You can go home again so long
as you understand that home is a
place where you never have been.
Ursula K. Le Guin
Antefatto
Marzo 2020, il lockdown arriva anche nella mia città, Roma. Compro un lettore di ebook, in quel momento mi sembra un gesto estremo di salvaguardia, almeno, del mio spazio di lettura. Città sola di Olivia Laing è stato il primo libro che ho letto sul dispositivo, il primo libro di quel periodo. Laing, nel raccontare la sua solitudine, descrive ciò che percepisce dal suo appartamento: le luci della strada, le scene delle altre finestre, i suoni dei vicini. Ammette che una delle poche volte che ha pianto è stato perché non riusciva a chiudere le tapparelle che impedivano che la sua solitudine trapelasse agli occhi degli altri. Non esiste un dentro senza un fuori, si è in relazione costante: forse si è l’unico essere umano in una stanza ma non si è mai l’unico essere vivente, e per quanto si possano chiudere le tapparelle un filo di luce trapelerà e in un muro ci sarà sempre una crepa.
Questo contributo nasce da studi e riflessioni in fieri sullo spazio domestico in relazione alla dimensione performativa e, anche, da una passione per il racconto gotico e dell’orrore, in cui le case sono spesso protagoniste. Mi muoverò tra materiali diversi: pratiche artistiche, testi letterari, saggi critici sull’abitare, tenendo sempre come sfondo il campo di studi femministi e neomaterialisti.
Durante i mesi del lockdown ho letto una lettera scritta da Bojana Kunst in cui la teorica si interroga sul concetto di accurata e giusta cura, avvicina gli/le/* artist* a lavorat* della cura e invita a una riflessione all’interno delle arti performative al predersi cura con.
Samara Editions, Quarantine Night Drawings di Silvia Costa, Night has fallen asleep in the afternoon sunshine di Mette Edvardsen, sono alcuni dei lavori artistici incontrati e che saranno presi in esame in questo testo. Esperienze performative radicali che fanno esplodere il concetto di fruizione e quello di curatela artistica agendo come esperienze fantasmatiche nello spazio conflittuale del domestico. A partire da questi materiali, vorrei mettere in connessione queste pratiche artistiche con le dinamiche dell’abitare e con la possibilità di relazione di cura con le arti performative.
Incontri
Molto spesso quando si inizia a pensare a qualcosa su cui fare ricerca, tutto ci parla di quell’argomento. La mia “ossessione” per le case e per il domestico è iniziata con una richiesta. Durante la pandemia, nel periodo di direzione artistica del Teatro India di Roma di Francesca Corona, le compagnie residenti, riunite sotto il nome di Oceano Indiano, hanno dato vita a Radio India. Nell’ambito di questo progetto che ha, altresì, infestato lo spazio domestico, Muta Imago mi ha invitata a scrivere una lettera dal luogo in cui ero sparita per un programma da loro condotto. Per me la risposta è stata ovvia: ero sparita tra i miei libri. Mentre facevo ordine tra la fiction e ciò che provavo in quei giorni mi sono imbattuta in due dei materiali che hanno innescato queste riflessioni.
Un frammento di Immagini di città di Walter Benjamin. Napoli e la porosità. La prima volta che nel testo dedicato a Napoli Benjamin usa l’aggettivo “porosa” si riferisce all’architettura della quale sottolinea l’essere mai compiuta e definitiva. La porosità, sembra dirci Benjamin, è lasciare una porta aperta, il possibile è sempre dietro l’angolo, sta per accadere. E così che in un’analisi di cos’è il pubblico e cos’è privato nella città di Napoli, Benjamin si lancia in un paragone strettamente teatrale. «Porosità come passione per l’improvvisazione: balcone, ingresso, finestra, passo carraio, scala e tetto fanno contemporaneamente da palco e da scena» (Benjamin, 2007, p.8).
È seducente per chi si occupa della scena questa analogia teatrale, ma il modo in cui Benjamin descrive l’abitare lo spazio urbano ha suscitato la mia attenzione perché mi ha riportato alla questione della performance. La sua descrizione ha a che vedere con lo stato performativo sia nell’ottica di chi lo agisce in scena, sia di chi lo esperisce come pubblico. La porosità, la labilità di confini tra dentro e fuori, l’incompiuto recano in nuce quello stesso potere trasformativo messo in atto nella pratica performativa per cui si è sempre nel qui e ora ma anche nell’altrove. Anche nella ripetizione di partiture c’è una tensione verso il possibile, un’apertura costante che accoglie l’esistente e non lo esclude, la rappresentazione non è il rifugio, il rifugio non c’è, ma attraverso le interazioni con il dato esistente si lavora alla trasformazione del tempo, un processo è condiviso tra performer e spettator*.
