Certi musei sono infestati dai fantasmi. La maggior parte dei musei etnografici nasce a partire dalle rotte coloniali e dal loro “bottino agrodolce” (Taussig 2005) di genocidio e di saccheggio, eppure questi musei restano spesso silenziosi sulle motivazioni per cui quegli oggetti si trovano lì, su come sono stati acquisiti, su che tipo di sapere è stato storicamente costruito attraverso la loro rappresentazione. Il nostro patrimonio culturale conservato nei musei, in particolare nei musei etnografici, è pieno di tracce spettrali della nostra storia coloniale, che continuano a essere invisibili, interdette, apparentemente irraccontabili. Eppure, se è vero che “la spettralità è una forma di vita” (Agamben 2009, 62), potremmo prestare ascolto a questi echi spettrali, alle loro voci, e allora forse saremmo in grado di comprendere meglio il modo in cui molte urgenze della nostra contemporaneità, dentro e fuori i musei, sono legate proprio a questo passato che non passa e che resta, nella sua spettrale vita postuma, a tormentare il presente. Il museo e l’archivio, come dispositivi e narrazioni di matrice coloniale, sono dei luoghi cruciali a partire dai quali interrogare quei fantasmi, questa che è a tutti gli effetti una “memoria difficile” per l’Europa. Si tratta di andare oltre la dimenticanza attiva, l’”oblio selettivo” (Ricoeur, 2004), la costruzione di immaginari esotisti e paternalisti (“italiani brava gente”), che hanno dominato le strategie e le politiche di memorializzazione rispetto al nostro passato coloniale, e riconfigurare le nostre aspettative etiche e politiche verso narrazioni più affini alla qualità diasporica delle culture contemporanee e al nostro presente in traduzione. Si tratta in primis di riaprire gli archivi, e interrogarli criticamente.
L’installazione che Leone Contini costruisce all’interno del Pigorini per il progetto europeo (Traces) è complessa, transmediale, sospesa tra l’intimità delle storie familiari e il racconto istituzionale impresso negli oggetti delle collezioni museali, a sua volta ri-raccontato in una chiave critica e a volte ironica. Il video A Tripoli (che prende il titolo da una nota canzone di propaganda fascista, Bel suol d’amore, chiamata anche A Tripoli) mostra un montaggio di situazioni, incontri e momenti raccolti durante il periodo di ricerca per l’installazione. Piuttosto che documentare il processo, il video mette in evidenza quanto l’installazione sia il frutto non solo di una ricerca dell’artista, ma anche delle coincidenze, del caso, degli incontri capitati durante i mesi precedenti che hanno orientato la ricerca in modo spesso imprevisto ma produttivo. Nel processo di ricerca, la Storia del patrimonio del museo si incrocia con la storia personale dell’artista, che come molte altre storie familiari italiane, si estende fuori dai confini della nazione. Così, ad esempio, durante un sopralluogo preliminare negli archivi del museo, l’artista si imbatte in un plastico di Sabratha, un sito archeologico in Libia nel quale suo nonno, archeologo, aveva lavorato. Molte memorie intime del colonialismo italiano, molte storie, si sovrappongono in modo tutt’altro che lineare con le memorie pubbliche, con la Storia. Affetti complessi che, di fronte al giudizio storico sul colonialismo, non cessano di esprimersi perché il nodo è intimo ed è lì che l’identità personale o familiare si incastra con quella “italianità” così difficile da definire. La questione coloniale non riguarda solo la storiografia, ma la vita quotidiana delle persone, i loro affetti, i loro consumi, i loro processi di identificazione, le loro memorie intime e culturali. È penetrando i territori della domesticità, di quella vasta articolazione di affetti contraddittori (dal senso di colpa alla vergogna, alla nostalgia) che possiamo “fare” il postcoloniale, perché è proprio lì dove si incrociano le memorie popolari e le pratiche archiviali, che si costruiscono le narrazioni che le persone elaborano per dare senso alla loro vita e alla Storia. È davanti a quel plastico di Sabratha ricoperto da un telo negli archivi del museo che ha inizio quella “serendipity” che sposterà e orienterà il lavoro di ricerca dell’artista al Pigorini, seguendo le tracce del colonialismo italiano, in una sorta di percorso indiziario. Quel plastico fa parte del patrimonio dell’ex Museo Coloniale Africano di Roma, chiuso ormai da molti anni, la cui collezione è stata nel tempo disseminata in diversi luoghi (la Galleria d’Arte Moderna, il Museo della Fanteria, la Biblioteca Nazionale) tra i quali il Museo Pigorini, ed è così diventata una sorta di eredità scomoda, un corpo disseminato e disperso, “the evidence of something we don’t want to deal with (…), a sort of ‘undigested’ remains, hidden in basements or locked in the archives”. Come riportare questo corpo smembrato e orfano, nascosto e inaccessibile, di nuovo alla luce, fuori dagli archivi e dentro il discorso pubblico?
