§Memorie Sottopelle
che cosa sa un corpo
The myth of immortality: of bodies or data
by Elena Giulia Abbiatici

Negli anni Sessanta ha iniziato a farsi strada la crionica (dal greco kryos, freddo), ovvero la pratica di ibernazione del corpo di un individuo appena deceduto nella speranza che in futuro, grazie all’impiego di nuove conoscenze medico-scientifiche, sia possibile riportarlo in vita e curare la malattia che ne ha causato la morte, preservandone memoria e personalità. Corpi o anche solo cervelli (si può ricorrere solo alla neuro-criogenia) resuscitati con tecniche di biotecnologia medica ad oggi imprevedibili, ma sognabili. Il processo inizia a circa mezz’ora dall’arresto cardiaco e prima della morte cerebrale: consiste nell’abbassamento graduale ma rapido, in fasi, della temperatura corporea di persone dichiarate legalmente morte, fino al raggiungimento della temperatura dell’azoto liquido. Impacchettato nel ghiaccio e trasportato in una struttura criogenica, la decomposizione del corpo si blocca, mentre il sangue viene drenato e sostituito con antigelo e agenti crioprotettivi per la preservazione degli organi. Una camera riempita di azoto liquido a -196 °C e l’attesa di una tecnica prodigiosa per rianimare il corpo in futuro. 

Il primo caso documentato di crioconservazione risale al 1965, quando lo psicologo americano James Bedford, consapevole della sua imminente morte, firmò un contratto con Evan Cooper, imprenditore visionario e fondatore della Life Extension Society (ora Alcor), la prima azienda di crionica al mondo, per divenire il primo uomo ad essere crionicamente conservato. Ad oggi, nonostante la richiesta di centinaia di migliaia di dollari (fino a 200.000 dollari), circa 500 persone sono state conservate crionicamente, la maggior parte delle quali negli Stati Uniti, e molte altre sono in attesa. 

Il sogno atavico dell’immortalità si avvicina e si brama sempre più, favorito da progressi rapidissimi sul fronte scientifico e tecnico negli ambiti dell’ingegneria genetica, della medicina rigenerativa e dell’intelligenza artificiale in campo medico. La morte si allontana, sospesa fra una corporeità espansa, terrena e digitale, e il codice della vita, si svela – in parte.

L’urgenza di un dibattito su questo tema in ambito culturale si affaccia mentre assistiamo, da un lato, ad una cyborghizzazione dei nostri corpi e, dall’altro, ad una archiviazione sistemica dei nostri dati biometrici, genomici e digitali, per fini, attualmente, ancora non certi, ma neppure imperscrutabili. Le possibilità biotecnologiche di riprogettare e controllare effettivamente la vita, nel XXI secolo si sovrappongono all’immortalità culturale che ogni civiltà storicamente ha sempre cercato di garantirsi, e si interfacciano con il ruolo biopolitico che il capitale ha di dividere la nostra società, tra coloro che potenzialmente possono servirsi di mezzi per prolungare la propria vita e coloro che lottano, tuttora, per una basica sopravvivenza. 

Come sostiene il filosofo autore di Porcospini digitali. Vivere e mai morire online Davide Sisto: «L’esperienza del morire (o del vivere) vive oggi una situazione paradossale: relegata lontano dalla quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, riaffiora quando le immagini e le parole dei cari estinti tornano e irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni» (2022).  I thanabots –  termine usato espressamente dal programmatore informatico Jason Rohrer, per indicare l’utilizzo di ChatGPT, il chatbot sviluppato da OpenAI, per emulare le caratteristiche comunicative delle persone defunte –  sono solo l’ultima di una serie di invenzioni intente a stabilire una relazione stretta tra le tecnologie digitali e l’atavico desiderio umano di immortalità, frapponendo l’intelligenza artificiale tra i presenti e gli assenti.  I thananots sono probabilmente i predecessori del mind uploading, ipotetico processo che intende trasferire i contenuti cerebrali del singolo individuo su substrati informatici o altri dispositivi di calcolo, copiandoli, appunto, in modo da assicurare una immortalità digitale, estesa oltre i limiti fisici e biologici di un corpo. Il mind uploading è l’aggiornamento al tempo dell’intelligenza artificiale del sogno atavicamente umano di raggiungere l’immortalità, superare i limiti umani e sconfiggere la morte. 

