F. Cheval, Le Palais Idéal, Hauterives, facciata ovest
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Il Palazzo Enciclopedico, come aspirazione alla conoscenza totale del mondo, ci costringe a interrogarci, per converso, sulle cesure che attraversano il campo del sapere entro cui ci muoviamo, e sulle finalità che può avere il mantenerle o il superarle. L’ossessione inesausta e sempre frustrata verso la totalità, in cui la ricerca si sostiene sulla meraviglia, sposta inoltre l’attenzione sulle passioni che stimolano la conoscenza: un piano di confronto dove arte e scienza, viste sotto un’angolazione storica, negoziano le loro reciproche posizioni, e non sempre risultano antagoniste. Infine, il metodo della raccolta e dell’esposizione ci induce a considerare il ruolo degli oggetti, i quali nella loro triplice incarnazione di reperto, di merce, di immagine, aprono in definitiva lo spazio alla fantasmagoria. Seguendo queste linee interpretative, il presente lavoro propone una rassegna possibile dei Palazzi Enciclopedici, reali o immaginati: dalla Casa di Salomone di Francis Bacon, Lord Cancelliere d’Inghilterra sotto Giacomo I, al Palais Idéal realizzato dal postino di Hauterives, passando per le Esposizioni universali di epoca vittoriana. E infine, attraverso questa raccolta eteroclita, paradigmatica e necessariamente incompleta, si interroga sul significato di proporre nuovamente, oggi, il tema della Wunderkammer, in relazione allo stato attuale della conoscenza per immagini, fra l’imaging scientifico e la stretta delle forze tettoniche dell’immaginario.
La Casa di Salomone descritta nella Nuova Atlantide da Francis Bacon (1627) e l’Accademia delle scienze immaginata da Wilhelm Leibniz (1675) in quanto unione di fiera, Wunderkammer, giardino, serraglio, laboratorio alchemico, sono esempi di Palazzi Enciclopedici immaginari, ibridazioni di modelli spaziali diversi e per questo tanto più interessanti. Rimasti alla stregua di fantasie utopiche, pur basati sulla fusione di luoghi esistenti, non furono mai realizzati nella loro completezza. Pure, agirono al fondo della storia della cultura occidentale, ispirando a lungo i pensatori successivi.1 Le storiche della scienza Lorraine Daston e Katharine Park individuano in questi modelli, in particolare in quello di Bacone, il manifestarsi di un importante mutamento nel rapporto ontologico fra arte e natura, che caratterizzò il XVII secolo. La forma peculiare dell’enciclopedismo seicentesco si modellava, dal punto di vista spaziale, essenzialmente su un dispositivo di raccolta che aspirava a cogliere l’universalità dell’esistente compendiandola negli oggetti curiosi. Questa forma espositiva, già propria della Wunderkammer, dava forma visibile a un tipo di ordinamento del mondo che sarebbe rientrato nel dominio verbale delle teorizzazioni scientifiche solo in un secondo momento.2 La filosofia naturale del Seicento si plasmava dunque, nelle sue acquisizioni ontologiche ed epistemologiche, su questi modelli di collezionismo. Gli oggetti delle raccolte, provenienti dal mondo della natura, dell’arte e della tecnica, venivano presentati mescolati e giustapposti, in modo da suggerire nel caos creativo una continuità di fondo fra tutti i livelli. Le ragioni filosofiche di questa continuità, secondo Bacone, andavano ricercate proprio negli oggetti più peculiari delle Wunderkammern: le meraviglie, ovvero gli eterocliti, gli ibridi e i mostri che, già noti alla magia naturale, entravano così di diritto nell’ambito colto della filosofia naturale. In quegli oggetti, infatti, la natura forzava capricciosamente le sue stesse leggi, rivelando all’uomo il modo di manipolarle, a sua volta, attraverso la tecnica.
