“Per tutta la vita ho nutrito un grande amore per questo zio, ha avuto una grande importanza su di me” dice a due generazioni di distanza Ixhlal parlando di Zija Borici, un ingegnere aerospaziale che aveva studiato a Torino negli anni ’30 e poi era andato a vivere in Canada senza più poter tornare in Albania a causa della chiusura del paese da parte del regime comunista. Durante il Comunismo, abbiamo perso tutti i rapporti, ricevevamo solo una lettera al mese”.
Il suo racconto è stato registrato e ora risuona in una grande sala del museo Marubi. Il riferimento è a una foto in cui la piccolissima Ixhlal, vestita di chiaro, compare frontalmente insieme a un elegantissimo e compito Zija Borici in abito e cravatta. Ascoltandole, viene da pensare che nel lungo periodo della dittatura quell’immagine dev’essere stata vissuta come un implicito richiamo alla libertà di viaggiare e più in generale a uno stile di vita che con l’instaurarsi del regime i cittadini albanesi avevano perso. “La vita non ha risparmiato nessuno” sono le lapidarie parole con cui Ixhlal chiude questa storia familiare che si è dipanata nell’arco di decenni, e che non manca di risvolti drammatici.
Ixhlal Borici è una delle persone che hanno accolto il duo di artisti Alessandro Laita e Chiaralice Rizzi nella loro esplorazione del territorio albanese, tra Scutari e Tirana, alla ricerca di fotografie di famiglia scattate dalla dinastia di fotografi Marubi e ancora conservate nelle case dei committenti o dei loro eredi.
Laita e Rizzi, artisti interessati alla fotografia intesa come pratica progettuale, sono precisi, rigorosi, metodici, dotati di una sensibilità già espressa in passato per gli archivi e per la storia delle immagini; aperti, nello stesso tempo, agli sviluppi interdisciplinari e partecipativi del lavoro.
La loro ampia ricerca The Memory of the Air – il titolo è quello di una raccolta di poesie Kujtesa e ajrit, del 1993, di Visar Zhiti (Durazzo, 1951), vittima di persecuzione e testimone della storia recente dell’Albania – ha preso il via dalla scoperta, a Scutari, del Museo Marubi.
L’inizio dell’attività dello Studio Marubi, rimasto in esercizio nell’arco di quasi cento anni, risale a Pietro Marubi, piacentino naturalizzato albanese e operativo a Scutari a partire da metà Ottocento dopo aver dovuto lasciare l’Italia per motivi legati alla partecipazione ai moti rivoluzionari risorgimentali.
Come racconta Lucia Nadin, storica esperta dei rapporti Italia-Albania, Pietro Marubbi – poi Marubi – è infatti una figura emblematica “di quello che per secoli fu il continuo scambio tra sponde di mare, sponde nello specifico di quell’Adriatico che aveva visto l’andirivieni quotidiano di galee cariche di merci e di uomini, che aveva fatto circolare idee, progetti di fede, fantasie e abilità di artisti, creando una vera e propria koiné culturale impastata di oriente e occidente.”
Già nel 1856, poco più che ventenne, Marubi apre uno studio di fotografia che diventa subito un punto di riferimento a Scutari. Lo chiama Dritëshkronja, attribuendo dunque a se stesso il mestiere di scrittore di luce.
Non avendo figli, adotta quelli del suo giardiniere Rrok Kodheli, e assicura loro una formazione fotografica a Trieste. Alla sua morte l’attività dello studio passa a Kel Kodheli – o Kel Marubi in onore del maestro – che a sua volta trasmette la passione al figlio Gegë Marubi, formatosi presso i fratelli Lumière. Tre generazioni dunque, impegnate nella rappresentazione del paese, dei suoi abitanti, delle sue trasformazioni. Con l’avvento del regime comunista, nel 1970, Gegë Marubi cede allo Stato albanese l’intero archivio di negativi di famiglia e ne viene nominato responsabile. Al suo gesto si uniscono altri fotografi della città tra i quali Pici, Jakova, Rraboshta e Nenshati. Il fatto che il materiale depositato si sia preservato in buone condizioni è per la verità dovuto a un caso fortuito, la collocazione in un luogo che gli consente di passare inosservati. In realtà il regime di Hoxha sequestrava le foto in quanto capaci di rivelare stili di vita e possibilità di relazioni che si desiderava far dimenticare alla popolazione. Peraltro per lo stesso motivo, avveniva che gli stessi proprietari nascondessero o addirittura distruggessero foto di famiglia nel timore che la loro presenza implicasse un’accusa di nostalgia per il passato o che rivelassero modalità di vita passata considerate ormai compromettenti o inaccettabili. Di fatto la raccolta di Gegë Marubi è il nucleo della Fototeca Marubi, oggi museo Marubi, tra i più importanti patrimoni fotografici europei. Grazie alla sua esistenza, oltre che alla meticolosità con cui Pietro Marubi registrava i nomi dei propri clienti, la comunità albanese ha potuto ritrovare una traccia fotografica dei propri antenati e scoprire aspetti della vita privata e collettiva altrimenti perduti.
