Un padiglione apparentemente vuoto. Un grande spazio dalle pareti dipinte di un bianco spiazzante per quanto è immacolato. Cinque persone, uomini e donne, vanno contro la parete del padiglione, si accostano a essa, le stanno addosso, con la testa dritta e le braccia stese lungo il corpo, dando le spalle a qualcun altro, che come me, li osserva. Tra una persona e l’altra rimane lo stesso spazio che potrebbe occupare un altro corpo, e pian piano ognuno di loro si sposta, e nuovamente si accosta alla parete, rimane immobile fissandola. E continuano così, una persona dopo l’altra, finché non avranno percorso, appoggiandosi, tutte e quattro le parteti che delimitano questo spazio. In questo modo, questi corpi hanno dipinto a strisce la superficie dell’edificio, simulando così l’allestimento di un padiglione realizzato qualche anno fa, in occasione di un’edizione passata della Biennale di Venezia. Terminata l’azione queste cinque persone si ridispongono, cambiano posizione e uno di loro annuncia il prossimo evento, la prossima performance. Li vedi dirigersi verso l’uscita e rimanere lì, tutti in piedi dritti uno accanto all’altro, immobili, posti davanti alla porta d’ingresso del padiglione. I performer iniziano così a mettere in scena l’opera Wall enclosing a space di Santiago Sierra, presentata al padiglione spagnolo in occasione della 50th Biennale di Venezia del 2003. Un muro che chiudeva uno spazio, era questa l’opera di Sierra, una parete di mattoni innalzata dal pavimento al soffitto che limitava l’accesso al padiglione spagnolo, che lo consentiva anzi, soltanto a chi esibiva un documento che ne attestasse la cittadinanza spagnola. Allo stesso modo i performer rappresentavano quel muro, erigendosi davanti la porta d’ingresso del padiglione e limitandone ugualmente l’accesso.
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Quotation of “Wall Enclosing a Space”, intervention by Santiago Sierra, Spanish Pavilion, 50th International Art Exhibition: Dreams and Conflicts. The Dictatorship of the Viewer, 2003
photo credits: Eduard Constantin
È il padiglione della Romania, ai giardini di Venezia, che in questa edizione della Biennale presenta An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, un’opera degli artisti Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş. L’intento è appunto quello di costruire una retrospettiva della manifestazione veneziana, creando una narrazione soggettiva della Biennale e presentando la sua storia attraverso un succedersi di performance, non in modo cronologico e nemmeno in modo gerarchico. La retrospettiva viene ricreata e messa in scena ogni giorno da cinque performer, in un’azione continua, in cui le opere si susseguono una dietro l’altra come in una sequenza, collegandosi e completandosi l’una con l’altra. Dopo un’attenta ricerca tra cataloghi e archivi i due artisti hanno selezionato un centinaio di opere presentate nelle varie edizioni della Biennale di Venezia, dalla prima mostra avvenuta nel 1985 sino all’ultima edizione del 2011. Sono state scelte delle opere iconiche e lavori emblematici della storia dell’arte moderna e contemporanea, sia di artisti del mainstream occidentale che di artisti poco noti o addirittura sconosciuti. Dipinti o installazioni, molte sculture, ma anche manifesti affissi fuori dalle sedi espositive, canzoni popolari o eventi collaterali. Le opere e gli eventi della storia della più autorevole esposizione mondiale di arte contemporanea vengono portate in vita, messe in movimento attraverso le azioni dei performer. Vengono citate, reinterpretate, messe in scena. Ogni opera viene destrutturata e ricondotta alla sua idea e forma primordiale, viene descritta con dei gesti che si intersecano, flettendo i corpi, curvando le braccia e le ginocchia, evocate da una parola, un urlo o un sorriso.
