§memorie di famiglia
Sotto lo stesso tetto.
Il ritratto di famiglia nel lungo Ottocento italiano
di Ilenia Falbo

Nel 1944 l’editore Sansoni di Firenze pubblica Fiori Freschi di Mario Praz. L’anglista e intellettuale romano in questo suo noto volume definisce i decenni centrali del XIX secolo come «l’epoca dei diari, delle dediche piene di effusione, delle lunghe lettere affettuose, degli album di schizzi di viaggio, dei fiori secchi nei libri, dei ricordi curiosi e ingombranti» (Praz, 1944, pp. 29-30), cogliendo opportunamente i tratti peculiari delle famiglie che allora abitavano il Bel Paese. In più, le testimonianze pittoriche che riproducono questa “piccola civitas” di consanguinei radunati sotto lo stesso tetto riescono, secondo lo studioso, a «farci sembrare, così quieto, immobile, quel periodo dal 1820 al 1850, che fermentava invece di tanti germi di rivoluzione sociale e politica» (Praz, 1944, pp. 29-30).

La vita di famiglia, sia privata sia pubblica, in Italia durante l’Ottocento è oggetto di una continua messa in scena attraverso un sistema normativo in larga parte codificato e che il ceto medio delle professioni spinge all’estremo. I manuali di galateo e di etichetta, la letteratura e gli archivi privati familiari consentono, seppure frammentariamente, di comprenderne le pratiche e i rituali. Nel 1883, ad esempio, Emilia Nevers apre il suo celebre Galateo della borghesia precisando ai suoi lettori di non avere «nessuna esitanza. La prima immagine che mi affaccia, l’immagine che per me rappresenta la società e la felicità è quella della famiglia e quindi, quella della casa» (Nevers, 1883, p. 7) [1].

La famiglia è, senza dubbio, il luogo privilegiato per la salvaguardia dei valori della coscienza nazionale: la cittadinanza, la civiltà e la memoria. Nel corso del XIX secolo questa struttura di relazione intermedia tra individuo e società ha un ruolo centrale nell’istituzione degli Stati-nazione nello scacchiere politico europeo. Parimenti, quello familiare è uno dei temi precipuamente ottocenteschi ben presente nella cultura visiva e nella produzione artistica della penisola italiana, sebbene sia stato finora poco indagato. L’iconografia della famiglia è un soggetto intorno al quale, in modo interrelato, la pittura si sviluppa, genera novità e costruisce narrative, facendosi carico delle questioni della vita ordinaria degli italiani e indagandone menzogne e travestimenti [2]

La ritrattistica di gruppo, in modo particolare, permette di cogliere compiutamente i mutamenti sostanziali della società italiana, tanto quelli della classe aristocratica riformata al principio dell’Ottocento dai napoleonidi e poi restaurata dal rientro dei governi di Antico Regime, quanto quelli del ceto borghese, impegnato attorno alla metà del secolo a condurre la propria ascesa sociale. Il genere pittorico offre molteplici possibilità di rilettura critica. Dallo scandaglio e dall’osservazione diretta di un numero considerevole di opere d’arte fin qui rintracciato è stato possibile giungere all’individuazione di veri e propri «generi nei generi» (Rolfi Ožvald, 2003, p. 321). Il ritratto di gruppo familiare, istituto secolare della pratica artistica, è uno strumento che permette di osservare come gli aggregati familiari italiani si formino, si rinnovino e scompaiano, designando un portato di novità e di cambiamenti essenziali in fatto di iconografia, di cultura figurativa, di committenza e di stile, che per essere colti all’interno del sistema delle arti necessitano un più grande sforzo conoscitivo sul dibattito storico-sociale di riferimento e del costume del tempo. Una delle categorie tassonomiche più interessanti della ritrattistica di gruppo ottocentesca è quella in cui la famiglia italiana è restituita nella sua duplice accezione nucleare e complessa, secondo una definizione cara agli storici della parentela. 