Sophie Calle, l’erouv e Gerusalemme. Alcune città – tra le altre Melbourne, il distretto di Manhattan a New York, Venezia e ovviamente Gerusalemme – sono perimetrate da un filo invisibile denominato eruv. L’eruv estende lo spazio privato del domicilio nello spazio pubblico per permettere durante lo Shabbat il trasporto di oggetti, altrimenti vietato. Calle nel suo L’erouv de Jérusalem (1996) chiede ad alcuni abitanti di Gerusalemme, israeliani e palestinesi, di portarla in un luogo pubblico che considerano privato. Un lavoro fotografico composto da una serie di immagini di luoghi apparentemente non simbolici ma tracce affettive: una panchina, una strada, una pietra, tra le altre, accompagnate da racconti intimi, un archivio personale che mescola – Calle scrive che la traduzione letterale di eruv è miscuglio – pubblico e privato, individuale e collettivo, fuori e dentro. Dicotomie che vengono a cadere in favore di uno stato che genera continua tensione trasformativa.
L’ultimo di questi “incontri” è il più antico e risale ai miei studi cinematografici: il lavoro della cineasta Chantal Akerman.
I titoli di testa scorrono sull’immagine di uno spazio urbano, la macchina da presa con un movimento dal basso verso l’alto inquadra un edificio di molti piani da due prospettive diverse.
Dall’interno dell’androne dell’edificio vediamo entrare una donna giovane che, intonando una melodia e con in mano un mazzo di fiori, controlla la posta e poi intraprende una corsa per le scale facendo a gara con l’ascensore per raggiungere il suo appartamento.
La giovane donna è Akerman e questo l’incipit di Saute ma ville il suo primo film da regista, girato nel 1968, di cui è anche l’unica interprete.
Da lì in poi accompagneremo Akerman nell’interno di una piccola cucina, l’esterno è tagliato fuori dall’inquadratura e non lo vedremo più.
Nella cucina la protagonista interagisce con oggetti di uso quotidiano e sigilla porta e finestra con del nastro adesivo per provocare un’esplosione di gas, con cui si chiuderà il film.
Questo cortometraggio dice molto sulla rappresentazione dello spazio domestico che sarà uno dei leitmotiv della poetica di Akerman. Lo spazio domestico, in particolare la cucina, è il luogo per antonomasia destinato e immaginato per il soggetto femminile. Akerman lo hackera compiendo un’operazione di sottile ribaltamento di quel luogo, gli oggetti di uso più comune vengono utilizzati in una maniera “altra”: un impermeabile riposto sotto il lavello della cucina è indossato da Akerman che rovescia un intero secchio pieno di acqua e sapone per lavare il pavimento affollato da pentole e padelle, una piccola bottiglia piena di liquido bianco riposta nella dispensa dalla quale Akerman beve cospargendosi il corpo di quel liquido e, una volta imbrattata, inizia a danzare tra i fornelli e la dispensa; provocando, così, un effetto di straniamento e quasi un riso abbozzato. Persino la tragica esplosione finale è lasciata sospesa: il buio dello schermo impedisce la visione della cucina saltata in aria, è l’impatto acustico a sottolineare che cosa succede. Dopo l’esplosione, però, la melodia intonata da Akerman continua. Ackerman chiude a chiave la porta della cucina, quel giro di serratura segna l’inizio del momento performativo, della macchina da presa che testimonia come il suo corpo prepara la situazione all’esplosione, Rose van der Linndt sottolinea la deliberata decisione di Akerman di essere inefficiente.
Del 2006 è La bas, film in cui la regista posiziona la macchina da presa all’interno di un appartamento a Tel Aviv e riprende cosa succede fuori dalle grandi finestre vetrate. Tra l’obiettivo della camera e l’esterno c’è la separazione della lastra di vetro e il filtro materico delle veneziane in bambù che giocano con la luce. Le angolazioni sono diverse: terrazze, finestre, balconi animate da presenze umane che stendono la biancheria al sole, annaffiano le piante, sono seduti e osservano la strada.
L’interno dell’appartamento accoglie un esterno timido che pur essendo filtrato arriva in maniera incisiva. Le stanze diventano, così, contenitore della memoria della regista che in voice over racconta della sua famiglia, di ciò che osserva nelle rare uscite, della sua relazione con la religione ebraica.