È a questa collezione che si sono ispirati Laita e Rizzi, che hanno dunque ripercorso il tragitto Italia – Albania riflettendo sulla probabilità che molte stampe originali di Marubi fossero ancora diffuse sul territorio.
Con l’aiuto di Luçjan Bedeni e Stella Karafili i due hanno raccolto informazioni, rintracciato fotografie rimaste per decenni – talvolta per oltre un secolo, nelle case degli individui fotografati o dei loro eredi. La presenza delle foto è diventata un appiglio per farsi accogliere dagli abitanti, per intavolare relazioni, conversazioni.
Il lavoro che ne è nato, The Memory of the Air, comprende la registrazione dei racconti dalla voce dei depositari delle foto alle prese con ricordi e considerazioni scaturiti sulla scia dei frammenti di vita rappresentati dall’immagine. Comprende inoltre, ogni qualvolta possibile, la documentazione fotografica della presenza della foto nel microcosmo domestico che la ospita.
Abbinando le fotografie al racconto e alla documentazione dell’ambiente il duo genera una sorta di mise en abîme in cui si manifestano senso e ruolo che le immagini hanno assunto per coloro che le hanno a lungo vissute come parte del proprio ambiente quotidiano.
Centrali nel progetto sono l’esperienza, il coinvolgimento e la risposta dei partecipanti. Inoltre ognuna delle immagini su cui Rizzi e Laita appuntano l’attenzione dà il via a traiettorie di pensiero e a riflessioni teoriche che possono investire piani diversi, quali il senso che la fotografia può avere in quanto ponte tra passato, presente e possibile futuro; o la questione del ritratto che, grazie al suo avvento smette di essere appannaggio di alcune classi e diventa costume sociale diffuso.
Nei percorsi che emergono dai racconti dei cittadini interpellati, sempre personali e profondamente diversi, si leggono il trapassare delle generazioni e il mutare delle abitudini, a partire dalle prime fotografie i cui protagonisti si presentano orgogliosamente in costume ottomano, agli atteggiamenti e all’abbigliamento ormai moderni dei più recenti. E poi legami familiari, rituali domestici, abitudini sociali; ma anche le vicissitudini del paese e delle sue istituzioni, l’esperienza traumatizzante della dittatura di Enver Hoxha, i momenti drammatici della crisi del regime, la transizione con la guerra civile, il “capitalismo non temperato” della nuova fase con le sue conseguenze impreviste e sconcertanti. In diversi casi nelle immagini si legge la dolorosa discrepanza tra vicende ufficiali del paese e l’esperienza rimasta relegata nel privato della memoria. A volte l’intensità emotiva dei racconti sta a indicare la necessità di riscattare il vissuto personale e di riappropriarsi dopo tanto tempo, di emozioni a lungo trattenute.
Ogni vicenda, comunque, si pone più o meno esplicitamente all’intersezione tra soggettivo e collettivo, tra privato e pubblico, tra domestico e politico.