Questa tipologia di ritratto offre il pretesto per riunire e mettere a confronto progenie e serve alla commemorazione della discendenza e della continuità dei legami di sangue. Il sentimentalismo è un altro elemento predominante di queste scene familiari che incarnano il bon ménage ottocentesco. Nei dipinti tutti i protagonisti si atteggiano rigorosamente secondo il proprio ruolo, dimostrandosi estremamente osservanti delle regole di comportamento, sia quelle prescritte dai manuali di etichetta dell’epoca citati in apertura, sia quelle non esplicite e codificate dall’esperienza. L’assegnazione dei compiti ai personaggi serve inequivocabilmente a evitare la rigidità del gruppo in posa. La comprensione d’insieme del fenomeno, va detto, sconta un handicap molto forte, che risiede nell’impossibilità di avere una mappatura complessiva attendibile delle opere eseguite e commissionate in questa circostanza a causa di un numero molto parziale di dipinti fin qui emerso, dovuto alle caratteristiche proprie del collezionismo privato e agli effetti della disomogeneità di approfondimento dei singoli casi pittorici sinora individuati. 

Sono opere che, occorre ribadirlo, soffrono della dispersione di un numero assai rilevante di collezioni d’arte private. Molti dei dipinti afferenti a questa variante iconografica sono andati perduti poiché veicolano immagini care alle donne e agli uomini che li hanno commissionati e sistemati all’interno delle proprie dimore. I tardi nipoti che le ereditano dai loro avi sovente le relegano in soffitta e le abbandonano all’usura del tempo. In questo contributo, tenendo conto del complesso panorama offerto dal ritratto di gruppo, presento le prime occorrenze emerse dallo scandaglio di questa specifica categoria iconografica. I materiali selezionati consentono di ragionare sulle modalità di rappresentazione dei nuclei parentali ottocenteschi, sui problemi condivisi dagli artisti nella realizzazione di tali ritratti, nonché sui retroscena della pratica artistica nella sua dimensione materiale.

Durante la Restaurazione sovrani, principi, militari, intellettuali, nobildonne e le loro rispettive famiglie sono i principali personaggi pronti a incrementare la produzione ritrattistica. Uno degli episodi pittorici più emblematici di rappresentazione delle vicende familiari di aristocratici che orbitano nel “rigoroso” ambiente sabaudo è il Ritratto della famiglia Ferrero dei marchesi della Marmora di Pietro Ayres.

L’opera, risalente al 1828, è concepita dal pittore come un vero e proprio manifesto programmatico volto a celebrare le funzioni e i ruoli preminenti ricoperti dai Ferrero della Marmora all’interno dell’entourage dei Savoia.. In secondo piano, ad eccezione di Ottavio che siede sul sofà assieme alle sorelle, trovano posto tutti i fratelli Ferrero della Marmora che, all’unanimità, hanno giurato fedeltà alla corona sabauda. Il fulcro della composizione è il libricino che uno di loro, Alberto, scambia con l’anziana madre. Il testo è una copia del Voyage en Sardaigne, scritto dallo stesso giovane erudito in virtù degli studi compiuti sulle condizioni fisiche e geologiche sarde ed è corredato da un accattivante apparato iconografico. Il volume è aperto, non casualmente, sulla prima tavola che riproduce un’immagine della Sardegna. Ciò che più colpisce però del ritratto in esame è l’impostazione matriarcale della famiglia. Il gruppo di parenti è raccolto intorno a Raffaella Argentero, la vedova di Celestino Ferrero della Marmora. 

Nella piccola veduta dipinta in corrispondenza della parete di fondo della stanza si riconosce il castello di Balangero allora di proprietà della famiglia di origine della gentildonna, gli Argentero di Bezzé. Sul lato opposto della composizione, invece, è raffigurato lo stemma della famiglia Ferrero della Marmora decorato con il relativo motto. La sfilza di dettagli figurativi appena individuati consente al pittore di ristabilire correttamente le confluenze genealogiche degli effigiati. Il primo piano è riservato alle figure femminili tutte apparentate con la vedova Ferrero: si tratta delle sue figlie, le nuore e le nipoti. L’atmosfera assai gradevole dell’adunanza familiare è restituita dagli abiti trapuntati e inamidati dalla crinolina, dal poggiapiedi, dai tappeti, dai soprammobili e dai tendaggi. Persino il cane, che sorveglia il gruppo al centro della composizione, contribuisce a delineare un contesto sobrio e minimale coerente con la temperie di Restaurazione [3]. Quello di Ayres è soltanto uno degli esempi più rappresentativi di quel numero cospicuo di committenti blasonati che, per tutto il secolo, si fa immortalare dal pennello dei ritrattisti allora più quotati. 