In questi due film di Akerman la mia attenzione si è posata proprio sulla dicotomia spazio interno e spazio esterno, lo spazio domestico non appare come un luogo chiuso e separato ma, ancora una volta, in completa relazione con un fuori. Gli spazi non sono quindi puri ma continuamente contaminati non solo da ciò che viene da fuori ma, anche, da dimensioni altre intangibili, da diverse stratificazioni temporali, da archivi individuali e collettivi che si intrecciano. Si può, quindi, individuare una dimensione fantasmatica del domestico che è in completa relazione con ciò che c’è intorno.
Le case respirano. Sono organismi come noi.
La definizione di domestico che si vuole adottare in questa sede è quella elaborata da Giulia Palladini in Coesistere, rammendare, immaginare: sul politico e sul domestico nelle arti performative. Palladini, parla di domestico come «un campo operativo e discorsivo per riflettere sulla performance come tecnica per immaginare modi di vivere e lavorare insieme, non (solo) in termini di consenso democratico, ma piuttosto in termini di prossimità, organizzazione di sussistenza materiale e modi di abitare, nel tempo e nello spazio» (Palladini, 2021).
Campo operativo e discorsivo quello della casa e del domestico, luogo di continue rinegoziazioni e non pacificato. Parlare di spazi del domestico è, molto spesso, parlare di privilegi e di conflitti. L’emergenza abitativa è, di fatto, globale e la casa spesso diventa luogo del privilegio, lo abbiamo visto negli anni della pandemia da COVID 19, il lockdown ha fatto emergere in maniera ancora più netta ed evidente le disuguaglianze e le esclusioni, le città apparentemente vuote hanno fatto risuonare ancora di più la materialità dei corpi nella loro differenza.
Vivere è passare da uno spazio a un altro cercando di non farsi troppo male, ci dice Georges Perec in Specie di spazi (2021) e, in fondo, questo è anche l’abitare, si tratta sempre di passare da dentro a fuori, da sopra a sotto, dall’alto al basso. Gli spazi non solo contengono noi ma anche il nostro vissuto immateriale sia esso individuale o collettivo. Perec in questo testo inizia con il parlare di una micro-cellula dello spazio domestico: il letto. Per Perec il letto è la pagina, il luogo in cui si fanno viaggi e si osservano i soffitti (Perec, 2021). Dal letto poi si passa alla camera, luogo dei ricordi; della madeleine, in un diretto omaggio a Proust. Lo spazio domestico come luogo dei residui della propria Storia che si accumula e che l’autore chiama la sua fortuna (Perec, 2021). Nella chiusura del testo si abbandona all’evidenza della non esistenza di luoghi stabili, immobili e immutabili. È questa evidenza, dice Perec, che fa diventare lo spazio un dubbio che va costantemente individuato, designato e conquistato (Perec 2021). Che cos’è abitare un luogo? È una delle sue domande. Quante dimensioni temporali abitiamo in un luogo? È una delle mie.
La soglia è il fulcro del domestico, per quanto riguarda il suo rapporto con il fuori. Ci vuole una parola d’ordine, dice Perec. Luca Molinari in un volume a più voci dal titolo, appunto, Casa, è di aiuto nell’investigare la linea di confine tra dentro e fuori. In questi ultimi anni, sottolinea Molinari, la casa è sempre più contaminata da aspetti che riguardano la città. Così come dentro la città si stanno instillando degli aspetti di domesticizzazione (Molinari, 2022).
Le soglie – che lo stesso Molinari indica come gli spazi più frequentati dagli immaginari durante la pandemia – aprono al discorso immaginativo e alla capacità di agire di alcune pratiche performative. Le soglie come spazi liminali dove si annidano i fantasmi. Le soglie come luogo in cui far accadere delle trasformazioni e non solo come punto di affaccio verso il fuori, verso l’ignoto. È proprio in questa zona che ha spazio il concetto di porosità usato da Benjamin per parlare di Napoli.
Lo spazio domestico è il luogo in cui la cura si esprime in tutte le sue contraddizioni. Questo discorso lo abbiamo visto arrivare alle sue conseguenze estreme durante la pandemia in cui la casa era il luogo in cui si svolgevano tutte le nostre attività, anche quelle tradizionalmente relegate allo spazio esterno: educazione, lavoro e tutto ciò che riguarda il tempo libero.