An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale si configura come un monumento effimero alla Biennale.1 Da un lato vi è una critica del suo eurocentrismo, delle esposizioni basate sul di mero conservatorismo ostentazioni di potere e lusso, ma allo stesso tempo è anche una celebrazione della sua apertura per le sperimentazioni da parte degli artisti, della coesistenza in questa manifestazione di diversi generi, tendenze e media che l’arte nel tempo ha utilizzato o rappresentato. Tante opere, diverse esperienze, hanno trovato la loro strada per la loro collocazione nella Biennale di Venezia. E nell’edizione che affronta il tema complesso della costruzione di un palazzo enciclopedico, Pirici e Pelmuş decidono di indagare sull’immensità della produzione di questa manifestazione e realizzarne una retrospettiva che, generalmente si sa, è una impresa grandiosa e approfondita. Il loro progetto scruta la Biennale con uno sguardo intelligente, allude alla vastità della sua produzione e la rende accessibile, con un approccio serio ma leggero al tempo stesso, perché diviene un’esperienza estremamente ludica che ci offre un grande esercizio di immaginazione. È provocatorio, radicale. È un tentativo di archiviazione al tempo stesso rivolto contro il peso dell’archivio, delle etichette e delle chiavi di lettura che esso comporta. Mette in discussione la museificazione dell’arte ed evidenzia che l’arte non consiste esclusivamente di oggetti chiusi, composti di mera materia, ma esiste nelle nostre menti e nei nostri corpi, lascia delle tracce e può assumere altre forme e altre strutture. Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş creano un’attualizzazione della storia della Biennale di Venezia, portando il monumentale nell’immateriale, trasformando l’oggetto d’arte in azione. Mettono in atto una decostruzione del concetto di glorificazione che si cela in ogni operazione volta a costruire una retrospettiva, lontana dal sovraccarico retorico che appesantisce la storia, pur rimanendo un monumento. Ne danno una visione riprogrammata, illustrano la storia della Biennale incorporando il fare artistico con il sociale e il politico. Ciò che ne risulta è un monumento effimero e immateriale, perché non presenta oggetti in sé, ma rappresenta il lavoro artistico nella materialità dei corpi, nella sua dimensione umana, perchè è proprio il corpo umano che, in queste performance, riproduce di continuo la monumentalità della Biennale di Venezia. E anche se priva di oggetti, la mostra è lì, dentro il suo padiglione, si può vedere, se ne avverte la sua presenza costante. I corpi degli interpreti sono presenti, in tensione, dialogano l’uno con l’altro e sono esposti al pubblico.
Scorrendo la lista delle opere selezionate da Pirici e Pelmuş (lista consultabile nella breve guida del padiglione realizzata online)2 si ritrovano opere che sono state determinanti nella costruzione di una tendenza artistica, opere dal forte contenuto politico, di protesta, denuncia, opere che hanno fatto gridare allo scandalo. Il primo esempio è il dipinto Supreme Meeting di Giacomo Grosso3 esposto in occasione della prima esposizione internazionale d’arte nel 1895. Il dipinto, che raffigurava una bara circondata da cinque figure femminili nude, è rimasto nella storia della prima Biennale proprio per l’interesse che ha suscitato nella stampa e nell’opinione pubblica. L’opera venne considerata indecorosa perché, secondo l’etica dell’epoca, poteva offendere la morale dei visitatori. Il Patriarca di Venezia chiese di non esporre l’opera, la stampa clericale gridò allo scandalo alimentando una polemica che si diffuse anche tramite la stampa estera accrescendo così la curiosità del pubblico.
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Enactment of “Supreme Meeting”,
painting by Giacomo Grosso, 1st International Art Exhibition of the City of Venice, 1895
photo credits: Eduard Constantin
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013.