La classe aristocratica italiana al principiarsi del secolo spesso preferisce farsi ritrarre sullo sfondo di parchi, all’ombra di gazebo ornati di stoffe preziose, seduta su troni dorati posizionati dentro sale a colonne. È questo il caso del ritratto della Nobile Isabella Fossati con la figlia Maria Clorinda che Michelangelo Grigoletti realizza attorno al 1830.

Michelangelo Grigoletti, La nobile Isabella Fossati con la figlia Maria Clorinda, il genero e le nipoti, circa 1830, olio su tela, 136 × 169 cm, collezione privata.

La tela conferma l’impostazione matriarcale delle famiglie nobili italiane. A differenza dei Ferrero della Marmora, però, i Fossati di Venezia appoggiano il ceto medio decisamente più intraprendente al tempo in Laguna. Il centro della composizione è occupato da Isabella, accerchiata dal resto del gruppo costituito dalla figlia, il genero e le nipoti. In ordine, partendo da destra della composizione, si riconoscono Rosalie, Ernestine, Amelie. Il trio è seguito dalla coppia di genitori, Maria Clorinda e il colonnello Jean Pierre François Paris. Alle spalle dei coniugi, infine, compare Zélie Isabelle. L’esaltazione familiare, compiuta dal pittore allora ventinovenne secondo la lezione neoclassica impartitagli dal maestro Teodoro Matteini, si svolge all’interno del giardino della villa di Borgo Colonna, vicino Pordenone, di proprietà di Isabella Fossati e in cui la famiglia è solita trascorrere l’estate [4]

Un altro campione interessante della categoria qui indagata è il Ritratto della famiglia Antinori. Il gruppo di origini toscane affida l’esecuzione del proprio ritratto familiare alle mani esperte di Giuseppe Bezzuoli. Il dipinto, di grandi dimensioni, è terminato dal pittore fiorentino entro il 1834. Ancora una volta il centro della scena è occupato dalla madre di famiglia, Adelaide Baldelli, che tiene in braccio sua figlia più piccola, Rosalia. Al fianco della coppia mamma-figlia è dipinta un’altra fanciulla vestita di bianco, alla quale la donna tenta di accarezzare amorevolmente la mano. In basso trova posto una natura morta, che rappresenta una citazione delle scene familiari Biedermeier di Ferdinand Georg Waldmüller. Il capofamiglia, Vincenzo Antinori, è raffigurato in una posa di grande raffinatezza all’estrema destra della scena. Il marchese, completamente assorto nella lettura, si appoggia sull’immancabile cippo familiare su cui campeggia lo stemma della casata. Il libricino tenuto nelle mani dall’uomo allude alla preminente carica di direttore del Reale Istituto Museo di fisica e storia naturale, che Antinori ricopre lungamente nel Granducato. Nell’angolo di sinistra della composizione fanno da contrappunto all’imperturbabile figura paterna i due giovani uomini abbigliati con la redingote scura, il panciotto all’inglese e i lunghi calzoni chiari [5].

Giuseppe Bezzuoli, Ritratto della famiglia Antinori, 1834, olio su tela, 150 × 226 cm, Firenze, Accademia Antinori.

A partire dal terzo decennio del XIX secolo il pubblico borghese affolla sempre più numeroso le sale delle esposizioni d’arte degli Stati preunitari italiani. La critica militante, che scrive sulle riviste specializzate e sui giornali popolari di cultura, è un tramite indispensabile tra gli artisti e i loro nuovi e audaci acquirenti. La ritrattistica diventa presto una parte consistente del patrimonio costruito anche piuttosto rapidamente dal ceto borghese, che si fa ritrarre tra le suppellettili della propria casa esibite con compiacimento. Anche i cultori d’arte di rango più modesto, in ogni caso, appaiono orgogliosi di ostentare il successo e la serenità raggiunta nella sfera domestica e affettiva. Gli italiani posano adesso nel tinello o nel giardinetto delle loro abitazioni e spesso le finestre dei loro salotti affacciano sulla strada in cui è ubicato il negozio sede del proprio commercio o dell’impresa a gestione familiare. 

