Simona Bertozzi, e-motion, 2010/14, credits: Cavallo&Colonna
.
L’intervallo tra i corpi non ci riserva niente, niente se non quell’estensione
che è la res stessa, la realtà areale secondo la quale accade che i corpi siano
esposti tra loro. L’intervallo tra i corpi è il loro aver-luogo come immagini.
[…] Un corpo è un’immagine offerta ad altri corpi, tutto un corpus di
immagini tese di corpo in corpo, colori, ombre locali, frammenti, nei,
aureole, unghie, peli, tendini, crani, costole, pelvi, ventri, meati, schiume,
lacrime, denti, saliva, fessure, blocchi, lingue, sudori, vene, pene e gioie, e me e te.
J.-L. Nancy, Corpus
Non possiamo che toccare una superficie, vale a dire la pelle o la pellicola
di un limite. […] Ma un limite, il limite stesso, per definizione, sembra
privato del corpo. Il limite non si tocca, non si lascia toccare, esso si sottrae
al tocco, non l’attenta mai o lo trasgredisce per sempre.
J. Derrida, Le toucher
:
.
Enrico Pitozzi: Il corpo e le sue declinazioni è al centro di questo discorso; o meglio non tanto il corpo in quanto entità unitaria, quanto i diversi stati attraverso i quali il corpo si manifesta e si espone sulla scena si offre allo sguardo. Oltre a questo, ciò che è oggetto di dialogo, in un certo senso, riguarda anche la nozione di limite: la pelle come limite attraverso il quale si dà a vedere uno stato di corpo. E la pelle è, in questo senso, il suo oggetto intimo.
Se il corpo presuppone un soggetto che porti e che (si) rapporti, la pelle presuppone esclusivamente la partizione, l’esposizione di tutte le parti del corpo, di tutte le sue facce. Tuttavia l’una non può darsi senza l’altra. L’immagine del corpo, di qualsiasi corpo, sembra dunque attenderci alla sporgenza di un limite, all’estremità della piega di un naso, di un’incrinatura particolare del labbro, nell’alterità di questo volto che è anche sempre ri-volto ad un altro corpo (o ad un corpo altro)1.
Tracce, grafie, macchie e polvere per esempio: diverse forme di presenza e delle sue gradazioni; varianti che toccano lo spettatore, gli richiedono un diverso orientamento della percezione, esistono e persistono in lui2.
Questo effetto di presenza, testimonia del passaggio di un corpo che si inscrive nell’assetto percettivo dello spettatore: è la traccia di un movimento, di una immagine o di un suono che non è là o che è stato là ma non lo è più al momento attuale. É qui che l’effetto di presenza resta come una forma d’impressione3.
Simona Bertozzi: Immergersi nel corpo; questo il limite dal quale intendo partire per guardare la prassi coreografica. Tra le condizioni che mi appaiono imprescindibili nella pratica lavorativa, c’è l’elaborazione di uno studio rivolto al corpo, all’approfondimento delle sue facoltà motorie, materiche e meccaniche, del loro interagire e della disponibilità a relazionarsi con flussi dinamici e transazioni di senso. La declinazione del corpo che mi interessa, in quanto coreografa, ha a che fare con la sua dimensione paesaggistica. Il corpo-paesaggio, le sue intensità e le sue estensioni sono gli elementi compositivi sui quali si orienta la mia visione della coreografia. Si tratta di una ridefinizione dell’anatomia attorno a una serie di regole posturali e di modalità cinetiche che fanno di questo corpo una sonda, un punto di passaggio per un’irradiazione. Non si tratta, pertanto, di un corpo chiuso nella sua forma – l’anatomia è qui un’apertura verso l’esterno, una disgregazione della forma a favore della dinamica: toccare lo spazio e in esso gli altri corpi, organici o matrici che siano. Immagino il corpo-paesaggio come un corpo-spazio, un corpo-tempo che pulsa e dilata la mia percezione delle cose, ne tocca i margini e ne misurare le distanze; disegna vicinanze, architetture…
È un corpo che sa mutare il suo peso specifico, un corpo che passa attraverso diversi stati di densità, assottigliamenti, proiezioni…e questi corpi assumono delle sembianze animali che sono già parte di quell’anatomia, dei suoi processi di trasformazione, come in Bird’s Eye View (2011). “Animali senza favola”, li chiama Maria Zambrano4, perché intensità allo stato nascente e, dunque, non ancora irretite in una narrazione.
