L’archive n’est pas non plus ce qui recueille la poussière
des énoncés redevenus inertes et permet
le miracle éventuel de leur résurrection;
c’est ce qui définit le mode d’actualité de l’énonché-chose;
c’est le systeme de son fonctionnement.1
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Cosa vuol dire costruire un Palazzo Enciclopedico nel tempo della crisi e delle rivolte? Quali sono i saperi che possono essere riscoperti attraverso un viaggio tra le meraviglie e le curiosità del passato? Queste sembrano essere le domande che molte soggettività artistiche, individuali e collettive, si sono poste nel creare per la Biennale di Venezia 2013. Il Padiglione Centrale e parte dell’Arsenale racchiudono il lavoro di Massimiliano Gioni, che scrive nel catalogo
A dispetto del titolo, il Palazzo Enciclopedico non ha ambizioni universalistiche: l’enciclopedia che invoca non è quella di Diderot ma piuttosto l’enciclopedismo barocco e, ancora prima, quello medioevale, in cui magia, miti, tradizioni e credenze.religiose contavano almeno quanto l’osservazione diretta della realtà.2
Nonostante le intenzioni del curatore, spesso si ha la sensazione opposta rispetto a quanto viene dichiarato. L’esposizione, anche se cerca di sfuggire ad un modello razionalistico di stampo illuministico, preferendo una logica del frammento ad un’unità sistematica (per dirla à la Adorno3), presenta l’alterità depotenziandola. Tutto ciò che non rientra nei canoni dell’occidentale razionale è reso inerme per il suo essere messo in mostra e si ha spesso l’impressione che l’eccezionalità di questi frammenti, che comunque sono avvicinati l’uno all’altro senza l’obiettivo di una sistematizzazione universale e totale, si spengano nel vortice di una serie di bizzarie da ammirare stupefatti. In questo senso l’esposizione di Gioni sembra essere davvero una Wunderkammer dal retrogusto colonialista, nella quale possiamo trovare disegni di sciamani come se fossimo al Quai Branly e non alla Biennale, i tarocchi di Alister Crowley e opere di chi Michel Foucault avrebbe definito anormaux4, il tutto in un’atmosfera di normalizzazione e di silenziamento. Se da una parte quindi si ha l’impressione di ritrovarsi davanti ad una collezione dettata da un’accumulazione frenetica, dall’altra troviamo soluzioni interessanti e intelligenti, capaci di condurre lo sguardo proprio verso quel sistema di accumulazione che cadendo su sé stesso e continuando a cercare di rialzarsi ha portato alla crisi mondiale, che non sembra trovare ancora una via di uscita. Ci concentreremo dunque su cinque padiglioni, (Grecia, Russia, Giappone, Venezuela e Turchia) che a nostro avviso, rappresentano delle voci enciclopediche anticrisi.
Nel padiglione della Grecia, dopo l’edizione del 2011 che ha visto l’opera di Diohandi Beyond Reform con una passerella sull’acqua che sembrava gridare “non ci è rimasto altro”, Stefan Tsivopoulos con History Zero recupera dall’archivio della memoria collettiva altri sistemi di scambio e denaro per poi mostrare come vite diverse siano collegate e si influenzino reciprocamente. Il padiglione è strutturato in due parti: inizialmente troviamo esposti e illustrati trentadue modi alternativi di scambio non basati sulla moneta.
Questo archivio, come scrive il curatore, si pone come un’affermazione politica che mette in discussione il potere omologante di un’unica valuta, cercando di far emergere le diverse possibilità che si sono date in differenti spazi culturali e temporali. Ne risulta una voce enciclopedica che attraverso la frammentarietà e l’emersione della differenza mette davvero in crisi l’idea che il sistema attuale sia eterno ed immutabile, facendo invece scorgere delle linee di fuga possibili e praticabili. Dietro a delle tende blu scuro, troviamo proiettati in tre stanze differenti tre corti legati tra loro in maniera circolare. Il primo mostra un migrante ad Atene che cerca tra i rifiuti con un carrello di un supermercato degli oggetti di ferro da rivendere, aggirandosi in una città immobile e silenziosa. Ogni ferraglia che viene scoperta tra i sacchi di immondizia sembra illuminarsi come uno scrigno contenete un tesoro e mentre albeggia il protagonista trova davvero un capitale: un sacco contenente origami a forma di fiori fatti con banconote da 500 euro. Una volta trovati i soldi abbandona il carrello in strada. Viene ritrovato da un artista tedesco, ad Atene per trovare ispirazione, che ne fa un’opera d’arte, venduta ad una collezionista malata di Alzheimer, la fautrice dei fiori di euro. I tre protagonisti non si incontrano mai ma vengono messi in relazione attraverso degli oggetti che circolando aumentano o diminuiscono di valore: è così che il carrello di ferraglia da rivendere diventa opera e delle banconote diventano origami. È evidente che nel lavoro di Tsivopoulos sia centrale la riflessione sul valore sia per quanto riguarda gli oggetti sia per la moneta in generale, mezzo simbolico che ha valore solo nel momento in cui è inserito in un sistema di referenza e che ridiventa, nel tempo della crisi, ciò che è effettivamente, carta o metallo. Le tre vite dei protagonisti, nonostante siano completamente differenti e nonostante non vi sia mai un contatto tra loro, se non mediato, vengono ad intrecciarsi in un momento che rappresenta, come dice l’artista, un point zero, quasi un’origine di un piano cartesiano. In questo senso quindi si spiega il titolo dell’opera e la proposta dell’artista: con History Zero non si intende ritornare ad un assetto originario ma ripartire dal punto di incontro tra diversi modi di intendere gli oggetti ed il loro valore, pensando e riconsiderando le fratture che hanno causato queste diverse concezioni del valore.