Nell’amalgama di circuiti, pensieri, algoritmi e materiali organici e di silicio, i confini tra uomo e computer, tra intelligenza umana e artificiale, diventano sempre più sfumati. Una realtà pronta a rivendicare i diritti e l’identità dei nuovi cyborg è la Cyborg Foundation di Barcellona, co-fondata dagli artisti cyborg Neil Harbisson e Moon Ribas. Essere cyborg significa abbandonarsi al piacere e al potere di pensarsi come esseri autonomi, «spinti dal desiderio di potenziare digitalmente i nostri corpi per compensare le carenze dell’evoluzione» (Hayles, 1999) e superare i limiti sensoriali imposti o suggeriti dal destino umano.

Gli artisti cyborg agiscono come residenti permanenti, visitatori, alieni, intrusi, insorti o invasori all’interno dei loro corpi e del loro dominio. Neil Harbisson, primo cyborg legalmente riconosciuto al mondo, tramite un’antenna impiantata nel suo cervello e sviluppata insieme all’informatico Adam Montadon, dal 2004 è in grado di percepire le frequenze musicali dei colori. L’acromatopsia, ovvero l’incapacità di vedere i colori, lo ha limitato infatti a vivere in un film in bianco e nero (visivo e acustico) fino all’età di ventuno anni. Nel corso del tempo, inoltre, la sua antenna ha trasceso la visione dei colori e, oltre a tradurre le onde cromatiche in onde sonore (tecnicamente definito sonocromatismo), è stata dotata di un dispositivo bluetooth per la connessione via wi-fi, permettendo di ascoltare i colori e le informazioni che viaggiano sulla rete a livello celebrale. Di conseguenza, la connessione a Internet, invece di essere usata solo come sistema di comunicazione, viene utilizzata come estensione sensoriale, che offre all’artista la possibilità di connettersi con le stazioni internazionali della Nasa e di ricevere colori extraterrestri, diventando un senstronauta, in grado di esplorare sensorialmente un altro spazio. 

Manuel De Aguas, Weather Fins (Cyborg Foundation_Transpecies Society)
Moon Ribas, Waiting For Earthquakes at Hyphen Hub (Cyborg Foundation_Transpecies Society)
Neil Harbisson, Pictures by Lars B Norgaard. (Cyborg Foundation_Transpecies Society)

Per sostenere gli esseri umani desiderosi di assorbire le peculiarità sensoriali e percettive di altre specie in uno scambio curioso e trascendente, nasce nel 2017 la Transpecies Society, co-fondata dagli stessi Harbisson e Ribas con Manuel De Aguas. Si va dal coreografare le scosse sismiche e terrestri percepite da qualsiasi punto del pianeta e della luna tramite un sensore (Moon Ribas), al musicare la pressione atmosferica, la temperatura e l‘umidità (Manuel De Aguas), alla sonificazione delle particelle subatomiche create dalla collusione dei raggi cosmici con l’atmosfera del nostro pianeta (Kay Landre), al rilevamento della qualità dell’aria che si respira e dell’inquinamento atmosferico attraverso le vibrazioni dei LED (Alex Garcia). 

Stiamo infatti assistendo a una continua rigenerazione del reale corporeo e del reale post-umano, e la tecnologia è diventata il mezzo con cui gli esseri umani si ricosmicizzano, si elevano, acquisiscono capacità e poteri oltre i limiti biologici e di specie. In realtà, molti di noi sono già psyborg, termine coniato dallo stesso Neil Harbisson: le nostre menti arricchite dall’elettronica ci hanno reso incapaci di immaginare noi stessi senza una connessione a Internet. Esploratori digitali, sorvegliati, infine, non per scelta, ma per curiosità.