Questa crisi della cura ha imposto un ripensamento degli stili di vita e ha posto l’accento sullo spazio domestico come mai fino a ora.
Il domestico è il luogo di un tempo sghembo, e, forse, sarebbe più appropriato parlare di tempi. All’interno dello spazio domestico si affastellano diverse temporalità: da una parte c’è il nostro presente e il nostro passato materiale e immateriale, dall’altra la temporalità che afferisce alla casa. Qualche tempo fa nella mia casa ha iniziato a manifestarsi il fastidioso fenomeno della muffa, frutto, a quanto pare, anche del cambiamento climatico di cui facciamo esperienza in tutta la sua potenza. La persona che è venuta a sistemare le pareti, vedendomi particolarmente scossa, mi ha detto: “non si preoccupi. Le case respirano. Sono organismi come noi”. Ho cominciato a pensare che la mia casa stesse cercando di dirmi qualcosa.
Shirley Jackson inizia così il suo romanzo L’incubo di Hill House (1959): «Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva da sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola» (Jackson, 2004, p.9).
Hill House è la vera protagonista del romanzo: osserva, sussulta, è corrotta, è malata, sente. Così come Lizzie (1954), altro romanzo della Jackson si apre con la descrizione di un museo la cui inclinazione prodotta dal cedimento delle fondamenta influenza il comportamento delle persone e degli oggetti che il museo custodisce.
Questo trattare le case come personaggi è un tratto distintivo della letteratura gotica e del genere horror. Molto spesso queste case sono infestate da presenze che provengono da altre dimensioni. Interessante ricordare in questa sede anche il romanzo Amatissima di Toni Morrison, che pur discostandosi dal puro genere horror o gotico vede tra i protagonisti un fantasma che infesta la casa al 124 di Bluestone Road. Nell’introduzione a Dark Ladies, un’antologia di racconti di scrittrici vittoriane di recente pubblicazione, si evidenzia come all’epoca i fantasmi fossero apparizioni legate al passato rurale, dove era consueto pensare «che ogni anno a Ognissanti gli spettri oltrepassassero il confine tra la vita e la morte» (AA.VV., 2022, p.12).
A essere terrorizzati dalle apparizioni sono, infatti, i borghesi che disprezzavano queste credenze popolari. Tornando dall’al di là, infatti, gli spettri sovvertivano la realtà di questi personaggi, trasformandosi in un «simbolo di ribellione contro un sistema di oppressione e collocando la verità dal lato dei contadini, del popolo» (AA.VV., 2022, p.12). Le scrittrici, che ben conoscevano la condizione dell’alterità usano queste storie per «infrangere il mito del perfetto uomo vittoriano», minando la condizione patriarcale e borghese dei protagonisti a cui vengono attribuiti anche caratteri quali la nevrosi, all’epoca considerati tipici delle donne (AA.VV., 2022, p.13).
Allo stesso modo gli oggetti delle case infestate, scrive Roberto Casti, si muovono senza il permesso del loro padrone, smarcandosi così dal possesso capitalista (Casti, 2023).
È sempre una questione di soglie, dunque, ed è anche una questione di classe e di genere.
Lo spazio domestico che, nell’esasperazione della pandemia, abbiamo potuto vedere nelle sue forme più crudeli, può essere hackerato da presenze altre che ne sovvertono la natura.
Le performance come una tavola ouija
Mariana Enriquez in un articolo racconta la sua esperienza con la tavola ouija, oggetto che si usa per richiamare le presenze fantasmatiche dall’al di là, molto spesso (come vediamo nei film e leggiamo nei romanzi) si fa all’interno delle case, anche, per individuare eventuali presenze che le abitano. Mentre leggevo della più recente esperienza della scrittrice con la ouija, pensavo a cosa nella mia realtà domestica assomigliasse a quell’esperienza. Mi sono subito venute in mente alcune performance che mi è capitato di incontrare nel periodo del lockdown: Time has fallen asleep in the afternoon sunshine di Mette Edvardsen, Quarantine Nightdrawings di Silvia Costa e il più ampio progetto curatoriale Samara Editions.
In tutti e tre i casi i progetti hanno degli oggetti come output e vengono attivati tramite la corrispondenza, via posta tradizionale e posta elettronica.