La solidarietà, mediata dalla meraviglia, fra arte, natura e tecnica, si ruppe con l’Illuminismo: a partire dal terzo decennio del Settecento, la nuova suddivisione del sapere smembrò la continuità organica delle collezioni.3 L’enciclopedismo del Settecento si realizzava nella sistematizzazione settoriale delle raccolte, che, rigettando le ibridazioni seicentesche, riflettevano un nuovo tipo di teologia naturale, la quale ricercava la presenza di Dio nella regolarità, più che nella devianza, delle leggi di natura. Fu questo l’inizio del declino delle meraviglie in quanto oggetti, presto declassati a carabattole prive di valore scientifico, e della meraviglia in quanto passione filosofica, in nome di una nuova distaccata sobrietà che la escluse dai sentimenti legittimi per la filosofia naturale.4 La passione della meraviglia era stata, per i teorici del Seicento, l’esca necessaria all’indagine scientifica, e nondimeno aveva avuto uno statuto ambiguo, essendo al tempo stesso considerata una forza disgregante dell’immaginazione. L’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert giunse alla sua esplicita estromissione dal campo delle legittime passioni della filosofia.
L’espulsione della meraviglia dalla filosofia naturale coincise con la rinegoziazione del rapporto ontologico fra natura e arte, separate adesso nelle collezioni. La distinzione tra arte e natura, che emergeva nel Settecento, si legittimava su basi estetiche e insieme teologiche: la natura, in quanto opera di Dio, veniva ora considerata incomparabile all’artificio umano, in quanto infinitamente più perfetta e complessa. Se arte e natura, nondimeno, rimasero comunque legate sul piano dell’estetica e nella teologia naturale, fu più per l’introdursi della pervasiva concezione dell’artificiosità della natura, “arte di Dio” che per la naturalità dell’arte L’argomento dell’orologiaio di William Paley è l’esemplificazione di quest’idea della natura che, come artificio ben congegnato, richiede di necessità l’esistenza di un artefice. 5 Una soggiacente metaforica dell’autorità, e l’eco dell’antagonismo nei rapporti di produzione, vengono individuate da Daston e Park nel dipanarsi di queste posizioni teologiche ed estetiche, tutte improntate ad esorcizzare il timore dell’usurpazione del legittimo potere, divino, da parte di una natura-serva pronta a trasformarsi in autonoma artista.6 L’espropriazione della natura dal suo ruolo di produttrice, tanto quanto l’estromissione della meraviglia come sentimento della conoscenza, rimandano dunque al problema della produzione e dunque, in filigrana, dell’oggetto come merce.
Non si può a questo proposito sorvolare su un altro tassello compone la figura dei Palazzi Enciclopedici: quello della fiera mercantile, come dispositivo di raccolta ed esposizione parallelo a quello del collezionismo. Tanto più che nell’Ottocento questo modello assunse pretese universalizzanti, con le Esposizioni internazionali che pretendevano di compendiare in raccolta la più avanzata produzione tecnica disponibile. Le cosiddette Esposizioni universali, realizzate con grande impegno economico e risonanza internazionale, manifestavano in fondo una nuova forma di enciclopedismo, stavolta rivolto settorialmente al mondo della produzione tecnica. L’arte, o meglio un’intenzione estetica, è presente sia nelle complesse scenografie architettoniche in ferro e vetro che raccoglievano le merci, sia negli stili storici applicati come grottesca superfetazione decorativa ai macchinari tecnici, veri protagonisti della fiera.7 Ma il darsi degli oggetti tecnici come oggetti estetici, a ben vedere, non si fermava a una ragione ornamentale. Le fiere del XIX secolo, le Esposizioni universali come i passages parigini, sono, secondo Walter Benjamin, i luoghi per eccellenza dove l’oggetto si svuota progressivamente del suo valore d’uso, facendosi altro da sé, per darsi come immagine.8 L’esperienza degli oggetti, dunque, si dà in una fondamentale scissione: la valorizzazione economica della merce coincide con l’offrirsi dell’oggetto a una pressante estetizzazione, ovvero a una proiezione onirica deformante, che preclude la sua esperibilitá nell’uso. Il resto dialettico di tale processo, d’altra parte, è il fondo utopico che caratterizza quella stessa fantasmagoria, la quale, in quanto espressione delle pulsioni inconsce che attraversano le masse, da un lato attiva angosce mitiche sopite, dall’altro si protende, nel sogno, verso il trascendimento dell’ordine esistente.