Robertina Sebjanic, Aurelia 1+Hz_proto viva generator, Photo Miha Godec

Quale vantaggio può trarre l’organismo umano dall’intensificarsi delle relazioni con altre specie, adottando i loro sensi e comportamenti? Attingendo alternativamente tra mitologia e fatti scientifici, la ricerca dell’artista slovena Robertina Sebjanic guarda al codice dell’immortalità attraverso lo studio di una possibile contaminazione fra esseri umani, robot e altre specie, simbolo di longevità e infinitezza, quali in particolare l’axolotl messicano e il moon jellifish Aurelia Aurita. L’axolotl è una salamandra neotenica originaria del Nord America, abitante dei laghi degli altipiani del Messico: incuriosiva gli antichi Aztechi per il suo aspetto affascinante e i suoi poteri rigenerativi, e alla fine del XIX secolo, iniziò ad essere esaminata in laboratorio per i vantaggi biologici della loro perpetua giovinezza. Nel video saggio Piscis ludicrous / Transfixed Gaze | Lygophilia si evidenzia come l’impatto antropico stia tuttavia mettendo a rischio la sua sopravvivenza e l’intero ecosistema dei canali di Xochimilco, gli ultimi resti di un vasto sistema di trasporto su acqua costruito dagli Aztechi, divenuti un’attrazione per turisti e cittadini. Una voce narrante e alcune riprese degli axolotl, sullo sfondo del proprio habitat naturale, guidano il fruitore a riflettere sul significato simbolico di collegamento tra forme di vita passate e future, e, ancora una volta, a tutelare l’ecologia della convivenza e della coesistenza tra le specie. L’artista è attratta anche dalla medusa Aurelia Aurita, per la sua capacità di sopravvivere in situazioni estreme: se minacciata da un ambiente poco ospitale, è in grado di ritornare allo stato di polipo, sviluppando perciò un’aura immortale. Inserisce la medusa nella sua installazioni generativa (Aurelia 1+Hz / Proto Viva Generator, 2014) in modo che sia il tessuto delle meduse ad attivare il processo robotico, alludendo alla capacità dei loro tessuti di rigenerare anche gli strati tessutali umani. La domanda più importante alla base di questa ricerca artistico-investigativa, infatti, riguarda la possibilità che vi siano dei tessuti sostitutivi in grado di fermare l’inevitabile declino dei nostri corpi, presentando straordinarie applicazioni nel campo  della medicina rigenerativa. 

Come sostiene la critica letteraria postmoderna americana Katherine Hayles, “il post-umano non implica la fine dell’umanità. Esso indica piuttosto la fine di una certa concezione ristretta e finita (corsivo mio) dell’umano”. (Hayles, 1999). L‘idea di integrare l’elettronica e i dati come estensione del corpo umano ci libera dai vincoli di una conoscenza limitata e, seguendo la proclamazione di Nietzsche della morte di Dio, consente agli esseri umani di trascendere la paura della hybris e di accelerare verso capacità precedentemente attribuite a entità superiori, onniscienti e onnipresenti.

Anna Dumitriu, Hypersymbiont Dress
Anna Dumitriu in collaboration with Melissa Grant and Rachel Sammons, Microbe Mouth.

Le pratiche di biohacking dei corpi sono destinate a divenire prassi, spostandosi da una dimensione DIY a una più socialmente diffusa, attesa e desiderata di autodeterminazione dei corpi, a partire dai farmaci nootropi, che agiscono a livello del sistema nervoso centrale e che incrementano le prestazioni cognitive (funzioni complesse come la memoria, il ragionamento, il linguaggio, la pianificazione, l’apprendimento, ecc.) e prevengono l’invecchiamento neurale cellulare di un individuo a livello generale. È di una decina di anni fa l’avvio dell’abito The Hypersymbiont Dress (2017-2023) dell’artista britannica Anna Dumitriu, sul quale sono stati videomappati batteri potenzialmente in grado di aumentare le nostre prestazioni psicofisiche per trasformarci in superorganismi umani, con una maggiore creatività, una migliore salute e persino una migliore personalità. Nello specifico si tratta di: Mycobacterium vaccae, capace di aumentare le nostre capacità cognitive aumentano i livelli di serotonina, Staphylococcus aureus meticillino-resistente che interagendo con il sistema nervoso può lenire sensazioni di dolore, e il Bacillo di Calmette-Guérin, una forma attenuata di Bovine Tuberculosis, per favorire i processi creativi. In Microbe Mouth (2016), sviluppata in collaborazione con gli scienziati Melissa Grant e Rachel Sammons della Università di Birmingham, ha previsto lo sviluppo di denti umani a partire dalla coltivazione di un batterio estremofilo, Serratia 14, capace di resistere in ambienti radioattivi, utilizzato in operazioni di bio-risanamento da sostanze nocive per l’ambiente. Il workshop collegato al progetto diventa l’occasione per riappropriarsi di una conoscenza del mondo microscopico che vive dentro la nostra bocca e nei nostri corpi in una naturale e necessaria convivenza simbiotica. I campioni microbiotici, rinnegati e combattuti nel corso del tempo, perché associati inderogabilmente alla non igiene e alla malattia, si riscoprono protagonisti di una rinnovata consapevolezza ecologica e sensoriale, in una proiezione nostalgica verso un futuro sempre più computerizzato e potenzialmente inorganico. 

