Prima vi era un paesaggio.
Con il tempo quest’ultimo si è trasformato in una città.
La città è diventata un nuovo paesaggio per dei nuovi inquilini, cemento su cui intervenire attraverso un allontanamento progressivo dal terreno, in alternativa al consumo del suolo, a un’estensione urbana storicamente pensata in orizzontale.
La preesistente città diviene così una nuova base, da usare e “colonizzare”.
Il padiglione della Georgia alla Biennale di Venezia è un esempio di come, nel momento in cui ci si ritrova a occupare uno spazio di rappresentanza nazionale, non ci si limiti solo al prendere posto in uno dei padiglioni già presenti, ma si possa usare questo spazio dato come base e punto di partenza per la costruzione del proprio.
Il padiglione georgiano è infatti un progetto architettonico costruito ex-novo su un vecchio edificio dell’Arsenale, un prolungamento parassita realizzato dall’architetto Giò Sumbadze, prendendo come modello edilizio una struttura piuttosto comune a Tbilisi, una loggia Kamikaze, che ospita le partecipazioni di Bouillon Group, Thea Djordjadze, Nikoloz Lutidze, Gela Patashuri with Ei Arakawa e Sergei Tcherepnin.
La Kamikaze loggia, così come ci spiega il catalogo del padiglione georgiano, è una struttura che racconta dell’estensione disordinata che ha riguardato gli edifici modernisti della città di Tbilisi dal 1990, quando, a seguito della caduta dell’Unione Sovietica, il Paese si ritrovò completamente sprovvisto di leggi, comprese quelle che regolamentavano il controllo edilizio.
Le persone hanno così iniziato a costruire delle altre stanze nelle loro case, o addirittura degli interi appartamenti, chiamate logge, per aumentare lo spazio abitativo e abitabile, utilizzando questi come terrazze, camere per gli ospiti, atelier d’artista. La Kamikaze loggia veniva costruita proprio sulla base dell’edificio esistente, o addossata ad esso, come un prolungamento, una protesi estensiva. Il presente e il futuro si trovavano a usare, per ‘reggersi in piedi’, le radici del proprio passato; e tutto ciò avveniva con l’intenzione non di monumentalizzarlo, ma di usarlo come base solida per la propria crescita.
Questi edifici erano delle costruzioni scadenti che gli stessi residenti mettevano in piedi senza alcuna supervisione architettonica o ingegneristica, che rischiavano di crollare a ogni passo, ogni secondo. Potevano ferire o uccidere coloro che vi erano dentro. Erano degli spazi imprevedibili, instabili, specchio di quegli anni duri che la Georgia stava vivendo.
Il Padiglione georgiano è, a sua volta, una loggia kamikaze. È un progetto dedicato all’adattamento, in periodi in cui le limitazioni ci inducono ad elaborare nuove forme di vita, di sopravvivenza; ai cambiamenti urbani, agli effetti che provocano; agli spazi provvisori di autodeterminazione locale che nascono in risposta alla crisi. La mostra porta avanti il potenziale insito nel senso di precarietà, di fragilità e autosufficienza, è la rappresentazione di un’epoca, uno spazio creato all’interno di un momento particolare.
Stratificazione, riuso, superfetazione, non sono termini nuovi nel vocabolario architettonico. Da sempre gli stili si sono susseguiti, sostituiti e/o mescolati ai precedenti, in una relazione di scambio, di dipendenza, o di predazione.
Anche quando gli edifici originari si conservano e si preservano, le strutture aggiunte a testimonianza dello stile nuovo dell’epoca ne riscrivono le regole, sovvertendo l’ordine spaziale e gerarchico degli elementi, imponendosi nella loro presenza, nella loro estetica e destinazione d’uso.