Sono corpi che abitano i margini: dello spazio, della luminosità; corpi in penombra che vanno incontro alla luce seguendone il respiro: corpi che si immergono nel colore.
Video Bird’s Eye View (2011)
E.P.: Mi interessa questo riferimento al corpo che traccia architetture.
Quando parlo di architettura del corpo, sostanzialmente, mi riferisco ad una interpretazione del suo ruolo. Credo che il corpo, nella scrittura coreografica, sia un punto di passaggio, un’intersezione. Un punto di passaggio perché convoglia delle tensioni, delle intensità, delle energie che provengono dall’esterno e che traduce e canalizza in una forma, come avviene, per esempio, in Terrestre (2008), in cui la coreografia è un corpo a corpo con la luce. L’obiettivo della scrittura coreografica, in questo senso, non è il corpo stesso, bensì lo spazio. Lo spettatore deve poter vedere lo spazio come una figurazione del corpo. Se volete, è anche una sorta di negativo fotografico. Là dove il corpo sparisce, rimangono le architetture che il corpo disegna, il suo calco, ciò che lo spettatore tocca con gli occhi.
La scrittura coreografica è questo fare spazio con il corpo che incontra altri corpi. È lì che si assottiglia la visione, non più un corpo che si assomma a un altro corpo, ma uno spazio tra questi due corpi, una traccia nella continuità della materia. Allora qui se delineano volumi che pulsano tra i corpi.
S.B.: Ciò è possibile solo se il gesto sa evocare ed invocare, articolando una materia fatta più di fantasmi che di oggettive presenze, di significanti, di memorie depositate su un pneuma che ingloba e comprime dialetticamente passato e presente, riattualizzando l’immagine nel momento esatto in cui non si preoccupa di significare.
Si tratta qui d’identificare la traiettoria di una materia del gesto che scivola da un punto all’altro dello spazio, vivendo per inattese apparizioni delle immagini, deformi, incomplete, scomposte ma percettibili e in grado di comunicare per il fatto stesso di apparire aggressioni, palesi finzioni, irrispettose del reale: è un gesto che si apre ad una relazione inattesa con lo spazio; apre canali altri di lettura e di tempo percettivo tramite una dislocazione spaziale che sposta e intreccia più punti di vista.
Come in Bird’s Eye View (2011) o il da te citato Terrestre (2008), il processo inizia con il muovere lentamente solo alcune parti del corpo così da non segnare lo spazio troppo in profondità; è necessario sentire la sua organicità. Solcarlo per relazioni tirando linee tra i vari punti della sua consistenza materiale, per non chiuderlo dentro una scelta di raffigurazione fisica che sia esteticamente precostituita.
Sentire lo spostamento, sentirlo su ogni particella del mio corpo come possibilità di aperture altre. Continue occasioni di innesto dinamico, di vettorialità distinte e molteplici che il corpo offre nella sua complessità organica e strutturale. Sentire che ogni dislocazione non è un arrivo ma una transizione rispetto al punto in cui mi trovo, che non lascia un luogo dello spazio per riempirne un altro, ma è come dare vita al corpo che già si trovava in quel punto dello spazio: dare forma impermanente a uno dei tanti fantasmi preesistenti e visibili per connessione di transito.
Lo spazio in quanto entità che riceve, avvolge, contiene. È qui che l’immagine comincia a trasformarsi.
Lentamente, non appare più il singolo movimento, la singola azione, ma un universo di pulsazioni che restano sottoforma di traccia. Se penso alla mia ultima produzione, Orphans (2013), chiedo ai miei danzatori di passare attraverso la partitura, per condurre il loro corpo in questaatmosfera. È qui che la scrittura coreografica si fa scia, pulsazione che io percepisco nel momento in cui loro sono già transitati attraverso le stratificazioni.