Andando a ritroso, é interessante vedere come l’associazione della dimensione della merce a quella del desiderio sia stata già tematizzata nel Seicento, ma diventa addirittura sorprendente scoprire che per questo tramite si giungeva a una riflessione sulla conoscenza scientifica. Nicholas Barbon, nel suo Discourse of Trade (1690), associava il mercato dei beni di lusso all’insaziabile desiderio della mente e, attraverso quello, alla scienza curiosa, intesa anch’essa come desiderio di consumo di beni illimitati. In altre parole, dato che i desideri insaziabili della mente possono essere soddisfatti solo da un consumo illimitato, la curiosità scientifica, di necessità, smette di rivolgersi ai beni utili, finiti, per spostarsi su quelli non essenziali, illimitati. La passione per la conoscenza, dunque, eguaglierebbe le dinamiche del desiderio proprie del mercato dei beni di lusso.
Le voglie della mente sono infinite, l’uomo aspira per sua natura e quando la sua mente è elevata, i suoi sensi divengono più raffinati e capaci di godimento; i suoi desideri sono ampliati e le sue voglie aumentano con i suoi desideri per tutto ciò che è raro.9
D’altra parte, lo studio della scienza naturale non può separarsi dalle istanze della storia e dallo sviluppo del mercato, poiché, come tra l’altro ricorda Benjamin, “Le domande che l’umanità pone alla natura sono tra l’altro condizionate dallo stadio a cui è giunta la produzione”.10
Il nesso fra immagine, merce, desiderio e curiosità scientifica riverbera a questo punto, inevitabilmente, sul tema della Biennale, e per di più, in senso critico, sulla Biennale come dispositivo. Da una parte, il tema scelto del Palazzo Enciclopedico porta avanti una riflessione sulla passione conoscitiva, l’ossessione per la conoscenza universale, la quale si dà nel suo farsi per immagini – talvolta intenzionalmente artistiche, spesso ubbidienti a logiche deliranti – trovando nell’immaginazione il punto di tangenza possibile fra il desiderio di possesso, il desiderio di conoscenza, e la sua sistematizzazione scientifica11. Dall’altra, forse meno intuitivamente, l’appetito per il nuovo e il desiderio di meraviglia sono temi che ricalcano aspetti connaturati alle dinamiche del mercato dell’arte, di cui la Biennale è vetrina, collezione, e in senso lato, fiera. La partita sul tema delle passioni, e in particolare sulla meraviglia come desiderio per un’oggetto-immagine sempre nuovo e irraggiungibile, si gioca quindi su due tavoli paralleli: da un lato, richiama i processi di valorizzazione dell’arte come merce di lusso, e dunque i rapporti fra arte e mercato; dall’altro investe i rapporti fra immaginazione e conoscenza, e dunque riguarda l’epistemologia. La possibilità che fra i due tavoli si creino delle convergenze non possono essere sottovalutate, tanto più quando i giocatori rivelano comuni provenienze. La partita fra arte e mercato non può quindi che fare da sfondo, ancorché nella forma di una questione irrisolta, all’indagine sui modelli di conoscenza per immagini di cui il Palazzo Enciclopedico è espressione.
Il Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni si ricollega esplicitamente ai modelli barocchi di display: quelle rassegne universali delle meraviglie d’arte e natura, dove l’ordinamento è per giustapposizione, la preferenza va all’eteroclito e non alla norma, il tema è l’immaginazione proliferante e non la forma. Ma che senso ha richiamarsi oggi all’anacronistico modello della Wunderkammer , o quello della baconiana Casa di Salomone? Perché tanto interesse teorico, per i modelli del sapere del barocco? Il nesso più immediatamente plausibile sembra essere la questione pressante dell’informazione.12 Emerge dal testo curatoriale il tema della bulimia della conoscenza contemporanea, che produce un eccesso caotico di informazioni e di immagini in costante produzione, senescenza, rinnovamento.13 I visual studies contemporanei hanno, in effetti, descritto la nostra attuale dimensione culturale come connotata da una proliferazione smodata delle immagini, la cui esperienza è mediata quasi esclusivamente dallo schermo, e la cui accelerazione è sorretta dalla tecnologia informatica, in cui la rete si presta a supplire ai desideri insaziabili della scopofilia, come una inesauribile riserva di immagini di consumo14. Se volessimo analizzare la dinamica passionale che sta al fondo di questo tipo di esperienza, riconosceremmo nell’attuale frenesia per il visuale qualcosa di simile alla curiosità seicentesca, con il suo desiderio illimitato per il nuovo, e per raro. Ma la nota emotiva dominante non sarebbe tanto la meraviglia che stimola l’indagine, quanto lo stupore, il suo doppio perturbante che impensieriva i teorici seicenteschi, perché genera inazione e sopraffà l’intelletto15: una patologia dell’attenzione ben nota anche ai teorici della visualità contemporanea, per i quali la sovraesposizione ad una molteplicità di stimoli visivi sempre più sovrapposti e dispersi genera, paradossalmente, l’opacità delle immagini, fino all’accecamento e, appunto, l’ammutolimento stupefatto dello spettatore.