Un esempio: la fotografia scattata da Rizzi e Laita della casa di Ahmet Shurdha presenta un soggiorno dalle pareti affrescate a motivi floreali, con tende rosse trattenute da nappe dorate, comò in radica, vetrinette e tavolini sovraccarichi di soprammobili e di cimeli di ogni genere. Al centro di tale dovizia la foto che dà abbrivio al racconto: “Mio padre teneva corrispondenze con diverse persone all’estero ed erano curiosi di ricevere foto della nostra famiglia, gli amici premevano particolarmente. Dopo diversi tentennamenti, si convenne che si potesse fare. La titubanza a mostrarsi era comune tra chi era stato perseguitato, non era una cosa che facevano con piacere. Quando accadeva, infatti, scatenava i commenti maligni della gente “ah siete ancora vivi allora? Ve ne state qua fuori in piazza? Quando mio padre mi disse che saremmo andati a farci scattare una foto, esplosi di gioia. Entrammo per la porta al piano di sotto, salimmo poi le scale e appena entrati ci accolse Geg Marubi. Ricordo la contentezza di vedere lui e mio padre riuniti; erano amici di vecchia data e in quell’occasione conversarono a lungo. Notai le tende pregiate nello studio, posizionate dietro le foto, ricordo la macchina fotografica ricoperta da un ampio panno nero. Iniziò a disporci: chi si sedeva disponeva di uno sgabello mentre, gli altri stavano dietro in piedi.” Ahmet Shurdha sottolinea poi con insistenza l’estrema gentilezza di Geg, e conclude ricordando come il fotografo chiedesse il permesso di toccare e mettere in posa la moglie di Muhamet. Lo scatto di Geg Marubi con i cinque membri della famiglia dalle espressioni serie, e il racconto di Ahmet Shurdha ad esso abbinato, rivelano anzitutto la capacità di penetrazione che la fotografia ha avuto nella vita quotidiana, e il ruolo ormai centrale che ha acquisito in quanto veicolo di relazione, soprattutto a distanza. E poi modalità di percezione della realtà, valori, il modo in cui la situazione politica influisce sui rapporti sociali, la condizione femminile in seno alla famiglia.
Infine, risulta chiaro il vitale legame che la sua dimensione domestica ha con la storia. Laddove la storia ufficiale tende a congelare il racconto in una versione univoca e spesso riduttiva, la vicenda personale che la foto adombra ne mostra sfumature, sfaccettature, contraddizioni altrimenti taciute, talvolta imprevedibili.
The Memory of the Air è un concentrato di storie e di senso.
Così, per esempio, Mariana Temali descrive la foto esposta nel salotto dalle pareti gialle raccontando di se stessa piccola, ritratta qui insieme ai due fratellini, e di come la madre amasse vestirli bene, e dei suoi lavori fatti a mano con tanta maestria; mentre Roza Xhuxha Anagnosti, attrice scutarina trasferitasi a Tirana, ricorda che Geg Marubi tenne a lungo la sua foto esposta nella vetrina dello studio prima di consegnargliela. Una volta ottenuta la Roza, la porterà ai genitori.
Suzana Laca evidenzia con il suo racconto come la foto ricordo dei membri della famiglia costituisse la consuetudine per una moderna famiglia borghese: “ogni anno, da quando sono nata fino ai sei anni, mio padre mi ha portato da Marubi a scattare una foto. Qui ho cinque anni, Marubi ricordo mi fece salire su una sedia piuttosto alta e mi chiese come volessi posare. Mi piaceva pavoneggiarmi un po’, allora accavallai le gambe, non era niente che avessi visto in TV o da altre parti, tutta farina del mio sacco.” E di un’altra: “Qui papà tiene alla cresima suo nipote.” Lela Zorba mostra la fotografia di un appezzamento di terreno al centro del quale campeggia un grande albero. La figura umana, in origine presente, è stata cancellata in quanto non gradita dal regime. Il terreno, poi donato alla città, è oggi il sito del cimitero cattolico.
Il progetto ci porta avanti e indietro nel tempo: Romeo Gurakuqi parla dei fondatori del club della lingua albanese, nato nel 1908 in seguito alla Rivoluzione dei Giovani Turchi, quando in Albania, allora provincia dell’impero Ottomano, vennero autorizzati l’insegnamento della lingua albanese e la creazione di organizzazioni culturali. Nella foto, del 1911, i membri del club della lingua albanese, fondato nel 1908, sono intenti a leggere la rivista Bashkimi i Kombit (Unità della nazione); in onore dell’Albania indipendente il nonno Lazer Gurakuqi, unico del gruppo, non indossa il fez ottomano. In un’altra foto Romeo commenta la presenza del padre, tra i fondatori della biblioteca nazionale albanese.