Video Terrestre (2008)
E.P.: Questo corpo è allora un reticolo, una geografia da esplorare il cui centro, in realtà, è assente, o meglio, altrove: le cose più interessanti avvengono sempre ai margini della nostra attenzione. Ogni corpo sente e tocca: angoli, vuoti, ombre, linee infinite. Fare del corpo una carta, una cartografia, un diagramma. Tracciare linee a velocità variabile così da connettere tutti i suoi punti, tutte le sue estremità, tutte le sue estensioni, tutte le sue fratture e tutti i suoi affetti. Fare dell’anatomia un’irradiazione, in cui il gesto nasca da una delle sue tante estremità: orecchie, occhi, anche, spalle…da tutta l’estensione di cui è capace la pelle. L’impressione che ne resta – tra velocità, lentezze e contrazioni – è quella di uncorpo pieno di menti, a suo modo incommensurabile5. Non lo si può comprendere totalmente, lo si deve solo toccare e percorrere. E poi la temperatura di questi corpi, la loro lucentezza che incontra, in scena, una poetica del colore.
Antonio Rinaldi: Proprio queste atmosfere di luce sono il senso del mio operare. In questa direzione mi colloco come un ossevatore: il mio lavoro è di per sé un lavoro incompleto, nel senso che potrei completarlo se riuscissi a vedere quello che faccio senza farlo, articolando su di esso uno sguardo esterno. Tuttavia questa visione mi è imposibile, proprio perché non colgo gli effetti che il mio intervento sulla materia luminosa opera su chi osserva. E dunque la propsettiva che posso qui adottare precede e intorduce la poetica della luce di cui parli. Dunque l’aspetto tecnico qui è determinante. Prendiamo il lavoro che ho fatto per Orphans (2013) di Simona per lo spazio delle carrozzerie not, nella cornice di Romaeuropa Festival, in cui ho operato in sintonia con la luce del giorno, con le sue variazioni, assecondandole. Questo perché la luce è qualcosa di incommesurabile, che per lo più sfugge alla comprensione; è un materiale al contempo liquido e magmatico. Una luce crea il nulla o l’infinito; una luce può amplificare i corpi – anche se questi sono molto piccoli. La luce apre la percezione di ciò che avviene in scena. Questa è la sua materia più intima. Un’opera la si percepisce, non la si vede.
Non tengo mai una luce ferma, ogni cambio luce è infitesimale ma sempre dinamico. E c’è un aspetto importante del mio lavoro che riguarda il controllo live di ogni luce, non mi interessa registrare le tracce luminose, ho la necessità di interagire sempre con esse: ogni volta è lo stesso ma diverso, questo per me significa lavorare nell’atmosfera, variare al variare dell’impercettibile, una questione di sfumature: operare intorno a quel niente che può cambiare tutto.
Mi interessa lavorare sull’invisibile, su ciò che ogni luogo emana, una luce che c’è, è lì, appartiene a quello spazio, a quel luogo, ma nessuno l’ha mai vista. È la sua temperatura, la sua cromia, ciò che fa essere esattamente così le cose come sono in un dato ambiente. Se dovessi sintetizzare questo pensiero direi: opero per rivelare la luce che abita uno spazio. Restituirle il suo colore, la sua tonalità.
Video Orphans (2013)
E.P.: Un’atmosfera non la si comprende, la si assapora6. Mi sembra questo un aspetto sul quale le nostre riflessioni convergono. Passare attraverso una gamma di sensazioni; si tratta di affinare il nostro operare in accordo con le percezioni più piccole, infinitesimali e impermanenti. Il mondo della latenza è la terra in cui ci muoviamo: dal micromovimento del gesto, alle nuances della materia cromatica. Si tratta qui di rivendicare – contro il tempo presente – una diversa qualità delle cose8. Un non-so-che che ci tocca sfuggendo come una sensazione da abitare.