Sempre nei Giardini, troviamo il padiglione della Russia, curato per il suo centenario da Udo Kittelmann. Per questa edizione l’artista concettuale di Mosca, Vadim Zakharov, ha creato Danaë, riarticolando e riutilizzando il mito greco che narra della congiunzione tra la figlia di Acrisio e Zeus. Nella prima stanza, nella quale leggiamo la scritta Gentleman, time has come to confess our Rudeness, Lust, Narcissism, Demagoguery, Falsehood, Banality and… un attore in giacca e cravatta mangia delle arachidi dall’alto di una trave, sulla quale è seduto con una sella, lasciando cadere i resti a terra. Metaforicamente sta sgranocchiando dei capitali persi, che nello slang dei brokers, altro non sono se non just peanuts. Nella stanza successiva invece è stato praticato un foro nel pavimento, circondato da un inginocchiatoio e dall’alto vengono fatte cadere delle monetine, coniate dall’artista. Su ognuna di queste monete è rappresentata da una parte Danae mentre concepisce il figlio di Zeus mentre dall’altra si legge Trust, Unity, Freedom, Love e la frase The artist guarantees the value with his honour. Nella terza stanza un secondo attore, sempre in giacca e cravatta, alimenta la macchina che genera questa cascata dorata. Sempre in questo spazio si legge la continuazione della frase iniziata nella prima stanza: …and Greed, Cynicism, Robbery, Speculation, Wastefulness, Gluttony, Seduction, Envy and Stupidity. Il denaro sembra avere una dimensione liquida: segue il ciclo dell’acqua cadendo come pioggia e viene rimesso in circolo con un secchio. Nella parte inferiore del padiglione l’accesso è riservato esclusivamente alle donne. Solo loro infatti possono prendere un ombrello e raccogliere le monete per poi riporle nel secchio e metterle nuovamente in circolazione. Il fine di Zakharov è chiaro: costringendo i gentlemen ad inginocchiarsi davanti al denaro cerca di mostrare gli attributi divini del capitalismo, che già Benjamin aveva evidenziato nel frammento Capitalismo come religione.5
Vadim Zakharov, Danaë, particolare, Padiglione Russia, Biennale Arte Venezia 2013, foto di Daniel Zakharov, courtesy of the artist.
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Vadim Zakharov, Danaë, particolare, Padiglione Russia, Biennale Arte Venezia 2013, foto di Daniel Zakharov, courtesy of the artist.
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Si critica quindi un mondo di brokers impazziti, egoisti e cinici, lussuriosi e invidiosi adoranti in ginocchio una cascata di monetine d’oro. La divisione in maschile e femminile suscita però qualche perplessità. Nonostante l’artista dichiari che l’accesso interdetto agli uomini nella parte inferiore non sia da considerarsi sessismo, agiscono comunque nella concezione dell’opera degli stereotipi di genere. La salvezza dal capitale, attraverso l’interruzione del flusso delle monete, è affidata al femminile, che come sempre, è costretto ad essere legato alla maternità e ad una dimensione di purezza. Il mito, secondo Zakharov, è costruito in maniera anatomica e ciò che è maschile può solo cadere dall’alto verso il basso, dove appunto colloca una sorta di cava tranquilla e sicura rappresentante quasi un ventre materno. Questa costruzione dicotomica rigida, basata su di una differenza di generi equivalente alla differenza sessuale, se poteva funzionare in Grecia, ora risulta essere decisamente troppo banale e anacronistica.
Nello spazio giapponese si riscopre invece il valore dell’atto collettivo in un momento di precarietà come può essere il terremoto che ha scosso il Giappone. Con abstractspeaking l’artista Koki Tanaka mostra l’agire in comune nei momenti di difficoltà. Troviamo infatti fotografie come precarious tasks#1 swinging a flash light while we walk at night o come precarious tasks#4 sharing dreams with others, and then making a collective story che mostrano come l’esperienza del disastro riunisca le persone e le leghi l’una all’altra. Questa ricerca sull’interazione umana evidenzia, ancora una volta come una piccola voce enciclopedica, l’importanza degli atti collettivi che, seppur precari, sono la basa di tutte le ricostruzioni.