Si potrebbero certo trovare altri nessi sottili fra l’enciclopedismo del Seicento, improntata sulle meraviglie, e alcune attitudini della conoscenza scientifica contemporanea. Quelli che a mio avviso giustificano un accostamento, portando qualche spunto utile alla riflessione sul contemporaneo, possono essere la messa in questione dei confini del naturale16, la riformulazione del modello del sapere17, il ruolo delle immagini nella scienza.18 Il rapporto fra immagini e scienza in particolare, mi sembra un aspetto rilevante di un discorso sull’enciclopedismo nel contemporaneo.
L’ambiguità dell’immagine come oggetto epistemico l’ha resa a lungo sospetta come veicolo di un sapere teorico-operativo, tanto che la sua pervasività, da questo punto di vista, non é del tutto scontata: se la scienza ha preso a legittimare l’immagine, lo si deve all’esteso dibattito che avvenne durante il Seicento19. In seguito, la pratica scientifica non ha fatto più a meno dell’immagine, benché con alcune rilevanti riserve, di cui la filosofia analitica novecentesca, con la sua enfasi sulla purificazione del linguaggio, é stata forse l’ultimo e più radicale episodio20. Le immagini, pur con la loro opacità di fondo mai del tutto esauribile, costituiscono un veicolo imprescindibile di ricerca, verifica e comunicazione per la cultura scientifica contemporanea. Ma che tipo di immagini sono quelle prodotte della scienza oggi, con cui le immagini del Palazzo Enciclopedico instaurano, o potrebbero instaurare, un dialogo a distanza? E cosa hanno a che fare con la profondità immaginativa, con le forze mitiche dell’arte?
Nell’immediato presente, la conoscenza scientifica é stabilmente caratterizzata da un pressante avanzamento nelle tecnologie di imaging, soprattutto a seguito della saldatura fra ambito biotecnologico, nanotecnologie e tecnologia dell’informazione. In questi settori, attualmente trainanti per la ricerca, diventa imprescindibile la rappresentazione e, ancor più, la simulazione visiva, che si rivela spesso l’unico mezzo di accesso ai fenomeni naturali, coincidendo in certi casi, come in quello delle nanotecnologie, con la manipolazione degli oggetti d’indagine.21 Gli studi visuali sulla cultura scientifica sottolineano la produzione sempre più massiccia di immagini informazionali22, portatrici di una propria sofisticata tecnologia di visualizzazione, che richiede, per essere compresa, di una specifica educazione visiva. D’altra parte si osserva in esse una sorta di impazienza a rimanere confinate nei limiti del laboratorio, per diffondersi attraverso i media di informazione, con un notevole incremento delle loro aura enigmatica. In questo processo le immagini di scienza tendono a sconfinare dalla neutralità informativa – del resto sempre soltanto pretesa – per appropriarsi di modelli estetici della cultura corrente, volti a rendersi contraddittoriamente familiari a un pubblico medio, da blandire e persuadere. Talvolta, i loro autori giungono a manifestare vere e proprie intenzioni artistiche: si pensi ai frequenti convegni su arte e scienza, al campo ibrido delle immagini digitali, ai concorsi per immagini scientifiche che vengono premiate e valutate come oggetti d’arte.23 La questione, d’altra parte, non si riduce alla permeabilità della visualità scientifica alle correnti stilistiche dell’epoca: l’estetizzazione delle immagini scientifiche si collega anche, più internamente, con il problema della vendibilità, popolarizzazione, propaganda dei risultati della ricerca, in un contesto di sempre maggiore competizione nel procacciamento dei fondi di finanziamento24.