Nel video “A Tripoli” un close-up mostra le mani di Leone e di Tina Gaudino, impiegata del museo nata a Tripoli, che riparano una piccola palma in metallo, realizzata presumibilmente proprio dal padre di Tina negli anni ’50, per la madre dell’artista. Di nuovo una scoperta, un incontro fortuito di storie, “una vertiginosa prossimità – riprendendo le parole di Merleau-Ponty – tra cose, corpi e ricordi, che rende il processo stesso del ricordo un atto essenzialmente politico, una presa di spazio e di corpo, un ri-membrare, cercando di mettere insieme i pezzi dispersi della nostra identità culturale” (Grechi, Gravano 2016, 42). La palma diventa in questo modo, agli occhi dell’artista, “a sort of polyvalent key, to access contradictory domains”: da icona pubblica dell’impero Fascista a simbolo anti-coloniale dell’associazione “Union and Progress”, che raccoglie ebrei Italiani, Maltesi e Libici, alleati con il partito comunista Arabo e impegnati contro la presenza inglese in Libia. Ma la palma è anche “medium of an intimate reconnection across time and space” tra due famiglie, e due storie, disseminate tra Tripoli, Roma e Firenze, e segno di altre scoperte, che riguardano anche il mondo dell’arte (forse la storia dell’artista Mario Schifano, anche lui nato in Libia, è connessa a quella della famiglia dell’artista proprio attraverso l’immagine di queste piccole palme domestiche, che risuonano nella sua scultura Per costruzione di oasi, del 1980). Così al Pigorini Leone ri-costruisce delle piccole sculture di carta a forma di palma, una sorta di piccoli richiami fantasmatici, che chiama Anemic Palms, “paper palms for an ephemeral empire”, mentre la piccola palma originale in metallo viene mostrata insieme ad altri oggetti e documenti privati della sua famiglia, nella vetrina Inner Libya. Una sorta di piccola wunderkammer, dove a essere esposte sono le ‘storie’, piene delle tracce di una ‘Storia’ rimossa dal display del museo, eppure presente nei suoi archivi, così come è presente nelle soffitte e nei cassetti di tante famiglie italiane, libiche, e italo-libiche – un intero patrimonio storico e culturale per lo più ignorato dalle istituzioni, che ci aiuterebbe a capire molto di quanto la nostra stessa identità sia essenzialmente transnazionale e “migrante”, frutto di contaminazioni e traduzioni che le hanno dato forma, parola e immaginari. Ci aiuterebbe a comprendere quella dimensione “intima” delle relazioni coloniali, “la logica della ‘convivenza’, le dinamiche dell’intimità e della familiarità” (Mbembe 2005, 133), che sono esistite nel periodo coloniale – nonostante la criminalità e la violenza proprie di ogni occupazione – e sono sopravvissute nel periodo postcoloniale, rendendo la narrazione ancora più complessa e scivolosa, ma anche più interessante per quello che può dirci di noi, della nostra identità, così alla sua radice contaminata dalla differenza e dalla dislocazione.