S.B.: Proprio di queste temperature è fatto il corpo-paesaggio: non tanto le sue consistenza, piuttosto quello che porti con te nella visione, ciò che esso lascia al suo svanire, l’impressione che si deposita nella memoria di chi osserva. È tutto un risuonare dei corpi, il micromovimento fa vibrare per irradiarsi poi nello spazio. Qualcosa che opera con la gravità, con le sue pressioni. Un corpo che evapora nel suo staccarsi dal suolo. Tutto il processo di lavoro per Terrestre (2008) risente esattamente di questa connessione con il suolo, un toccare il suolo e, al contempo, staccarsi da questo.
Questo principio apre all’esterno, verso uno spazio che il corpo plasma in ogni momento intorno al tempo del suo pulsare, manipola l’aria e le geometrie invisibili. Il corpo incide lo spazio in un luogo ma la sua pulsazione riverbera altrove: le conseguenze del gesto sono sempre altrove, come se il corpo anticipasse e poi seguisse il movimento. Un prima e un dopo che si risolvono in una corporeità diffusa, in una irradiazione..
A.R.: Questa prospettiva, il piano di sensibilità e sottigliezza che la nostra riflessione sta articolando, mi porta a sfiorare questo pensiero pericoloso, che riguarda la parte infinitesimale della luce, le sue minime variazioni – ma ogni minimo della variazione è un cambio di tono, temperatura, volume: il senso delle cose. Esistere per la variazione. Esistere nella variazione. Queste microvariazioni sono la texture necessaria sulla quale si compone la macrovariazione; tuttavia ciò che accade, il segno della variazione, si dà sul piano impercettibile. Il lavoro che ho fatto sulla cromia di Bird’s Eye View (2011) segue esattamente questo principio ma anche, con sfumature cromatiche diverse, tale logica è presente anche in Elogio de la Folia (2013). In questo lavoro, per lo spazio che la luce disegna, vale lo stesso principio regolatore: la luce, spostandosi secondo variazioni impercettibili, apre contrade di spazio inattese, paesaggi che sono lì al fianco delle cose. Una micro-luce può aprire spazi infiniti, così come una luce piena contrae la profondità geometrica in una porzione di spazio ristretta…come un movimento che va a buio all’infinito e che, inevitabilmente, inscrive nella tua memoria la traccia del corpo che è passato prima da lì…ecco l’impressione retinica…
Video Elogio de la Folia (2013)
E.P.: …parli qui di un’epifania degli stati intermedi in cui la materia del corpo, dei suoni e della luce transita attraverso l’esplorazione di diversi gradi d’intensità: bagliori, scintillii, effetti evanescenti. Il colore in questo quadro di riflessione è determinante. In scena, la forma e il colore pongono un problema di visione, la interrogano9. D’altronde il teatro è il luogo della visione. La questione è, semmai, cosa si vede a teatro: l’epifania degli enti potrebbe essere la risposta. Si tratta qui di esplorare la geografia delle nostre facoltà percettive implicite…
A.R.: …il colore è un vero problema. Molti degli spazi di lavoro in cui dobbiamo operare hanno coloro analoghi. Dunque questo potrebbe essere un vincolo. Devo perciò pensare che ogni spazio nasconde il suo colore, così come ogni cosa il suo sapore. Il colore è qualcosa che ha a che vedere con il lato interno di una piega, con la curvatura di un pensiero…devo intercettare il colore del luogo in cui mi trovo, entrare in sintonia con questo. Capire quale tonalità cromatica, quale saturazione in quel colore produce la reazione percettiva che sto cercando. Questo perché il colore in sé – per sua natura – è la lettura di un’onda con una frequenza che gli è propria e che, questo è essenziale, stimola i nostri sensi in maniera più o meno (in senso qualitativo) articolata. Il pensiero del colore già produce una risposta sul piano della sensazione. Transitare tra le sue forme e tra le figure che esso disegna: assecondare la cromia delle cose. Un corpo deve sentirsi accolto dalla luce, vive con essa un’esperienza d’incontro, di connessione; per Orphans (2011), con Simona, ho proprio cercato di aderire a questo principio.