In un torno d’anni molto stretto Giuseppe Tominz diventa lo specialista indiscusso della ritrattistica familiare mitteleuropea in tutte le sue possibili varianti strutturali e iconografiche, operando attivamente in Friuli e nei territori di frontiera goriziani, istriani e giuliani. I suoi ritratti di famiglia già attorno agli anni Trenta del secolo sono considerati “i più somiglianti che si fossero mai visti”[6]

Il Ritratto della famiglia Buchler è un olio su tela di grande formato che, con ogni probabilità, Tominz deve aver terminato entro il 1830, ossia quando il padre di famiglia, David, è eletto presidente della Camera di Commercio triestina. Il Mercurio sistemato dal pittore alle spalle del gruppo parentale allude evidentemente all’ottenimento dell’importante incarico professionale. L’uomo di origine germanica, arrivato in città nel 1813 e subito affiliatosi al governo austriaco, riesce presto ad aprire una filiale della ditta di famiglia specializzata nella vendita di spezie e di caffè. Nel dipinto Carl, il figlio maggiore dell’imprenditore, è raffigurato alla destra dell’uomo che stringe tra le braccia Fritz, il più piccolo di casa Buchler. Il bambino ha nella mano una miniatura con la foto del nonno lontano. Il secondo gruppo di figure è costituito dagli altri due fanciulli, Eduard e Hermann. Il primo mantiene in mano un compasso utile a misurare un piccolo globo, mentre il fratello porge al padre un volumetto avuto in premio grazie ai suoi successi scolastici. Sull’estrema sinistra trovano posto la moglie del committente, Euphorosine Maffei, e il figlio Heinrich anch’egli con un opuscoletto in mano. Il giovane Adolf, infine, e impegnato a specchiarsi nel tavolo [7]

Nel frattempo Eliseo Sala in Lombardia incrementa il proprio credito di ritrattista grazie alla realizzazione di molte tele richiestegli dal ceto delle professioni locale. Risalgono al 1848 i due ritratti-pendant raffiguranti i Saroli, originari di Cureglia nel Canton Ticino. A Milano Giuseppe Saroli aveva ormai da tempo dato avvio, con la partecipazione complice dello zio architetto Michele, a un’impresa edile impegnata nella ricostruzione dei quartieri distrutti nel corso delle insurrezioni risorgimentali. L’imprenditore aveva sposato Luigia Bossia Moschini, madre dei suoi sei figli. Nel dipinto Sala raggiunge un risultato davvero penetrante in cui è palese la resa del contrasto fra il dolore materno legato alla perdita prematura di tre figli e la spensieratezza dei fanciulli. 

Un’altra urgenza rivelata dal vaglio sistematico di questa categoria iconografica è la reciproca influenza tra la ritrattistica familiare e la fotografia. I primi ritratti familiari di gruppo dagherrotipici, ad esempio, sono tagliati secondo i canoni tradizionali della pittura. Il fenomeno è stato ampiamente chiarito da Marina Miraglia. Il ritratto diventa, secondo la studiosa, più discorsivo e spontaneo basandosi adesso su «una conoscenza meno ideale e più concreta» (Miraglia, 2007, p. 271) e ciò avviene parallelamente a quel processo di autodefinizione e di sviluppo della borghesia e della fotografia. La famiglia Bianchini di Antonio Ciseri è un esempio davvero innovativo per le molteplici prospettive di riflessione che scaturiscono dall’esame attento del ritratto, compresa la lunga progettazione compiuta dall’artista tramite il ricorso al medium fotografico.

Antonio Ciseri, Ritratto della famiglia Bianchini, 1855, olio su tela, 135 × 145 cm, collezione privata.