L’artista lavora anche su altri oggetti “sensibili” del nostro patrimonio museale coloniale. Non solo i busti che raffigurano militari, reggenti e amministratori delle colonie italiane, come Rodolfo Graziani, “Materiale rimosso”, nel duplice senso di spostato dalla sua sede originale (il vecchio Museo Africano), e di negato, invisibilizzato, volutamente dimenticato. Ma anche le maschere facciali collezionate dagli antropologi italiani in Libia negli anni ‘20 e ‘30 (tra loro l’artista ricorda Lidio Cipriani, famoso per aver firmato il Manifesto della Razza), uno dei segni di quella violenza epistemologica che ha accompagnato e giustificato l’occupazione coloniale. Questi oggetti, come i busti, i plastici, le opere d’arte arrivate al Pigorini dall’Archivio del Museo Africano, generano disagio, sono dei veri e propri oggetti intrattabili per la nostra scarsa disponibilità istituzionale a farci carico riflessivamente e in modo critico delle memorie difficili che sono inscritte in essi, e perciò sono lasciati nei depositi del museo, in uno stato di limbo, uno stato paradossale di inaccessibilità alla vista e di “institutional orphanage”: come degli spettri, sono invisibili eppure presenti – hidden in plain sight. Per Leone Contini, l’unico modo per dare corpo a queste presenze spettrali e alla Storia che incarnano è duplicarle, portando alla luce il loro doppio in modo perturbante, come una interpellazione, che ci chiede conto di tutto un sapere antropologico che ha dato fondamento scientifico al razzismo e alla violenta oggettivazione e disumanizzazione del colonizzato – e il museo etnografico è uno dei principali dispositivi che, oggi, è chiamato per responsabilità etica a rispondere a questa interpellazione. L’artista ha scelto una delle maschere e l’ha scannerizzata e riprodotta attraverso una stampa in 3D, un processo durato diverse settimane, con uno stampatore napoletano, anch’egli (“serendipity, again!”) di origini libico-italiane. L’installazione si chiama “Restolen”, perché si tratta di “stealing back from the museum something that was once stolen to a person, its features”. Da un lato è un rimettere in scena la brutalità dell’appropriazione storica di quel viso, di quella persona, trasformandola in simulacro, dall’altro lato l’artista racconta come nel processo di riproduzione della maschera, sia emerso dell’altro, come se il procedimento avesse richiamato, evocato la presenza della persona dietro la maschera, ridandole corpo, contestando e sovvertendo il potere necrofilo dell’oggetto nel quale è stata musealizzata: “the face, floating in the digital void of the laptop screen, appeared to be alive again, in contrast with the deadly aura of the original plaster object”. Per questo l’artista sceglie di esporre un video dell’intero processo di riproduzione della maschera in 3D. Accanto, la riproduzione in 3D viene esposta, in una modalità che vuole evitare semplicemente di “duplicare e riprodurre” l’appropriazione storica in una nuova versione tecnologicamente avanzata. Così “Restolen#2” diventa una sorta di trappola per il visitatore: la “nuova” maschera viene esposta a parete, collocando un sensore che capti la presenza a una distanza prossima, in modo che quando qualcuno si avvicina ad essa, una macchina fotografica posta di fianco scatta rumorosamente una raffica di foto, “rubando” al visitatore la propria immagine senza il suo consenso. Così l’artista riproduce una seconda volta la dinamica di appropriazione – re-stolen – questa volta invertendo i soggetti in gioco: siamo Noi che, proprio mentre compiamo l’azione di “guardare da vicino”, incarnando da disciplinati spettatori il voyeurismo dello sguardo antropologico-museografico, diventiamo oggetto dello sguardo appropriativo degli stessi dispositivi di costruzione dell’identità che abbiamo usato per secoli per oggettificare e inferiorizzare l’Altro.