Quando pensiamo all’architettura, pensiamo comunque a degli edifici che hanno un limite: anche la curatrice del Padiglione della Georgia, Joanna Warsza, si interroga su questo. Dove finisce una casa? Non con le sue mura, il limite non è il tetto, a volte si estende fino al cielo o nel profondo sottosuolo. Le case possono sembrarci diverse a seconda del momento. Quanto è alto il soffitto per un bambino? Quanto è più vicino ora? Questi cambiamenti non si fermano mai. La felicità o la paura rendono ogni stanza più spaziosa o più angusta.
L’architettura è una forma di pensiero, ma spesso ha dei limiti fisici; limiti che sono messi in discussione quando nelle sue linee e nelle sue forme entra il tempo, e la volontà degli uomini. Nel pensiero del limite dell’architettura l’esperienza millenaria della natura si confronta con la storia degli insediamenti umani, di cui la città è una forma secolare1.
I limiti fisici gli uomini li distruggono, prima con l’aspirazione, poi con l’immaginazione e in ultimo con la volontà. L’esistenza di una “loggia” è infatti impossibile senza il coinvolgimento della comunità o senza il suo consenso. La loggia è figlia di un progetto comune, partecipato e condiviso e, per questo, il Padiglione della Georgia è “occupato” da una pluralità di artisti.
Photo: Gio Sumbadze © Gio Sumbadze
Il mio interesse per il Padiglione georgiano, infatti, non si ferma alla sua struttura. Kamikaze Loggia è un progetto complesso e articolato, capace di combinare approcci e forme artistiche differenti (architettura, performance, poesia, suono, installazione), a testimonianza della dinamicità della ricerca artistica in Georgia. Interventi molto diversi tra loro si compongono in un disegno collettivo, in una pratica dello spazio, condivisa da artisti e gruppi di artisti.
Un esempio su tutti è il lavoro del Bouillon Group. La loro performance, Religious Aerobics viene eseguita dal gruppo dal 2011.
L’aerobica è uno sport individuale. Ognuno di noi è impegnato nella ripetizione di una serie di gesti e di movimenti continui e intensi, che aiutano il nostro corpo a scaricare le tensioni, le ansie, raggiungendo la perfezione corporea. Allo stesso tempo l’aerobica diviene un rituale collettivo. Si esegue spesso in gruppo, dando vita a una coreografia coordinata, in cui tutti si muovono a tempo. 1, 2, 3, 4 … Il ripetersi continuo dei gesti rende questi automatici, diventano un motivo. L’impulso di ripetere è tipico di una società della produzione e del consumo seriale.
I gesti che compongono l’esercizio aerobico della performance del Bouillon Group sono presi dalle tre principali religioni monoteiste, l’Islam, il cristianesimo e l’ebraismo: vediamo infatti i performer inginocchiarsi, farsi il segno della croce, portarsi le mani alle orecchie, in una sequenza che mescola e quasi confonde lo spettatore. Tolti dal loro contesto sacro e svuotati del loro significato, questi gesti assumono la forma di semplici mosse, composte in una sequenza ritmica scandita dai comandi “dell’istruttore”: e si consumano, al pari di ogni altro prodotto della nostra società globalizzata. L’esercizio diventa così un montaggio di segni e significanti differenti, che rende il significato arbitrario, privando ogni movimento della sua ritualità sacra e, nella giustapposizione e mescolanza delle tre religioni, compiendo quasi un sacrilegio per ogni fedele che osserva la performance. Eppure il senso di oltraggio non è poi così forte poiché siamo così tanto abituati a compiere questi gesti che sono diventati automatici, così come quando, in maniera altrettanto automatica, in un esercizio di aerobica ripetiamo un movimento.
Quello che vediamo davanti ai nostri occhi non è solo un gruppo di persone sincronizzato, ma è piuttosto una sequenza ibrida, culturalmente e formalmente, di posizioni.
Kamikaze Loggia, Georgian Pavillion
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1 Armando Sichenze, Il limite e la città, Franco Angeli, Milano 1995. Pag. 7