Time has fallen asleep in the afternoon sunshine dell’artista norvegese Mette Edvardsen è un articolato progetto iniziato nel 2010, che si ispira a Farenheit 451 di Ray Bradbury. Un gruppo di performer costituiscono una biblioteca di libri viventi. Questi libri viventi incontrano i/le/* lettrici* in uno spazio, spesso una biblioteca, e raccontano il libro che hanno memorizzato. Nel tempo il progetto ha avuto diverse declinazioni: una casa editrice, la riscrittura dei testi memorizzati da parte dei/delle/* performer, il passaggio a una “seconda generazione” di libri che hanno imparato da un altro libro/performer e anche la scrittura di lettere. Queste lettere sono iniziate durante le restrizioni dovute alla pandemia e sono state scambiate tra le persone che fanno parte della biblioteca di libri viventi. Questo processo si è poi aperto ai/alle/* lettrici* che potevano richiedere una lettera che sarebbe arrivata a casa. Quello di Edvardsen è un raffinato lavoro sulla memoria e le sue temporalità e sulle domande che ruotano intorno all’oggetto libro, alla scrittura e al racconto orale. In quest’ultima declinazione il rapporto di intimità, che nella situazione performativa classica si instaura con il performer/libro, avviene attraverso la carta e la calligrafia e la temporalità del qui e ora della performance subisce uno slittamento: leggo qualcosa che qualcun* ha scritto in un altro tempo, trasferendo su carta parte di un romanzo che ha memorizzato e che viene da un altro tempo ancora. Ma nel momento in cui apro la busta, osservo il francobollo per capire da dove viene, inizio a interpretare la calligrafia di una persona a me sconosciuta, siamo lì insieme e ciò che ho intorno durante il momento della lettura si trasforma, si apre.
Quarantine Nightdrawings di Silvia Costa è un progetto che nasce da Sono dentro. L’essere ciò che è chiuso in un tratto, la prima esposizione italiana dei disegni che Silvia Costa – artista, regista e performer – realizza a Bologna nel gennaio 2020 presso la Biblioteca Italiana delle Donne/Centro delle Donne Bologna. Nei giorni in cui ha abitato lo spazio, Costa ha ascoltato frasi, pensieri, citazioni e, forse, piccoli segreti di persone che con lei hanno dialogato per poi, durante la notte, trasformarli in nuove figure. Sulla scia di questo progetto nasce il Quaderno della quarantena, in cui Silvia Costa si è aperta nuovamente all’ascolto di voci e, insieme a chi ha voluto scriverle, ha dato vita a un diario dalle prospettive molteplici. It would be about them, lo spettacolo che nasce da questo diario, torna al teatro – il teatro che non c’è, almeno nelle forme in cui lo abbiamo sempre esperito – lo fa attraverso una pubblicazione che è una drammaturgia precisa con indicazioni su luci, costumi e azioni. Uno spettacolo costruito, come la stessa Costa scrive, in maniera non ortodossa: them – loro – non erano al corrente che sarebbero diventati protagonisti e co-autrici/co-autori di uno spettacolo, che le loro parole sarebbero state sapientemente intrecciate dalla regista per mettere in scena uno spettacolo dell’isolamento. Sono dentro, lo siamo tutti. E dobbiamo starci. Si sta dentro la propria casa, dentro la stanza, dentro il proprio corpo, e silenzio. Questa riduzione a noi stessi e alla nostra salvaguardia, si proietta verso un grande Fuori, verso il Mondo, che ci chiede di separarci per stare insieme. Questo è l’inizio dell’invito di Silvia per il Quaderno della quarantena. Siamo state tutte e tutti dentro, obbligati a rivedere il nostro rapporto con gli enti che ci circondano sia in casa che fuori, e il valore delle cose (almeno per un attimo) si è rinegoziato e -talvolta- ribaltato, come può accadere sulla scena, come accade nelle opere di Costa fatte di segno e parola.
Samara Editions è un progetto di performance via posta curato da Eva Neklayeva, Lisa Gilardino e Marco Cedron. È un interessante ibrido tra una casa editrice e un centro di produzione teatrale, di volta in volta il gruppo curatoriale collabora con diverse istituzioni nazionali e internazionali, tra le altre Black Box (Oslo), Vooruit Arts Centre (Ghent), Azienda Speciale Palaexpo / Mattatoio (Roma). Fino a ora sono stati prodotti i seguenti lavori: Fionde di Chiara Bersani, Protoplasmic Flow di Jenna Sutela, Munnoula – Dolls who migrates di Tamara Cubas e Sense di Kate McIntosh. Quando si acquista un biglietto per Samara, una scatola – dal design curato e ogni volta diversa – viene recapitata a casa, sono fornite tutte le indicazioni per fare esperienza della performance nello spazio e nel tempo che si decide. Ogni box è un mondo a sé: se Bersani ha proposto delle poetiche pratiche rituali per trasformare lo spazio dove ci si trova, Cubas ci consegna una bambola da far viaggiare, Sutela, invece, ci chiede di far crescere e nutrire il Physarum polycephalum e McIntosh attraverso delle azioni semplici che stimolano i sensi ci fa riflettere sugli eventi quotidiani.