Nell’installazione di Leone l’accostamento di collezioni, narrazioni e ri-mediazioni personali e istituzionali fa emergere con forza la complessità, la stratificazione e la criticità di identificazioni e di affetti contraddittori di una Storia che ancora facciamo fatica a raccontare. Archivi opachi, che parlano del nostro sguardo, archivi che ci interrogano sulla nostra stessa identità e sulle nostre molteplici appartenenze e responsabilità, sulle molteplici appropriazioni su cui si fondano i nostri patrimoni museali. Tenendo sempre a mente che il museo è uno spazio di enunciazione, nel quale agiscono una pluralità di posizioni, interessi e punti di vista, e che per quanto si presenti come un campo chiuso, è sempre possibile aprire nel discorso un varco per una contro-enunciazione. Ogni appropriazione può essere rovesciata e rigiocata in contro-narrazioni, produrre nuovi discorsi e nuove ri-appropriazioni.
In questo senso, l’installazione di Leone, come una sorta di leva critica, solleva delle questioni cruciali e ineludibili per un museo etnografico contemporaneo. In che modo penetrare e far emergere le ambiguità coloniali sottintese nella trasparenza di molte narrazioni museali contemporanee? In che modo mostrare le collezioni, gli archivi, le didascalie, gli spazi museali come campi discorsivi e relazionali, espressioni di certi assetti di potere-sapere? Chi sono i soggetti autorizzati a parlare, e quali invece restano sempre “oggetti” del discorso, anche se interpellati dal museo a confrontarsi con il suo patrimonio? In che modo evitare il gesto paternalistico di “dare voce” a un soggetto che resta comunque Altro, e innescare invece una reciprocità di sguardo, al costo di mettere radicalmente in discussione la narrazione museale e la sua autorità? Come si può mettere in discussione l’autorità monologica del museo, invertire o sovvertire il punto di vista in maniera radicale, far emergere punti di vista soppressi o oscurati? Come può ad esempio un* ragazz* di origini eritree nat* in Italia riconoscersi nella narrazione della propria cultura d’origine costruita da un museo etnografico attraverso degli oggetti, se in quella narrazione non si riconosce esplicitamente il discorso coloniale che le ha dato forma? Il museo etnografico, come spazio pubblico focalizzato sulla relazione fra culture, non dovrebbe interrogarsi sul senso profondo del proprio ruolo ‘pubblico’, nei confronti dei cittadini e della propria comunità di riferimento, soprattutto quando il diritto alla cittadinanza e alla mobilità viene negato a persone che pure ne avrebbero tutto il diritto? I musei etnografici italiani (come i musei di città o di comunità) potrebbero in questo senso essere degli straordinari laboratori di cittadinanza plurale e interculturale, di messa in discussione di stereotipi e pregiudizi culturali.
Bibliografia
Agamben, G. [2009] Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, in Nudità, Roma, Nottetempo.
Del Boca, A. [2005] Italiani brava gente?, Neri Pozza Editore.
Gregos K. e Meessen V. [2016] Personne et les autres, catalogo del padiglione Belga alla 56 Biennale di Venezia.
Grechi G. e Gravano V. [2016] (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Milano, Mimesis.
Mbembe, A. [2005) Postcolonialismo, Roma, Meltemi (Ed. or. 2000, On the Post-colony, Berkeley, University of California Press).
Ricoeur, P. [2004] Ricordare, dimenticare, perdonare, Bologna, Il Mulino.
Una versione maggiormente articolata ed estesa di queste riflessioni sarà contenuta in:
Grechi G. The scattered colonial body. Di musei infestati, archivi alterati e sopravvivenze coloniali, in Daniele Salerno e Patrizia Violi (a cura di), Migranti, Archivi, Patrimonio. Memorie pubbliche delle migrazioni, Il Mulino, in corso di pubblicazione.