Rimane aperta in questo contesto la questione dell’immaginario. Di fronte a scienza con un’epistemologia visiva sempre più sofisticata, e a un’estetica che vediamo sempre implicata in processi di valorizzazione, le informazioni e gli stimoli visivi sono pervasivi e sempre più disorientanti. D’altra parte l’immaginario sembra essere una forza tettonica latente, in grado di ricondurre la conoscenza a un orientamento primario, di tipo mitico. Si pensi alla risonanza mitopoietica della manipolazione del vivente attraverso le tecnologie genetiche, e alle fobie arcaiche che determina. Forse, non siamo in grado di inserire la clonazione entro la tassonomia mondo, o di valutarla al momento nelle sue implicazioni etiche e politiche; siamo tuttavia in grado di pensarla attraverso le immagini d’arte e fantascienza che ne convogliano la forza perturbante.
Il Palazzo Enciclopedico, quindi, non vuole essere un luogo dove sezionare e ripartire il flusso caotico delle immagini, o peggio, dove perseguire l’errore di abolirle. Piuttosto, vorrebbe essere un dispositivo di decantazione, dove l’odierna bulimia visiva venga elaborata, e forse rovesciata di senso, attraverso altre immagini più necessarie e interne, come quelle dell’inconscio, dei sogni, dell’arte.25 L’ipotesi sembra essere che le forze mitiche messe in moto dalle odierne fantasmagorie, generate dal sistema tecnologico e produttivo, possano essere blandite coltivando una diversa fantasmologia del desiderio. Come tutti i palazzi enciclopedici, tuttavia, bisogna osservare che la Biennale è un’impresa insieme titanica e utopica. Come buona parte dei luoghi dell’utopia, inoltre, non é uno spazio innocente: interno ai meccanismi di valorizzazione del mercato dell’arte, si propone invece come luogo delle immagini che da queste dinamiche esulano. C’è da chiedersi allora se un flusso non compromesso di necessità creativa, di libera pulsione desiderante, sia a questo punto possibile, e sia in qualche modo auspicabile. La risposta più scontata, che però apre altri e più radicali quesiti, si trova nelle immagini prodotte ai margini, in penombra, dagli artisti outsider, che non a caso vengono inseriti quest’anno in mostra.26 Si tratta di opere che restano ai limiti, abissalmente idiosincratiche, di cui è in discussione la stessa sociabilità come opere d’arte. Con l’opera di artista outsider, il Palazzo Enciclopedico di Marino Auriti, si apre il catalogo della mostra di Gioni. A un artista outsider, nondimeno, rimando per concludere questa contro-rassegna immaginaria. Si tratta del Palais Idéal, ovvero la visione di pietra che un ostinato sognatore, il Facteur Cheval, realizzava nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento nella cittadina francese di Hauterives. Eversivo come può esserlo una proiezione onirica senza scopo, il progetto del palazzo ideale deraglia dai binari del buon senso e dell’etica dell’utile, avvicinandosi alle ragioni ultime, immaginative e passionali, di ogni progetto enciclopedico. Il palazzo incarna l’aspirazione alla conoscenza totale del mondo nel suo aspetto più nudo e pulsionale, perché perseguito da parte di un singolo, in straordinaria povertá di mezzi, alle prese con un’antica ambizione. Si tratta della costrizione dal nulla di un microcosmo, che compendi le architetture dei quattro angoli del pianeta, e che assuma in sé il segreto legame fra arte e natura, plasmando nella pietra un’architettura vegetale, animata da un serraglio eterogeneo di forme animali e mostruose.27 Il postino Cheval lo realizzava con le proprie mani, accumulando con dedizione ogni singola pietra per oltre quarant’anni, con l’immaginazione eccitata dalle letture del Magasin pittoresque e dei resoconti illustrati delle passando per le Expositions universelles. Come un rabdomante della stampa popolare, probabilmente sua unica fonte visiva, Cheval percepiva il fondo utopico della fantasmagoria, e si appropriava delle sue proiezioni fantastiche. Gli esotismi, l’immaginario metamorfico, il desiderio di totalitá lo avvicinano tanto alle fiere delle Expo quanto ai coevi collezionisti parigini descritti da Balzac28, ma con una differenza: Ferdinand Cheval, per possedere, e dunque conoscere, non compra, ma fa. La pulsione al possesso trova espressione nel fare, nell’autonomia creativa di un operare che si riconosce integralmente nel suo oggetto, non nella dinamica schizofrenica del consumo. L’immaginario e la tecnica concorrono a dar corpo a questo desiderio. Cheval produce quindi un’opera totale, un mondo in compendio, che è la sua singolare e fantastica versione dell’enciclopedismo. L’idiosincrasia del risultato, l’umiltà dei materiali e dei mezzi, non devono far dimenticare l’ambizione ostinata e grandiosa del suo autore, la pulsione di fondo che lo mette in comunicazione con imprese ben più ampie e coordinate.