S.B.: Seguendo il filo della riflessione, la composizione del movimento, nella mia visione della coreografia, avviene proprio per temperamento: un misto di temperatura ed equilibrio dinamico tra elementi, un’inabissarsi nella dimensione tattile delle cose. Ogni transito, ogni stato di corpo è il prodotto di un sentire diffuso, di una percezione dilatata, in cui l’anatomia si ricompone ogni volta diversa, secondo traiettorie diverse. Un corpo passa nelle fasi del giorno e il suo gesto sarà sempre una variante, una sfumatura. È in gioco il divenire del corpo, come nel mio Terrestre(2008). L’aria cambia, il corpo riflette la luce e modifica le cose. Sentire il corpo, ciò che intorno a lui vibra. Temperamento è il colore dell’azione quando compongo, una forma di tattilità. Tale principio ha preso corpo nel mio solo Bird’s Eye View (2011) o – sotto diverse forme – nei lavori in duo come Atlas (2013/14) o in Elogio de la “folia” (2013). Come dico spesso, quelle parti del corpo che sono in gioco, le loro articolazioni, non “sentono più il caldo e il freddo” del loro farsi aggregazione di anatomia e materia spaziale, non partecipano più all’organizzazione del gesto corporeo nella sua complessità dell’essere al contempo fisicità e materia per la visione. In questo senso l’agire perde di tattilità, il movimento che si ottiene è “generico”, prevedibile e perentorio, poiché colorato solo nella sua periferia e finalizzato alla volontà di prendere una determinata forma. E’ un movimento sordo, privo della necessità di essere forte e fragile al contempo, di essere “nell’incavo, nell’alzata, nell’inflessione, nell’inclinazione” e di fare del corpo un essere “toccante, fragile, sempre cangiante che trema di essere […]”10.
A.R.: Proprio in questo senso, il suono in scena è altrettanto determinante. Il mio rapporto con la musica è empatico. Anche qui si tratta ditemperare le scie che questi corpi – sonoro e luminoso – tracciano nello spazio. Anche il suono gioca con la percezione instabile delle cose, c’è ma non lo vedi, lo avverti, e non sempre. Ma incide sul corpo e la tocca…
S.B.: …mi interessa il risuonare del corpo in movimento. Creo senza partiture sonore iniziali perché mi interessa che i corpi risuonino. Il suono è quello del corpo, prima di tutto. Geometrie diverse dell’anatomia suonano in modo diverso.
E poi c’è il suono esterno, quello che tocca i corpi con le sue frequenze, con la sua materia, produce volume, distorsioni dello spazio: un’atmosfera che è la maglia delle cose, un campo energetico da attraversare.
E.P.: Ho un’immagine – un tocco – per denotare l’orizzonte che abbiamo qui desegnato: l’Haiku. Fermare il tempo del gesto in un haiku significa portare l’attenzione sulla sintesi che illumina il gesto e le sue relazioni in geometrie fulminee del senso e della memoria. Così ogni haiku risulta da un processo di concentrazione dell’attenzione su un evento o su un insieme – limitato – di eventi, ma, nel contempo, da un simultaneo processo di rarefazione degli eventi esclusi dalla concentrazione.
E questo gesto del tralasciare è, in realtà, un fare il vuoto intorno al particolare, andare in profondità scavando ossessivamente nelle sue maglie. Emerge da questa prospettiva un vero e proprio gusto per il dettaglio, per la composizione di una geografia della vicinanza e della superficie delle cose; superficie che qui non è altro che pelle, tratto del volto, incrinatura del sorriso e ancora bagliori, cromie inattese, figure acustiche. Un gusto leggero tra tutte le cose leggere, un’inclinazione verso una forma di tattilità che non si esaurisce soltanto nella prossimità e nel contatto fisico, ma si libera alla dimensione aptica dello sguardo ravvicinato. Essa si inabissa in questa geografia minima dei corpi e delle cose, per restituirci un corpo infinito che, letteralmente, non può essere esaurito ma che deve essere avvicinato e percorso.
