncine in platea, rendendoci non solo spettatori ma, soprattutto, attori di questo presente.
Francesca Garolla ha frequentato la facoltà di Filosofia all’Università degli studi di Milano e si è diplomata in regia all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi. Dal 2004 collabora con Teatro i, partecipando alle principali produzioni della compagnia come ‘dramaturg’ e autrice. Parallelamente, sviluppa un forte interesse per la ricerca e approfondisce un autonomo percorso autorale. Tra il 2016 e il 2017 scrive Tu es libre nell’ambito di due residenze artistiche presso La Chartreuse-Centre National des écritures du spectacle di Villeneuve Lez Avignon. Il testo viene presentato come mise en lecture durante il Festival d’Avignone 2017, poi segnalato da la Comédie Française come uno dei testi più significativi della stagione francese 2017/18. Tu es libre è stato finalista al Premio Riccione 2017. Attualmente è autrice selezionata nell’ambito del progetto Fabulamundi e collabora con il Lac di Lugano.