L’enciclopedismo eccentrico di Cheval mette allo scoperto i presupposti passionali della conoscenza enciclopedica che abbiamo cercato di rintracciare in questa disamina: la Casa di Salomone, le Esposizioni Universali, la Biennale. Al centro di tutti questi esempi sembra esserci il rapporto pulsionale fra desiderio di conoscenza e i suoi oggetti, che si dà nella forma di un ostinato tentativo di assimilazione mimetica dell’autore con un’immagine del mondo. In base alle varie forme che assume questo desiderio di possesso, il dispositivo enciclopedico rispecchia il portato immaginario, culturale, filosofico dei rapporti di produzione, ricalcando ora le dinamiche del consumo, ora quelle del lavoro creativo, e connotandosi secondo la dominante di collezione, fiera, microcosmo. A monte, sia che esso si incarni nella vigilanza procedurale della scienza, sia che preferisca darsi nella logica imperturbabile della fantasia, resta un oggetto epistemologicamente complesso, ideologicamente ambiguo: l’immagine, veicolo di sconfinamenti impercettibili fra l’ambito dell’arte e della scienza, tale da apparire in grado di far implodere in sé questa stessa polarizzazione.
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1 Per la trattazione dell’enciclopedismo sei-settecentesco, sulle tipologie delle raccolte e le connesse “passioni della conoscenza” ci rifacciamo, quando non diversamente indicato, a DASTON, L., PARK, K., Wonders and the Order of Nature, 1150-175; tr. it. Le meraviglie del mondo: mostri, prodigi e fatti strani dal Medioevo all’Illuminismo, a cura di Ferraro, M., e Valotti, B., Carocci, Roma 2000, cap. VI-VII. Sulla fortuna del Palazzo di Salomone cfr. anche GRAFTON, A., Gli inganni dell’utopia, in Il palazzo enciclopedico : The encyclopedic Palace : Biennale arte 2013, catalogo della mostra La Biennale di Venezia 55. Esposizione Internazionale d’arte, Marsilio, Venezia 2013, vol. 1, pp. 67-68
2 Sul ruolo dell’ordinamento visivo delle collezioni e sulle sue ripercussioni sulla filosofia naturale cfr. anche BREDEKAMP, H., Antikensehnsucht und Maschinenglauben. Die Geschichte der Kunstkammer und die Zukunft der Kunstgeschichte, Wagenbach, Berlin 1993; tr. it. Nostalgia dell’antico e fascino della macchina: il futuro della storia dell’arte, a cura di Ceresa, M., Il Saggiatore, Milano 1996.
3 Ibidem.
4 Cfr. DASTON,L., PARK, K., op. cit., in particolare sulle “passioni filosofiche” si veda il cap. VIII.
5 Ibidem.
6 In particolare negli anni della guerra vicile inglese e nel periodo della Restaurazione. Cfr. ivi, pp. 247 – 253.
7 CASTELNUOVO, E., Arte e rivoluzione industriale, in Idem, Arte, industria, rivoluzioni : Temi di storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1985, pp. 85-124.