Simona Bertozzi. Coreografa, danzatrice e performer, vive a Bologna, dove si laurea in Dams. Dopo studi di ginnastica artistica e danza classica, approfondisce la sua formazione in danza contemporanea tra Italia, Francia, Spagna, Belgio e Inghilterra e lavora, tra gli altri, con Tòmas Aragay (Societat Doctor Alonso-Spagna) e Compagnia Virgilio Sieni. Dal 2004 è impegnata in un percorso autoriale e di ricerca coreografica. Nel 2007 vince il concorso coreografico GD’A ed è la coreografa italiana selezionata per il festival Aerowaves, The Place Theatre. Londra. Prende parte al progetto internazionale Choreoroam, sostenuto da British Council/The Place, Dansateliers/Rotterdam e Bassano Opera Festival. Con Terrestre, produzione del 2008, vince il bando Residenza Fondo Fare Anticorpi, in collaborazione con react!, Residenze Artistiche Transdisciplinari. Con il collettivo Gemelli Kessler (Simona Bertozzi, Marcello Briguglio, Celeste Taliani) vince il premio “migliore opera indipendente” al concorso Il Coreografo Elettronico 2009 con il lavoro di video danza Terrestre-movement in still life. Presenta i suoi lavori in numerosi festival in Italia e all’estero tra cui: Aerowaves, Romaeuropa, Santarcangelo, B-Motion, Interplay, Aperto Festival, Dance Week Festival Zagreb, The Turning World London, The Point Theatre-Eastleigh, Dance a Lille, Tanec Praha Festival, Festival de là Citè Lausanne, Correios em Movimento e Danca Em Transito di Rio de Janeiro, Masdanza Gran Canaria e Masdanza Extension (Tenerife, Lanzatote…), Intradance Mosca.
Dal 2009 al 2012 realizza il progetto Homo Ludens, quattro episodi danzati sull’ontologia del gioco, in cui si avvale della presenza di numerose collaborazioni artistiche tra cui: il musicista Egle Sommacal, il Collettivo Gemelli Kessler, Lila Dance Company e The Point Theatre di Estleigh, Accademia Bizantina di Ravenna. Elogio de La Folia su musiche di Arcangelo Corelli, Atlas (duetto) e Orphans sono i progetti in fieri per il 2013-2014. In qualità di performer collabora con Laminarie Teatro, Fortebraccio Teatro, Cristina Rizzo, Virgilio Sieni. Dal 2004 ha condotto dei laboratori di formazione in danza contemporanea rivolti agli studenti del Dipartimento di Musica e Spettacolo (DAMS) Università degli Studi di Bologna, in collaborazione con la Prof Eugenia Casini Ropa e nel 2012 con la Prof Elena Cervellati. Nel 2013 vince il bando per le docenze esterne nell’ambito del progetto triennale di Discipline Coreutiche Tecnico-compositive indetto dall’Accademia Nazionale di Danza. Collabora con diverse riviste di arti performative, cinema e scrittura contemporanea tra cui Art’O, Rifrazioni, dal cinema all’oltre e RIVISTA.