Nascono e si concepiscono wearables e nuovi sensori incorporabili, mutuati dal mondo animale, in un mondo profondamente inquinato, testimone inesorabile di un innalzamento dei livelli del mare, e in cui imperversano conflitti bellici. Amphibio è un accessorio indossabile su naso e bocca, come fosse la  branchia di un anfibio, per consentire all’essere umano di respirare sott’acqua e di adattarsi ad un cambio di habitat. Sviluppato dal  biomimicry designer e material scientist Jun Kamei, Amphibio è una membrana in grado di filtrare l’ossigeno dalle molecole di acqua e di dissipare le molecole di CO2. Ancora: Jalila Essaidi, designer e artista olandese, immagina di applicare le strategie genetiche del ragno alla pelle umana in modo da proteggersi da eventuali spari di pallottole. Collaborando col Forensic Genomics Consortium Netherlands, ingegnerizza la pelle affinché diventi antiproiettile, impiantando in vitro le fibre proteiche di un ragno su un lembo di pelle umana. Il tentativo è sempre quello di trovare nuove soluzioni, nuovi elisir di lunga vita o lunga performatività, la pietra filosofale della longevità al servizio del capitalismo, contro il decadimento fisico e biologico. Tuttavia, l’eccitamento per il superamento dei limiti relativi di velocità, direzione e densità del tempo, non deve renderci inconsapevoli delle criticità etiche di una probabile deriva ipermediale dell’essere umano e del suo genoma. Il progetto, Bulletproof Skin. Exploring boudaries by piercing barriers, già del 2011, apre infatti perplessità in materia di sicurezza medico-genetica, in un contesto in cui le biotecnologie consentiranno tecnicamente di impiantare geni extra-umani nel DNA di un corpo umano. 

La questione che fa da contraltare alla ricerca medico scientifica e farmaceutica sulla cura delle malattie e sull’estensione dell’esperienza e aspettativa di vita, è la memoria che industrie farmaceutiche, aziende biotecnologiche possono fare dei nostri dati biologici e genomici. Lungo questa ambivalenza si snoda la tesi di Yuvak Noah Harari, che parla di un progressivo passaggio dall’Homo Sapiens Sapiens all’Homo Deus (2017), l’essere umano che grazie allo sviluppo bio-tecnologico cova peculiarità divine, tra cui l’eternità, che potremmo definire dei corpi e dei rispettivi dati.

La corsa delle multinazionali ai test per individuare eventuali predisposizioni genetiche dal nostro DNA si snoda lungo il filo di un processo di sorveglianza generalizzato ed estrattivo. Oltre  la prevenzione, si nasconde un problema etico di eventuale raccolta di dati personali in banche dati vendibili, a seconda delle necessità, per compromettere la privacy delle persone e portare a forme di discriminazione o profilazione. Il rischio più pressante e reale è che l’uso di queste tecnologie, alimentato da medie computazionali, possa alimentare il sistema di classificazione genetica degli individui e la giustificazione di stereotipi di genere e razziali. Il sociologo Troy Duster si riferisce a questa tendenza a cercare correlazioni che implichino la razza e al tempo stesso ne confutino l’esistenza come alla “reinscrizione molecolare della razza” (Duster, 2015).