Enactment of the retrospective of paintings by Amedeo Modigliani, 17th International Biennial Art Exhibition, 1930
photo credits: Eduard Constantin
In An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale trovano spazio i mostri sacri dell’arte contemporanea di inizio Novecento. Possiamo dunque assistere al re-enactment di un quadro di Klimt esposto nel 1910, dei dipinti di Kazimir Malevich o Marc Chagall esposti in occasione delle edizioni della Biennale negli anni ’20, della retrospettiva dedicata alle opere di Amedeo Modigliani nel 1930. La retrospettiva ripercorre la storia. Chiaramente non sono state selezionate opere nei periodi in cui la manifestazione non ha avuto luogo, come ad esempio nel periodo 1916-1918, e dal settembre 1942 a seguito dello scoppio rispettivamente della prima e della seconda guerra mondiale in cui, in entrambi i momenti, si è avuta un’interruzione dell’attività della Biennale.4 L’Esposizione d’Arte riprende nel 1948 ed è curioso costatare come la scelta di Pirici e Pelmuş, tra le opere presentate nel 1948, non ricada sui quei lavori legati a un ritorno all’ordine, che ripropone la centralità della tradizione nel senso classicista della celebrazione aulica, ma piuttosto opere legate all’immaginario che la guerra aveva prodotto. Ad esempio Shock troops advancing under gas del pittore espressionista Otto Dix, un’incisione del 1924 che rappresenta i soldati nelle loro trincee. Alcune opere sono state scelte in quanto esprimevano gli stati d’animo della società dell’epoca, per cui chiaramente nei re-enactments delle opere presentate nell’anno 1968 ritroviamo il legame alle contestazioni politiche e alle vicende del periodo storico. Ad esempio nella riproposizione dell’installazione di David Lamelas The office of information about the vietnam war at three levels: the visual image, text and audio o semplicemente nella simulazione di alcuni slogan di protesta, urlati in occasione di evento parallelo alla Biennale del ’68. Andando avanti si va delineando una Biennale che a volte si configura come un luogo dell’affermazione artistica, altre come uno spazio per rappresentare la mappa della geopolitica del momento, o come luogo di protesta. Percorrendo tutte le edizioni di questa manifestazione troviamo la performance che evoca la nota opera di Joseph Beuys, Tramstop, proposta all’interno del padiglione tedesco nella Biennale del 1976; dei corpi distesi che simulano il tappeto di piccole liquirizie a forma di missili di Félix González-Torres installati nel pavimento del padiglione degli Stati Uniti nel 2007; delle voci ripropongono la performance This is so contemporary di Tino Seghal, realizzata quando l’artista ha rappresentato la Germania alla Biennale del 2005. È così contemporanea questa retrospettiva della Biennale di Venezia, ed è così evidente la similitudine fra quest’opera e il lavoro di Sehgal che è allo stesso modo fortemente immateriale e performativo, volto a costruire delle situazioni piuttosto che produrre degli oggetti. Nel padiglione della Romania troviamo allo stesso modo delle sculture viventi, dei gesti che compongono l’opera legati a un sapere che deve essere tramandato, non racchiuso, imbalsamato e trascritto. Pirici e Pelmuş utilizzando lo stesso dispositivo di Sehgal, concentrandosi anch’essi sull’eccezionalità dell’esperienza diretta e fisica dell’arte.
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Enactment of “Tramstop.
A Monument to the Future”, installation by Joseph Beuys, German Pavilion, 37th edition, La Biennale di Venezia 1976
photo credits: Eduard Constantin
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Enactment of “Untitled (Public Opinion)”,
by Felix Gonzales Torres, U.S. Pavilion, 52nd International Art Exhibition:
Think with the Senses, Feel with the Mind: Art in the Present Tense, 2007
photo credits: Eduard Constantin
In un articolo su An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale la critica teatrale rumena Iulia Popovici afferma che la Romania potrebbe rimanere nella storia della Biennale di Venezia come celebratrice della transitorietà, per tutte le volte che all’interno del padiglione nazionale sono stati presentati progetti effimeri, instabili, provvisori, immateriali appunto.5 Due esempi per tutti sono Dan Perjovschi e Daniel Knorr, entrambi hanno rappresentato la Romania nel padiglione veneziano, entrambi sono stati citati da Pirici e Pelmuş e rimessi in scena nella retrospettiva costruita per la Biennale del 2013. Dan Perjovschi nell’edizione del 1999 presenta rEst, centinaia di piccoli disegni realizzati direttamente sul pavimento del padiglione, disegni che avevano lo scopo di essere calpestati dal visitatore, fatti per essere cancellati. Così come in An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, diviene di centrale importanza il flusso, il progresso, che deve essere continuo e per questo effimero. Anche il progetto rEst di Dan Perjovschi ha una natura temporanea, fragile, anch’esso è focalizzato su un processo di archiviazione del rapporto in costante mutamento tra l’artista e il corpus sociale, politico e culturale.6 È il gesto, il ri-disegnare il ri-produrre nuovamente ciò che è stato in passato all’interno di una cornice istituzionale che li accomuna. Nel 2005 il padiglione rumeno è nuovamente vuoto. Questa volta le pareti sono in uno stato fatiscente, tinte di un grigio scuro e piene di graffi e iscrizioni, recano le tracce degli interventi e delle esposizioni realizzate negli anni precedenti. Daniel Knorr presenta la sua European Influenza, lasciando visibile esclusivamente l’edificio e la storia che lo ha eretto. Andando oltre l’immateriale, il lavoro di Knorr è un lavoro invisibile, che in questo modo viene delegato al pubblico. Questa messa in scena vuole ricreare una situazione che gli spettatori hanno vissuto da qualche altra parte. La materializzazione dell’opera dunque arriva dopo, si concretizza nella mente della gente, nel processo della loro interazione con la società e con i media7. Il lavoro immateriale funziona per Knorr così come per Pirici e Pelmuş. Permette all’opera di infiltrarsi ovunque e di viaggiare con il suo pubblico al di là del luogo e del tempo in cui è stata presentata.