8 AGAMBEN, G., Stanze : La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, Parte seconda .
9 Nicholas Barbon, Discourse of Trade, 1690, citato in DASTON L., PARK, K., op. cit., p. 263.
10 BENJAMIN, W., Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in Idem, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di Cases, C., tr. it. Filippini, E., Einaudi, Torino 1991, pp. 79-124, cit. a pp. 88-89.
11 GIONI, M., È tutto nella mia testa?, in Il palazzo enciclopedico : The encyclopedic Palace : Biennale arte 2013, catalogo della mostra La Biennale di Venezia 55. Esposizione Internazionale d’arte, Marsilio, Venezia 2013, vol. 1,pp. 23-28.
12 Cfr. GIONI, M., op. cit.; vedi anche KRAJEWSKI, M., Il sogno del cervello mondiale, in Il palazzo enciclopedico : The encyclopedic Palace : Biennale arte 2013, catalogo della mostra La Biennale di Venezia 55. Esposizione Internazionale d’arte, Marsilio, Venezia 2013, vol. 1,pp. 133-134.
13 GIONI, M., op. cit.
14 MIRZOEFF, N., Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Roma, 2005
15 Sullo stupore come “condizione patologica dell’attenzione” cfr. DASTON, L., PARK, K., op. cit., cap. VIII, in particolare p. 270.
16 Al di là delle più note questioni inerenti le scoperte astronomiche, altrettanto decisiva fu infatti nel Seicento la riconfigurazione che avvenne nelle scienze naturali, analizzata fra gli altri da Michel Foucault. In botanica e zoologia, l’afflusso costante di nuovi oggetti di curiosità, di nuove specie, di nuove informazioni apprese attraverso le testimonianze sulle esplorazioni geografiche, ruppe la soglia critica dell’organizzazione aristotelica del mondo naturale, generando la necessità di una sua nuova sistematizzazione tassonomica. Ma, allo stesso tempo, l’inclusione su larga scala di fenomeni eccentrici, raccolti e scambiati freneticamente fra naturalisti e collezionisti, rese credibili per “buon senso epistemico” le più ardite e fraudolente costruzioni di esseri immaginari, egualmente plausibili, per occhi occidentali, della variegata fauna d’oltreoceano. Siamo ancora oggi in un’epoca di abbassamento della soglia della credibilità dei fatti strani, e di riconfigurazione dei confini del vivente? A giudicare dal susseguirsi di annunci stupefacenti, soprattutto nell’ambito della biotecnologia, che ci lasciano stupiti, attoniti, senza parole, la risposta potrebbe essere positiva, quantomeno a livello di divulgazione. Alle nascite mostruose che appassionarono le Royal Transactions e popolarono i gabinetti di storia naturale della prima modernità, si sostituiscono oggi le previsioni di trapianti di testa, di imminenti clonazioni umane, di ibridi mostruosi creati in laboratorio, annunciate nelle riviste di divulgazione scientifica, su internet come nei magazine di intrattenimento. Non sappiamo inserire la manipolazione tecnologica del vivente nella tassonomia della nostra visione del mondo, né sappiamo valutarne appieno gli esiti etici e politici: di nuovo i confini del mondo naturale si sfaldano e si ricompongono. Tuttavia, anche oggi le valutazioni su questi fenomeni non si possono scindere dalla loro immediata risonanza nell’immaginario, come viene attestato dalla pervasività, nel mondo della fantascienza e delle arti contemporanee, della tematica biotecnologica. Accanto al problema della sua valutazione scientifica, non si può ignorare infatti che essa attivi un fortissimo portato mitico, ponendo nuovamente al centro dell’attenzione quegli esseri ibridi che tanto ossessionarono il collezionismo seicentesco. Cfr. FOUCAULT, M., Les Mots et les Choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966, tr. It. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano 2009; DASTON, L., PARK, K., op. cit., cap. VI; cfr. Anche sul ruolo delle immagini FREEDBERG, D., The Eye of the Lynx: Galileo, His Friends, and the Beginnings of Modern Natural History, University of Chicago Press, Chicago 2003, in particolare cap. XII.