Gjon Shllaku racconta invece la storia del pianoforte di famiglia acquistato dal nonno. Lo strumento ha segnato la storia della cultura musicale scutarina in decadi molto importanti, dall’apertura della prima Scuola di Musica alla creazione della prima opera musicale albanese Mrika di Prenk Jakova. Oggi però, non essendo stato possibile trovare un’istituzione che lo voglia conservare, l’oggetto giace in un edificio in stato di abbandono; fatto che Gjon Shllaku interpreta come segno del passaggio a un nuovo modo di vita. In questo caso Rizzi e Laita si concedono una licenza poetica: mentre la foto d’epoca è relativa all’organico dell’orchestra, il loro scatto non riguarda l’ambiente che ospita la foto, ma lo spazio in cui lo strumento si trova attualmente, in condizioni ormai deplorevoli: quello di Gjon Shllaku è un grido di allarme, che loro scelgono di veicolare.
Collocata cronologicamente a metà tra questi due momenti storici è lo scatto in cui Natasha Xhanari, tredicenne, vola appesa agli anelli sotto la volta della ex cattedrale di San Nicola trasformata in palestra, ancora affrescata con icone e santi. La foto, tra le più note della storia albanese, risale al 1967 quando la bimba è invitata a rappresentare Scutari nelle gare di ginnastica artistica dei campionati nazionali. Di quel momento, però, Natasha Xhanari racconta ai due artisti soprattutto il forte turbamento dovuto alla sensazione di fare qualcosa di empio. “Durante il riscaldamento non riuscivo a togliermi di dosso quella soggezione e la sensazione che stessi mancando di rispetto con il mio gesto. Continuai, ma l’occhio mi cadeva sempre sul soffitto lasciandomi attonita.” Una sensazione che persiste anche quando la foto, pubblicata sui principali giornali del tempo, arriva in famiglia generando grande gioia. L’utilizzo degli edifici religiosi per lo sport fu uno dei passi ordinati dal partito nell’ambito di un processo di ateizzazione forzata del paese attuata a ogni costo.
La narrazione evidenzia ancora una volta la tensione tra percezione pubblica e vissuto personale, e come memorie diverse si possano sovrapporre senza arrivare a ricomporsi; a maggior ragione in un paese investito per decenni da una dittatura ferrea che ha comportato, tra l’altro, una politica della delazione e quindi diffidenza, silenzi e profonde rimozioni, persino all’interno stesso delle famiglie.
Inoltre se in The Memory of the Air ogni fotografia risponde al bisogno di puntellare o di ricostruire una memoria, questo caso evidenzia quanto però singole immagini possano ingannare; quanto possano illudere, sembrando poter dire tutto; e come invece la conoscenza che consentono sia relativa. Stimoli, brecce, indizi, punti di contatto; ma il loro senso può emergere solo nel confronto con il soggetto ritratto e con il suo vissuto. Come nel caso di Natasha Xhanari, forse proprio l’arte può andare incontro alla necessità di riappropriarsi di vicende emotivamente dense, e può contribuire a ricollocarle su un orizzonte di riflessione complessivo. Non si tratta dunque solo di ripercorrere vicende del passato, ma di ricostruire la cinghia di trasmissione tra passato, presente e un possibile futuro.
installation view della mostra The Memory of the Air
Mostra: Museo Nazionale di Fotografia Marubi, Scutari (Albania)
14 gennaio – 14 febbraio 2022
Progetto realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (IX edizione, 2020),
programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale
Creatività Contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per il Turismo.
Per tutte le immagini: courtesy degli artisti
Gabi Scardi è curatrice e critico di arte contemporanea. La sua ricerca si focalizza sulle ultime tendenze artistiche e sulle relazioni tra arte e discipline limitrofe. È da anni impegnata nell’ambito di progetti pubblici e sul territorio. Dal 2020 è co-direttrice della rivista semestrale Animot. L’altra filosofia. Dal 2019 è Presidente di NAHR – Nature, Art and Habitat Residency. Dal 2011 è Direttrice artistica del progetto nctm e l’arte, avviato da Nctm Studio Legale. Ha lavorato con musei e istituzioni in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Paesaggio con figura: Arte, sfera pubblica, trasformazione sociale, ed. Allemandi; Il Teatro Continuo di Alberto Burri, ed. Corraini, 2015.