Dewey-hagborg-DNASpoofing,VideoInstallation, 2014
Heather Dewey-Hagborg, DNA Spoofing, VideoInstallation (with Aurelia Moser, Allison Burtch, and Adam Harvey)
Visitor viewing of Stranger Visions by Heather Dewey -Hagborg, Courtesy Fridman Gallery

Ci troviamo costantemente di fronte alla possibilità di disperdere tracce in pubblico, lasciando artefatti fisiologicamente catturabili e decodificabili, inconsapevoli di un gene che ci portiamo dentro. Capelli caduti, mozziconi di sigaretta, gomme da masticare, occhiali con tracce di saliva e unghie sono alcuni degli artefatti che l’artista transdisciplinare Heather Dewey-Hagborg ha raccolto ossessivamente tra il 2012 e il 2013 per Stranger Visions. Combinando strumenti bioinformatici e apprendimento automatico, è stata in grado di trarre inferenze statistiche o previsioni sull’aspetto fisionomico, sul comportamento e sulle condizioni di salute degli individui ignoti di cui aveva raccolto i campioni di DNA. Dewey-Hagborg ha simulato una rappresentazione 3D dei loro dati genetici, appropriandosi di alcune tecniche per creare ritratti 3D a colori e a grandezza naturale, suscitando un acceso dibattito sulle possibilità offerte dal tracciamento genetico. La dirompenza dell’opera è stata evidente: dalle sale dell’arte, ha scosso le coscienze di molti e si è infiltrata nei mass media, nei social media e nelle politiche pubbliche sulla privacy genetica.

Nel dicembre 2014, l’anno successivo all’ideazione e alla produzione di Stranger Visions, la fenotipizzazione del DNA forense (FDP) avrebbe fatto notizia quando la società Parabon NanoLabs avrebbe iniziato a offrire alle forze dell’ordine di tutti gli Stati Uniti un servizio chiamato “Snapshot”, in grado di produrre un profilo descrittivo di qualsiasi campione di DNA umano, prevedendo caratteristiche fisiche tra cui la pigmentazione della pelle, il colore degli occhi e dei capelli, la morfologia del viso, il sesso e l’ascendenza genomica. Il futuro che l’artista ha immaginato con Stranger Visions, uscendo dai confini dell’elucubrazione artistica, si sarebbe rivelato una realtà inquietante, generatrice di pericoli e preoccupazioni a livello giudiziario. Attualmente non sembrano esistere norme giuridiche che regolino l’uso di tecnologie forensi non validate e la situazione si fa sempre più allarmante per le distorsioni che la tecnologia di fenotipizzazione, ancora inaffidabile e parziale, può produrre sulle indagini penali. Sebbene l’FDP non possa tenere conto dell’età, dell’influenza ambientale sull’espressione genetica, della decisione di un individuo di abbracciare un’identità che non è biologicamente determinata, o di alterare il proprio aspetto attraverso la dieta, il colore dei capelli, le lenti a contatto, il trucco, gli ormoni o la chirurgia plastica, il rischio più pressante e reale in questo caso è che l’uso di queste tecnologie, alimentate da medie computazionali, possa alimentare il sistema di classificazione genetica degli individui e giustificare gli stereotipi di genere e razziali. Si teme quindi che categorie identitarie come l’ascendenza biogeografica, ridotte ad algoritmi, nelle mani della polizia e delle aziende biotecnologiche, diventino una forma di profiling razziale, sostenuta dall’apparente autorità della scienza del DNA (Dewey-Hagborg, The New Inquiry). Sebbene il concetto di razza non abbia una base genetica, una consapevolezza sottolineata dopo l’Olocausto e ribadita in seguito dal Humane Genome Project, gli scienziati potrebbero costruirlo artificialmente associando ampie serie di dati genetici alle tradizionali classificazioni razziali. Il timore che l’uso dei profili del DNA possa essere usato per istituire imperativi neo-eugenetici è altissimo. Insieme a quello che possa essere usato per produrre potenzialmente armi chimico-genetiche al servizio dell’industria militare, oltre all’utilizzo che già viene fatto nell’ambito delle indagini criminalistiche, penali e giudiziarie, non senza errori. Ed è inquietante pensare che aziende esperte di genoma personale siano riuscite a convincere milioni di persone non solo a donare i loro campioni di DNA individuali per utilizzarli come l’azienda ritiene opportuno, ma anche a pagare l’azienda per un servizio impreciso che prometteva di ricostruire la provenienza etnica dei propri avi. Su Wirecutter, l’autorevole sito di recensioni di oggetti del New York Times, nel suo articolo comparativo sui test del DNA, usati negli Stati Uniti: «Scegliere di fare un test del DNA per divertimento o curiosità avrà probabilmente conseguenze future che ancora nessuno ha considerato» (Mendoza e Diallo, 2024).

