Quante storie raccontiamo attraverso l’arte, senza però avere la possibilità di interagire direttamente con esse? Ma forse le domande più pressanti sono: quali storie raccontiamo? Qual è l’arte che racconta? Dove finisce l’Arte e dove iniziano le memorie di un corpo? Di tutti corpi potenzialmente connessi da una ricerca, da una visione del mondo? Come si sostantivizza un corpo e quali altre sostanze, quali altri corpi possono toccarlo? Che ruolo può giocare l’apticalità nei monumenti e nella ricostruzione di storie che non rispettano i canoni di genere? Come è consolidata la narrazione dei corpi gender non-conforming nella Storia (anche dell’Arte) e nella Memoria (monumentale, visibile al pubblico) e quali corpi dissidenti rispetto alle imposizioni di genere sono ricordati come tali? Cosa si può fare per evidenziare queste storie e ricostruire una storia trans a distanza di secoli? Quale poetica adottare per far trasparire il potenziale transgender di busti, dipinti e altro ancora?
Per iniziare a rispondere bisogna partire da una considerazione: ancora siamo influenzati dall’idea tardo illuministica secondo cui il corpo perfetto (nella ritrattistica statuaria o pittorica) è un corpo immacolato e non condizionato dall’ambiente circostante o dal tempo che passa. Sembra incredibile, ma questa concezione è stata trattata niente meno che da Winckelmann mentre elaborava uno standard (tutto occidentale) della bellezza maschile (non senza malcelati elementi di discussione di carattere omoerotico) nelle statue greco-romane da lui esaminate nel suo soggiorno romano (Potts, 2000, pp. 145-164). Ancora oggi questa accezione del corpo, trasportata nella storia dell’arte dallo studioso tedesco del 1700, è difficile da sradicare, ed ha diverse conseguenze per chi osserva e si fa coinvolgere da certe espressioni artistiche.
Riagganciandomi alle suggestioni di questo numero della rivista, propongo di considerare l’intoccabilità che l’arte ha nel tempo conferito a certe figure umane che rappresentava, come un ostacolo, non solo alla conoscenza dei corpi, ma alla loro interpretazione e alla connessione che ne deriva con osservatorə trans e non binariə.
Che conseguenze hanno l’intoccabilità e/o la marmoreità delle opere d’arte nel creare una genealogia di corpi trans nella storia?
Lancio questa provocazione a seguito dell’invito di Jack Halberstam a sfruttare l’apticalità [1], un’estensione o potenziamento del senso del tatto, come metodo di comprensione del corpo trans che sfugge al piano spesso ingannevole del solo coinvolgimento visivo. Halberstam scrive che l’apticalità è una forma di conoscenza che supera la ragione e l’intelletto. Si tratta di una cornice perfetta, secondo Halberstam, per il corpo trans* [2] il quale, in fin dei conti, non cerca di essere visto e conosciuto ma desidera piuttosto minare le fondamenta della sistematizzazione dei corpi. (Halberstam, 2018, p. 90).
Con la parola “transtenati” (traduzione fai da te di “trancestors”) si indica non solo le persone che fanno parte di genealogie della storia trans (intesa come una storia del genere ampliata, estesa all’evoluzione stessa del concetto di genere, oltre il binarismo), ma ci si riferisce anche allo sforzo più ampio, esercitato dalle persone trans stesse, di evocare generi non conformi dal passato, in maniera anche affettiva. Questi transtenati, si può dire, fungono da godparents, per le persone che vivono oggi. Per questo, prendo qui esempio da teorie riguardanti l’influenza di figure del passato che oggi hanno ancora una valenza spirituale, quasi mistica, riportate in vita dalla connessione con chi è ancora tra i vivi. Parlo specificamente dalle teorie sulle figure dei santi; questo perché una sensorialità sinestetica ha a che fare con la possibilità di avvicinare, in maniera non gerarchica, al “sacro” (inteso come difficilmente verificabile). Si compie il gesto di toccare, ma in quel contatto si è a propria volta toccati dalla figura riverita (Spencer-Hall, 2017, pp. 107-118).