17 In ambito scientifico come in quello umanistico, il complesso del sapere contemporaneo, inteso come campo di partizioni disciplinari, viene a riconfigurare oggi i suoi confini in nome di una pressante interdisciplinarietà. Un sapere privo di centro unificatore, come quello del Seicento, trovava rappresentazione nell’immagine del Teatro, con la sua giustapposizione di scene irrelate, e non più nel tradizionale modello dell’albero, che alludeva invece a una precisa interdipendenza fra i vari settori, secondo un ordinamento gerarchico. Se dovessimo invece proporre un emblema per il sistema contemporaneo della conoscenza, esso probabilmente trarrebbe ispirazione dall’infrastruttura fisica della rete: un’intricata trama di nodi interconnessi ma decentrati, quindi privi di gerarchia apparente, ognuno collegato a uno schermo. Dunque una serie di schermi, come una serie di scene irrelate, di informazioni irriducibili a sistema, di un sapere che si dà per immagini. Sul modello del sapere seicentesco cfr. RAK, M., L’immagine stampata e la diffusione del sapere scientifico a Napoli tra Cinquecento e Seicento, in Lomonaco, F., Torrini, M. (a cura di), Galileo e Napoli, atti del convegno di Napoli 12-14 aprile 1984, Guida editori, Napoli 1987, pp. 227-320, in particolare pp. 250-251. Sulla questione dell’interdisciplinarietà negli studi umanistici, cfr. COMETA, M., Studi culturali, Guida editori, Napoli 2010, in particolare pp. 199 – ss.
18 MITCHELL, W. J. T., The Work of Art in the Age of Biocybernetic Reproduction, in “Modernism / modernity” vol. 10, n. 3, 2003, The John Hopkins University Press, pp. 481-500
19 FREEDBERG, D., op. cit.
20 DASTON, L. , GALISON, P, Objectivity, Zone Books, New York, 2007
21 Mi riferisco ad esempio al caso delle immagini “aptiche” prodotte in tempo reale dal microscopio a forza atomica, allo stesso tempo uno strumento di visualizzazione e di nanomanipolazione delle particelle. GALISON, P., DASTON, L., op. cit., cap. VII “Representation to Presentation”.
22 ELKINS, J., Art History and Images That Are Not Art, in “The Art Bulletin”, vol. 77, n. 4, 1995, pp. 553-571; tr. it. La storia dell’arte e le immagini che arte non sono, in Pinotti, A., Somaini, A., (a cura di), Teorie dell’immagine: il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano, 2009, pp. 155-205.
23 Galison e Daston citano fra gli altri il caso della simulazione visiva di un flusso (virtuale) di elettroni realizzata dal fisico Eric J. Heller, realizzata come correlato visivo della teoria del flusso di elettroni di Robert Westervelt. La simulazione digitale è apparsa sulla copertina di Nature dell’8 marzo 2008, come immagine scientifica, ed è circolata nel mondo delle gallerie d’arte, ricevendo ingenti quotazioni, come immagine artistica. GALISON, P., DASTON, L.,op. cit., cap. VII, fig. 7.20, 7.21.
24 GALISON, P., DASTON, L., op. cit., cap. VII.
25 Cfr. GIONI, M., op. cit.
26 Cfr. DI STEFANO, E., Irregolari: Art Brut e Outsider Art in Sicilia, Kalós, Palermo 2008.
27 Secondo il nobile e forse ignorato modello del microcosmo ricreato nei giardini pittoreschi, ispirato al Tempio della Fama di Alexander Pope. Cfr. BALTRUŠAITIS,J., Aberrations: essai sur la légende des formes, Flammarion, Parigi 1983; tr. it. Aberrazioni : saggio sulla leggenda delle forme, a cura di Anna Bassan Levi, Adelphi Edizioni, Milano 1983, in particolare “Giardini e paesi d’illusione”, pp. 116-ss.
28 BENJAMIN, W., op. cit.
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Floriana Giallombardo si è laureata in storia dell’arte nel 2010. Si è occupata dei rapporti fra immagini e scienza muovendo da varie prospettive, da quelle dell’iconologia a quelle della cultura visuale. Attualmente svolge una ricerca interdisciplinare sul ruolo delle immagini nella scienza del Seicento presso il Dottorato in Studi Culturali Europei / Europäische Kulturstudien dell’Universitá di Palermo.