Si è al tempo stesso performer e pubblico, si allestisce la nostra propria prémiere e la si agisce, è un’esperienza performativa radicale che non contempla la spettacolarizzazione del gesto. Non c’è nessuno che guarda, anche se alcune delle pratiche possono essere esperite a distanza in termini relazionali. Le pratiche performative di Samara Editions attivano una relazione profonda con l’oggetto interrogando il senso stesso delle arti performative, il rapporto con il pubblico e facendo esplodere il concetto di curatela.
I tre esempi artistici proposti sono dispositivi che permettono di aprire varchi temporali, proprio come il bicchiere che nella ouija diventa l’oggetto che, spostandosi, compone i messaggi che vengono dall’al di là rendendo visibile l’invisibile. Sono “il sacchetto della spesa” di Ursula K. Le Guin. Sovvertono temporalità e non ci permettono solo di viaggiare nel tempo ma di crearne di inedite. L’esperienza di queste pratiche performative permette, così, di attivare quell’entaglement temporale del domestico, simile a quello delle case stregate. Inoltre, attivano anche il tempo dell’inefficienza, la stessa di Ackerman nella cucina, il fallimento queer di cui parla Jack Halberstam. Consentono, anche, l’attivazione di relazioni affettive con entità non umane, con la materia, nel piacere dello scambio di agire e essere agit*. In qualche modo, attraverso queste pratiche lo spazio domestico diventa incerto, ne vengono minate le fondamenta (come il museo di Jackson) per attivare un ripensamento continuo del luogo e delle modalità di abitare.
Attraverso questo sovvertimento del tempo anche lo spazio subisce profonde mutazioni, solo cambiando l’ordine costituito e le funzioni codificate degli spazi (come tanto femminismo ha cercato di fare con il domestico) saremo in grado di attivare nuove dinamiche relazionali e di cura; per agire quel prendersi cura con di cui parlava Kunst nella lettera citata all’inizio. Un prendersi cura con che ci aiuti a immaginare nuovi sistemi di relazione, nuovi modi di abitare fuori dal tempo dell’iperproduzione. Rileggendo il domestico attraverso le maglie della pratica performativa si mantengono vive le soglie e quel costante scambio tra dentro e fuori che ci aiuta a ripensare i confini dell’abitare e del vivere.
“La notte, con le finestre aperte, il selvaggio e il selvatico cominceranno a insinuarsi, si tradurranno in richiamo. La porta è aperta, e, forse, riuscirai ad attraversarla” (Pugno, 2018, p.).
Bibliografia
AA.VV., Dark Ladies, Blackie Edizioni, Milano, 2022.
Benjamin W., Immagini di città, Einaudi, Torino, 2007.
Bianchi Bandinelli R.; Farina G.; Marconi P.; Patroni G.; Vuoli R.; Zancani Montuori P., Casa, Treccani, Roma, 2022.
Calle S., L’erouv de Jérusalem, Actes Sud, Arles, 2009.
Casti R., La casa e i suoi fantasmi, Not Nero editions, 2023, LINK.
Enriquez M., El otro lado, Anagrama Crónicas, Barcelona, 2022.
Jackson S., L’incubo di Hill House, Adelphi, Milano, 2004.
Kunst B., Lockdown Theatre (2): Beyond the time of the right care: A letter to the performance artist, Shauspielhaus, 2020, LINK.
Palladini G., Coesistere, rammendare, immaginare: sul politico e sul domestico nelle arti performative, Sciami ricerche, 2021 , n(10), LINK.
Perec G., Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.
Pugno L., In territorio selvaggio, Nottetempo, Milano, 2018.
Paola Granato studiosa di arti performative, ricercatrice indipendente e drammaturga. Collabora con diversi progetti di natura artistica unendo la scrittura, l’organizzazione e la curatela. Ha collaborato con il Mattatoio di Roma – Azienda Speciale Palaexpo nel progetto di residenze di ricerca e produzione artistica Prender-si cura in qualità di dramaturg e con festival e istituzioni artistiche tra i quali Santarcangelo Festival.