Con il padiglione del Venezuela invece i writers di Caracas si riappropriano degli slums e dei muri della capitale, portandoli con vivacità ed entusiasmo anche a Venezia al grido di Los capitalistas dominan los medios pero las calles son nuestras!. Da una musealità statica e convenzionale, si passa con l’installazione venezuelana ad una concezione di esposizione che si espande, pervade le strade e diventa mobile. All’ingresso si è accolti dal El Libertador, il rivoluzionario Simon Bolivar, in una versione molto hipster, che sembra osservare vigile il movimento degli artisti e delle loro opere tra le strade ed i muri della città. Tutte le opere che sono proiettate o che sono presenti nel padiglione sono opera di collettivi o di artisti che si firmano con delle semplici tags. Per questo motivo in un certo qual modo il Giappone ed il Venezuela sembrano essere vicini in questa Biennale: entrambe le proposte danno spazio particolarmente ad atti collettivi e non individuali, come se il creare in comune possa essere davvero una risposta efficace alla crisi che colpisce tutti, anche se in maniera differenziata.
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Murales all’ingresso del padiglione venezuelano. Biennale Arte Venezia 2013.
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Padiglione Venezuela, particolare. Biennale Arte Venezia 2013.
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L’ultima resistenza enciclopedica che analizzeremo è costituita dal padiglione della Turchia, all’Arsenale. L’artista Ali Kazma, si dedica alla riflessione sul concetto di resistenza, pensando al corpo come primo elemento messo in gioco. Analizzato soprattutto nel contesto urbano, il corpo è considerato come una piattaforma sulla quale vengono iscritte la peculiarità culturali di ogni individuo. Nei filmati che vediamo proiettati, la tematica della corporeità è scomposta in tre livelli. Vi sono infatti dei filmati che sono dedicati in particolar modo alla pelle, prima parte visibile del corpo, altri che prendono in analisi la meccanicità dei muscoli e degli organi ed altri ancora che invece analizzano il contesto e le architetture, come le scuole e le prigioni, all’interno delle quali il corpo vive e viene disciplinato. È evidente l’influenza del lavoro di Michel Foucault: si pensi ad esempio al libro Sorvegliare e Punire e ai corsi sul tema della biopolitica. A questa voce quindi non troviamo solo un sapere sulla corporeità ma anche una riflessione su quello che è lo spazio all’interno della quale questa è inserita. Nella brochure di presentazione della Biennale di Istanbul leggiamo che, dopo la crisi scoppiata nel 2008 e con il crescere del discontento per i regimi esistenti, e la frustrazione per la loro governance e la loro ideologia, sono proprio gli spazi urbani ad essere diventati il centro ed il palcoscenico dell’espressione del conflitto. È inutile dire che l’argomento è quanto mai attuale per quanto riguarda la Turchia ed il padiglione, aprendosi davvero come spazio pubblico si è lasciato attraversare con entusiasmo da parte dell’artista da espressioni di sostegno nei confronti del movimento #occupygezi, come è accaduto per esempio il 13 luglio.
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Manifestazione in sostegno di #occupygezi del 13 giugno 2013, Padiglione Turchia, Venezia, courtesy of Global Project.
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Per concludere, l’impressione che resta è che vi sia da una parte un Padiglione Centrale che, nonostante gli obiettivi posti, rischia di essere interpretato e di cadere in un enciclopedismo razionalistico, anche se truccato da ermetismo e occultismo. Dall’altra invece cinque padiglioni, definibili con Derrida geniali6 per il loro essere rottura, che nella loro marginalità, parzialità ed essere atti politici portano alla luce delle visioni differenti, dimostrandoci con la loro esistenza, la possibilità di enunciati alternativi e facendo vedere che anche in un Palazzo Enciclopedico possono esistere (e resistere) piccoli saperi controcorrente.
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1 M. Foucault, L’archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969, p.171.
2 M. Gioni, Il Palazzo Enciclopedico, in M. Gioni (a cura di), Il Palazzo Enciclopedico, Venezia, Marsilio, 2013, p.28.
3 cfr. T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 2010 e T. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004.
4 M. Foucault, Les anormaux, Paris, Gallimard, 1999.
5 W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p.284. «Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni.»
6 cfr. J. Derrida, Genèses, généalogies, genres et le génie : les secrets de l’archive, Paris, Galilée, 2003.
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Clara Mogno nasce a Padova nel 1989. È laureata in Filosofia e si sta specializzando in Scienze Filosofiche a Padova, con una tesi di filosofia politica sulla teoria dell’immaginazione in Hobbes ed il ruolo dei frontespizi nella lettura del pensiero hobbesiano. I suoi interessi principali sono orientati verso lo studio del pensiero di Michel Foucault, i gender studies ed il rapporto tra visual studies e storia della filosofia politica.