La tela è realizzata nel 1855, un anno di eventi straordinari per il pittore, considerata la morte del suo mentore Giuseppe Bezzuoli e l’inaugurazione dell’Esposizione universale di Parigi a cui Ciseri partecipa con l’invio del ritratto appena menzionato. Nella tela è inscenato un mondo integerrimo e borghese, quello della famiglia della sua fidanzata Cesira, riconoscibile dal fiore rosso che le ferma i capelli corvini. Ne La famiglia Bianchini è ritratta l’alta borghesia toscana del tempo, sicura dei propri valori e meno oppressa dai governanti stranieri rispetto a quella delle altre regioni peninsulari. Nel dipinto i valori intellettuali e quelli familiari si accordano nella rappresentazione dei costumi improntati alla dignità e a una semplice e colloquiale eleganza del vivere. Il gruppo familiare di Ciseri è spontaneo ed è costruito mediante linee di contorno essenziali che ricordano la pittura di Jean-Auguste-Dominique Ingres. La distribuzione delle figure e la cura dell’ambientazione derivano dall’esercizio e dallo studio necessari all’esecuzione dei quadri storici e di quelli di soggetto sacro. Il musicista Gaetano Bianchini, futuro suocero dell’artista, è raffigurato appoggiato con spontaneità alla colonna. In primo piano un cane è accucciato sul tappeto ai piedi della madre di famiglia. Gli elementi di costume e di arredo sono ridotti ai minimi termini. 

L’ausilio del medium fotografico permette all’artista di giungere a un’efficace resa degli incarnati, coniugando la precisione dell’indagine fisica del modello con sapienti giochi di luce. Appena terminata l’opera, Ciseri in principio decide di esporla nel suo studio. L’operazione gode di un successo immediato già prima che il pittore prenda in considerazione l’ipotesi di inviare il dipinto a Parigi per l’evento internazionale [8]

La vita di famiglia trasportata su tela rappresenta il metro e la misura del talento e del successo dei pittori specializzatisi nella ritrattistica, chiamati a svolgere l’arduo compito di confrontarsi con il grande formato. Occorrono metri e metri di tela per mettere in scena tutti i componenti di uno stesso gruppo. Gli artisti sono chiamati a gestire, con discrete difficoltà, le interminabili sedute di posa degli effigiati per trasportare su tela una miriade di attitudini e di fisionomie diverse. Sono ritratti che necessitano di una lunga e lenta gestazione in cui tutto deve essere condotto mediante un’analisi accurata. Le inclinazioni individuali degli artisti chiamati alla realizzazione di queste “imprese pittoriche familiari” conducono evidentemente a esiti stilistici differenti, ciascuno dei quali chiaramente confacente alla sensibilità e alla maniera del proprio esecutore in accordo con i desideri e le richieste dei mandatari.

A conclusione di questa tassonomia iconografica necessariamente rapsodica è opportuno dar conto, pur succintamente, di una delle particolarità più controverse che emerge passando in rassegna il sottogenere del ritratto di gruppo investigato. Mi riferisco alle profonde e reciproche influenze che tale tipologia condivide con la scena di genere di intonazione familiare. È indubbio che gli autori dei ritratti di gruppo studiati traggano orientamento dagli atteggiamenti e dai motivi che derivano dalla pittura di genere o dai romanzi sentimentali del tempo. A tal proposito, La famiglia Guidini, il noto ritratto che il ventiquattrenne Giacomo Favretto realizza nel 1873, costituisce una prova esemplificativa. La tela, oggi a Ca’ Pesaro, è uno dei risultati più importanti della sua carriera oltre che uno dei capolavori dell’intera ritrattistica del secolo. I Guidini posano dinanzi a Favretto sullo sfondo di una tappezzeria verde scuro. I volti dei quattro effigiati, colti in diversi atteggiamenti, sembrano assorbire la luce. Davvero caratteristica è la resa del chiaroscuro, l’elemento dominate della composizione. I personaggi sono concentrati attorno l’abito grigio-rosa della signora Guidini, che contrasta con i toni (azzurro e nero) della veste della figlia cui fa da contrappunto la tortorella bianca che la fanciulla mantiene tra le mani.

Giacomo Favretto, La famiglia Gudini, 1873 circa, olio su tela, 139 x 94 cm, Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Ca′ Pesaro.