Come afferma la curatrice Raluca Voinea nel testo critico che introduce l’opera di Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş: «as always, art is political even when it disguises itself as a playful art historical comment. in the context of the venice biennale, where art is more important than institutional criticism and hedonism seems to be the dominant attitude, it becomes a real challenge for artists to problematize the conditions of presentation of their works»8. Con quest’operazione Pirici e Pelmuş problematizzano alcuni aspetti legati al contesto istituzionale in cui si trovano. In particolar modo intendono muovere una critica al sistema d’inclusione della Biennale, sul fatto che venga data uguale attenzione alle opere portatrici di valori di identità nazionale o religiosa e alle opere che minano e contestano questi valori, purchè siano degnamente collocate all’interno della splendida cornice veneziana. Ne parla nuovamente la curatrice quando cerca di spiegare cosa vuol dire per un paese come la Romania ospitare nel proprio padiglione nazionale una retrospettiva di tutta la storia della Biennale. «it is an irony addressing the megalomania of many political decision and cultural works in Romania, of yesterday and today; it is a criticism to works the enormous budget which are spent every two years, by everybody for the art’s presentations in Venice and towards the decontextualized settings in which this takes place, irrespective of the economic and political conditions of the contexts where this art originates; and it is not least an homage to the spectators who think that art is nevertheless interesting and who make their own archives of memories from what they see at the Biennale»9.
An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale affronta queste problematiche con un grande approccio ironico, proponendo un modello sperimentale che contesta l’interpretazione egemonica della storia auspicando così a una visione futura che sia meno orientata dal feticismo e l’idolatria verso l’oggetto d’arte.
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Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Enactment of “La situazione antispettiva”, part of “The Blind Pavilion”, installation by Olafur Eliasson, Danish Pavilion, 50th International Art Exhibition:Dreams and Conflicts.
The Dictatorship of the Viewer, 2003
photo credits: Eduard Constantin
Alexandra Pirici and Manuel Pelmuş: An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale, 2013. Enactment of “+ AND -”, installation by Mona Hatoum, 51st International Art Exhibition:Always a Little Further, 2005
photo credits: Eduard Constantin
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1 Press Release. Romanian Pavilion at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia. An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale.
2 Short Guide. Romanian Pavilion at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia. An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale on http://issuu.com/an_immaterial_retrospective/docs/shortguide
3 Il caso Grosso on http://www.labiennale.org/it/arte/storia/grosso.html?back=true
4 La Biennale di Venezia. Dagli inizi alla II Guerra Mondiale on http://www.labiennale.org/it/biennale/storia/bv1.html
5 Iulia Popovici, Arta și forța ei de muncă. Despre a 55-a ediţie a Bienalei de la Veneţia şi proiectul din Pavilionul României. In Observator Cultural. http://www.observatorcultural.ro/*articleID_28713-articles_details.html
6 Judit Angel in DAN PERJOVSCHI “rEST”. ROMANIAN PAVILLON THE 48TH VENICE BIENNALE. (catalogo della mostra) Published by The Romanian Ministry of Culture. Bucharest, 1999.
7 Raluca Voinea. European Influenza. Published in the Autumn issue of Praesens magazine, 2005.
8 Raluca Voinea, One hundred years of history in a day, every day. In Short Guide. Romanian Pavilion at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia. An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale on http://issuu.com/an_immaterial_retrospective/docs/shortguide
9 Ibidem