Dewey-Hagborg nel video DNA Spoofing (2014) propone quindi tecniche DIY per contrastare la sorveglianza genetica e confonderne il tracciamento e il relativo utilizzo pre- e post- mortem, in un’immortalità digitale che rende vive e autonome le tracce che gli assenti hanno lasciato di sé. Così come lo spoofing dell’IP, una particolare tipologia di cyber attacco che consente a un attore malevolo di nascondere la propria identità per risultare “affidabile” alla vittima designata e rendere possibile la navigazione anonima su Internet, lo spoofing del DNA, attraverso il rimescolamento del materiale genetico che, come esseri umani, costantemente disperdiamo (capelli, ciglia, unghie…) estende tale potenziale e consente traiettorie fisiche anonime insieme a quelle digitali.  

Sulla stessa linea di sottoveglianza si colloca America Project (2016) di Paul Vanouse,  un’installazione d’arte biologica dal vivo incentrata su un processo chiamato “elettroforesi su gel del DNA”, colloquialmente descritto come DNA Fingerprinting. I visitatori sono stati invitati a depositare la loro saliva con una soluzione salina in un contenitore, in cui venivano raccolti tutti gli sputi raccolti, rendendo l’individuazione impossibile. Centinaia di campioni di saliva, contenenti il DNA cellulare, tutti mescolati insieme, per creare immagini iconiche rappresentative del potere del DNA Fingerprint – una corona, aerei da guerra e una bandiera – visibili in mostra come proiezioni video della elettroforesi su gel.

Uploading mentale, wearables and immersive devices, banche dati del DNA, droghe nootropiche. La vita umana si trova al confine tra l’estinzione della specie e la rincorsa all’eternità, l’obsolescenza programmata e la sopravvivenza digitale. 

Seguendo il mito della caverna di Platone, consumando l’illusione proiettata sulle pareti della caverna, il “paziente” potrebbe diventare in definitiva un prodotto finale immortalizzabile in una sequenza di dati estratti e venduti a seconda delle necessità.

Insomma, la morte non esisterà più, ma saremo continuamente circondati da morti.

Bibliografia

Dewey-Hagborg H., Sci-Fi Black Crime Drama with a Strong Black Lead, in The New Inquiry.
Dewey-Hagborg H., Hacking Biopolitics, e-flux conversations, February 2017.
Duster T., A Post-Genomic Surprise. The Molecular Reinscription of Race in Science, Law and Medicine: A Post-Genomic Surprise, The British Journal of Sociology 66, no. 1 (March 2015): 1–27.
Harari Y. N., Homo Deus: Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2017.
Hayles N. K., How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, The University of Chicago Press, 1999.
Mendoza B. e Diallo A., The best DNA testing Kit, NyTimes, Wirecutter, 26 giugno 2024.
Mancuso M., Chimera. Il corpo espanso per una nuova ecosofia dell’arte, Mimesis, Milano, 2023.
Sisto D., Porcospini Digitali. Vivere e Mai morire online, Bollati Boringhieri, Torino, 2022.

Elena Abbiatici storica dell’arte, ricercatrice e curatrice del contemporaneo. La sua ricerca è volta in particolare ai processi artistici che interrogano i nuovi media e/o si esprimono attraverso di essi, con un’attenzione alle implicazioni antropologiche e percettive che tecno-capitalismo, fenomeni migratori e alterazioni ambientali stanno avendo sulle identità individuali e collettive, sugli spazi fisici e mentali che abitiamo. Ha esposto e sviluppato progetti presso numerosi luoghi dell’arte contemporanea. Il suo ultimo progetto “IL CORPO ETERNO. I sensi umani come laboratorio del potere fra crisi climatica e trans-umanesimo”, condotto grazie al premio ITALIAN COUNCIL (IX edizione 2020), rappresenta uno studio sul tema del controllo e abuso dei nostri sensi in termini neuro strutturali e il progressivo potenziamento artificiale e trascendente del nostro corpo. Dal 2023 è lecturer presso il Corso di alta specializzazione in Olfactive Design del POLI.Design di Milano.