Enrico Pitozzi insegna “Forme della scena multimediale” presso il Dipartimento delle Arti visive, performative e mediali dell’Università di Bologna. È stato visiting professor presso la Faculté des Arts de l’Université du Québec à Montréal, UQAM e visiting lecturer presso l’Université Sorbonne Nouvelle – Paris III nel programma europeo Teaching Staff Training 2013. Tiene seminari e conferenze presso diverse Istituzioni e Università in Canada, Brasile, Europa. È membro del progetto di ricerca “Performativité et effets de présence” dell’UQAM diretto da Josette Fèral e Louise Poissantoltre che del MeLa research group dello IUAV di Venezia. È vice-caporedattore della rivista di arti performative Art’O, membro della redazione di “Culture Teatrali” e del comitato scientifico delle riviste “Antropologia e Teatro” e della brasiliana “Moringa” e ha scritto testi alla scena europea, del Québec e del Giappone. Ha partecipato al seminario interno alla 37° Biennale del Teatro di Venezia 2005 diretta da Romeo Castellucci. Ha partecipato nel maggio 2013 – in qualità di docente – al progetto Biennale danza College della Biennale di Venezia, Settore Danza, diretto da Virgilio Sieni. Tra le pubblicazioni ricordiamo A. Sacchi, Itinera. Trajectoires de la forme Tragedia Endogonidia, Arles, Actes Sud, 2008; De la constitution du corps de synthèse sur la scène performative: perception et technologies, in R. Bourassa, L. Poissant, (dir.), Personnage virtuel et corps performatif : effets de présence, Ste-Foy, Presses de l’Université du Québec, 2013; Perception et sismographie de la présence, in J. Féral (dir.), Le réel à l’épreuve des technologies, Rennes, Presses de l’Université de Rennes, 2013 ; On presence, in « Culture Teatrali », n. 21, 2012; Lavora attualmente alla monografia Sismografie della presenza. Corpo, scena, dispositivi tecnologici, Firenze, La Casa Usher, (Autunno 2014); Spectra, Bologna, CLUEB, (Estate 2014) e a Bodysoundscape. Perception, movement and audiovisual in contemporary dance, in Yael Kaduri (dir.), The Oxford Handbook of Music, Sound and Image in the Fine Arts, Oxford, Oxford University Press, ( autunno 2014).
Antonio Rinaldi si diploma in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Ravenna nel febbraio del 2007. Lavora nel 2004 e nel 2005 come “guida” per i laboratori della non-scuola del Teatro delle Albe di Ravenna. Dal 2004 al 2006 lavora con la compagnia teatrale ravennate Fanny&Alexander come direttore tecnico, realizzatore scene e scenografo delle produzioni. Dal 2007 inizia un percorso autoriale fatto di progetti autonomi e collaborazioni con diversi artisti e compagnie tra le quali gruppo nanou, NNChalance, Michela Minguzzi, Jacopo Lanteri, Simona Bertozzi, Alessandro Sciarroni e Federico Fiorini. Nel 2010 la collaborazione con Jacopo Lanteri porta in scena a Dro, a Bassano e a Ravenna il Progetto Remix dedicato ai tre festival che nascono e operano nelle tre città: Drodesera, Bassano Opera Estate e Ammutinamenti. Dal 2013 inizia la collaborazione con il creativo Tommaso Morgantini.
.
1 D. Howes, C. Classen, Ways of Sensing: Understanding the Senses in Society. London, Routledge, 2014. Cfr., D. Howes (a cura di), The Sixth Sense Reader, Oxford and New York, Berg, 2009. J. Derrida, Le Toucher, Paris, Galilée, 2001.
2 E. Pitozzi (a cura di), On presence, numero monografico di “Culture Teatrali”, n. 21, 2012.
3 G. Böhme, Atmosphäre: Essays zur neuen Ästhetik, Frankfurt am Main, 1995 e T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Roma-Bari, Laterza, 2010.
4 M. Zambrano, Claors del bosque, Barcelona, Seix Barral, 1977.
5 N. Scheper-Hughes, M. Lock The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology, in “Medical Anthropology Quarterly”, (1), 1987, pp. 6-41.
6 D. LeBreton, Les passions ordinaires : Anthropologie des émotions, Paris, Payot, 2004.
7 E. Pitozzi, L’impermanente trasparenza del tempo. Per un’estetica dell’effimero. Conversazione con Christine Buci-Glucksmann, in “Art’O”, n° 20, primavera 2006. Cfr. C. Buci-Glucksmann, Esthétique de l’éphémère, Paris, Galilée, 2003.
8 F. Héritier, Le Sel de la vie : Lettre à un ami, Paris, Odile Jacob, 2012 e Ibid., Le goût des mots, Paris, Odile Jacob, 2013.
9 J. Itten, Kunst der Farbe: Subjektives Erleben und objektives Erkennen als Wege zur Kunst, Freiburg, Christophorus Verlag, 1993.
10 J-L. Nancy, 58 indices sur le corps et Extension de l’âme, Montréal, Nota Bene, 2005.