La relazione che intercorre tra gli esiti del ritratto di gruppo familiare, dei conversation pieces e del genere è molto articolata e di difficile definizione. Il catalogo della mostra Scottish Groups and Conversation Pieces del 1956 propone una distinzione in due categorie, i “gruppi” e i conversation pieces. La seconda differisce dalla prima in quanto mostra due o più persone dipinte su una tela nel loro ambiente normale intente a un’attività sociale o domestica. Il gruppo è qui considerato come un ritratto di più persone che posano per formare una composizione. Una distinzione che, sebbene sia poco soddisfacente, è al tempo stesso utile poiché esprime la necessità di affrontare tale questione. Mario Praz, appena qualche tempo dopo, preoccupandosi di giungere a una definizione il più esauriente possibile di conversation pieces, è obbligato ad affrontare questo controverso nodo critico. Secondo lo studioso, l’elemento decisivo non è tanto l’attività sociale o domestica svolta dai protagonisti, quanto piuttosto: «L’ambiente e le proporzioni dei personaggi. […] Nella conversazione l’ambiente è descritto con diligenza non meno minuta di quella impiegata nella descrizione delle persone, e conferisce al quadro Stimmung, quel senso d’intimità del gruppo, isolato o campito, su uno sfondo indicato sommariamente» (Praz, 1971, pp. 32-37) [9].

Alle soglie del XX secolo, dunque, la ritrattistica di gruppo familiare poteva comprendere così tante e varie manifestazioni da non avere una fisionomia chiaramente definita. Ciò che continua a connotare questa tipologia del ritratto è l’eloquenza narrativa con la quale – pur nella diversità dei linguaggi pittorici – le fisionomie e gli atteggiamenti degli effigiati, resi eterni sulla tela, non smettono di trasmettere e ricordare valori duraturi consoni ai fremiti e affanni della società italiana dell’Ottocento, suggerendo memorie, fantasie e stati d’animo di un mondo in divenire. 

Note 

[1] A proposito della letteratura sul comportamento in Italia nell’Ottocento rinvio almeno allo studio d’insieme compiuto da Tasca 2004.
[2] Mi sono occupata dell’argomento nel volume di prossima pubblicazione (Falbo, 2022, in corso di pubblicazione).
[3] Del dipinto, ora in esame, rinvio alla scheda (e bibliografia) di Natale in Da Canova a Modigliani 2010, pp. 120-121 e p. 238.
[4] Un olio su tela di grandi dimensioni, 136 × 169 cm, oggi conservato a Venezia in collezione Palumbo Fossati. Sull’opera rimando a Ganzer, Gransinigh 2007, pp. 96-97 (e relativa bibliografia).
[5] Si tratta di un olio su tela di 150 × 226 cm, oggi conservato a Firenze presso l’Accademia Antinori. Dell’opera è noto un disegno preparatorio, di cui Carlo del Bravo ha individuato le differenze iconografiche e di composizione. Sulla tela si rimanda al contributo di Marconi in Sisi 2006, pp. 190-191.
[6] La citazione è già pubblicata in Giuseppe Craffonara e la cultura romana 1991, p. 150. Sulla pittura di ritratto goriziana sono fonti preziose i seguenti testi: Tra Venezia e Vienna 2004; Ottocento di frontiera 1995.
[7] Sul ritratto in esame rinvio almeno almeno a Quinzi 2011, in particolare, pp. 57-60.
[8] Sull’opera rinvio alla scheda scheda di Lombardi in Ottocento da Canova al Quarto Stato 2008, p. 210. Circa la vicenda dell’artista segnalo tra le molteplici iniziative legate alla celebrazione del bicentenario della nascita del pittore (1821-2021), rimando al catalogo della mostra Antonio Ciseri e il Ticino 2021.
[9] I riferimenti alla mostra scozzese e la distinzione lessicale qui riproposta sono delineati da Praz. L’espressione “scena di conversazione” è usato per la prima volta da Giovanni Caradente nel catalogo della mostra La pittura inglese da Hogarth a Turner 1966, p. 12. A proposito dei risultati dell’indagine compiuta sui quadri di genere a tema familiare rinvio ancora a Falbo 2022 (in corso di pubblicazione). 


Bibliografia

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Ilenia Falbo, classe 1986, è una storica dell’arte. Vive in Calabria. Ha conseguito il dottorato di ricerca internazionale in studi umanistici presso l’Università della Calabria (2018), il diploma di specializzazione in beni storico-artistici presso l’Università degli Studi di Udine (2014). Studia la pittura italiana del XIX secolo. Si occupa dei carteggi d’artista e delle riviste d’arte a Roma in età di Restaurazione.