La stessa Spencer-Hall fornisce anche l’interessante concetto di “rendez-vous trans-cronologico”, una sorta di incontro spirituale, affettivo, con coloro che toccano nel profondo le nostre esperienze personali e che cancella la distinzione fra passato e presente. Concetto, questo, ulteriormente potenziato nel discorso di Sophie Sexon sull’affettività e le conseguenze dell’ apticalità implicando che ciò abbia anche delle conseguenze nel processo di ricerca di transtenati: si performano azioni di ascolto affettivo tramite il corpo, permettendo ai nostri corpi di divenire luoghi di assembramenti queer e trans che rompono le cronologie, in cui si tocca e si viene toccatə attraverso il tempo (Sexon, 2021, p. 142). Tuttavia, un aspetto fondamentale viene tralasciato: non si possono toccare i monumenti e gli oggetti nei musei! E questo previene qualunque contatto con la figura trans di riferimento. Mentre prima della concezione odierna di beni culturali il tocco era incoraggiato e parte delle pratiche conoscitive di un oggetto a supporto della sola vista, ora ciò non è possibile. Toccare è vietato, scoraggiato nel migliore dei casi. Ma per Sexon questo è il presupposto per una connessione affettiva al passato trans e genderqueer. Come si fa allora dal momento che questi percorsi non sono più praticabili per connettersi ai transtenati e che non è possibile lasciarne di nuove per chi verrà dopo? Sempre secondo Spencer-Hall, noi percepiamo (sentiamo e vediamo) noi stessə nel momento in cui veniamo vistə. Veniamo guardatə e sentitə al punto che iniziamo a esistere (Spencer-Hall, 2017, p. 16). E questo riguarda anche la relazione con gli oggetti – descritta come un atto di genuina reciprocità nell’essere spettatorə, mentre l’oggetto si fa soggetto e ci restituisce un senso di noi come oggetti e dunque come degnə di essere guardatə (Sexon, 2021, p. 144).
Al fine di riportare il tutto ad una dimensione materiale, fornirò degli esempi: come si fa ad interpretate, anzi, vivere, figure storiche come Cristina di Svezia, come persoanggə trans di una propria genealogia? Cristina è riportata come una persona non conforme da tutte le cronache sue coeve, nonché nella sua autobiografia (Buckley, 2008). È proprio l’aspetto di sé che più ama, l’irriverenza dei suoi modi, considerati maschili, spudorati, a tratti anche maleducati, ma anche il vestiario e le relazioni che intratteneva con la corte. A partire dal XIX secolo, eliminando molto di ciò che a lei piaceva della sua autobiografia, le sue rappresentazioni sfumano sempre più nel conforme e vengono appiattite in una narrazione tardoromantica di “donna dai modi eccentrici, single e indipendente”. Un tipo di narrazione che cancella frequentemente generi altri, non codificati né permessi dalle categorie del passato.
Le tracce genderqueer che ci restano di Cristina sono riscontrabili nelle sue raffigurazioni, dipinti ormai cristallizzati e inalterabili. Mentre guardiamo il ritratto di Cristina, e sentiamo una vicinanza con la sua non conformità al genere assegnatole alla nascita, viene attivata la nostra stessa identità non conforme, proprio come riferito da Sexon e Spencer-Hall, e si prova disagio quando ci si accorge della mancanza di rispetto per il forzato re-inserimento nelle norme dei secoli successivi.
Nessuno può toccare un quadro e questa mancanza comporta sicuramente una distanza incolmabile per una persona che vuole anche solo potenzialmente percepire vicinanza col soggetto rappresentato, e lasciare che il soggetto-oggetto eserciti la sua forza su di sé.
Ma se mentre per Cristina ci dovremo far andare bene lo sguardo audace della sovrana nei ritratti, per lo meno ci sono opere per cui è molto più facile immaginare un ruolo del tatto e dell’apticalità. Un esempio è il busto di Colomba Antonietti al Gianicolo. Confusa con gli altri soldati presenti, Colomba viene spesso ignorata. Descritta sempre come unica “donna” presente tra i mezzi busti dei patrioti sul colle romano, la sua storia è spesso inserita nel novero delle patriote, al femminile (Doni, 2011), senza considerare lo scardinamento nei ruoli di genere che la sua figura stava provocando silenziosamente durante la resistenza della Repubblica Romana. Al contrario di Cristina, le sue caratteristiche fisiche sono effettivamente state appiattite all’inverosimile, probabilmente in maniera preterintenzionale, basti notare l’assenza di seno. Probabilmente considerato inappropriato per una figura combattiva come la sua, che si era finta soldato per partecipare alla resistenza durante la Repubblica Romana, Antonietti è stata privata di caratteristiche che, nel sistema binario in cui viviamo, sarebbero invece state felicemente rimarcate se le condizioni l’avessero permesso. Ma in comune con molte altre sculture sul Gianicolo, Colomba si sottrae all’interpretazione violenta e falsamento binaria per un motivo ancora più semplice; nessuna scultura celebrativa contempla la caratteristica su cui la società eterocisnormata di oggi si basa: i genitali! Se la società ha l’assoluta necessità di affidarsi ai genitali come fonte di “accuratezza” e riaffermazione delle identità di genere e sessuali assegnate alla nascita, le statue, i monumenti, i dipinti che non esplicitano queste caratteristiche, semplicemente non possono rassicurare questa fetta della popolazione. Ed è così che anche il marmo, la dura pietra su cui vengono iscritte le “Verità”, le tele dipinte, a cui si affida la propria immagine per i posteri, vengono meno nella loro fissità, e si rifanno (s)oggetto di interpretazione. Un’interpretazione fluida, che non presuppone identità ma possibilità, in un senso e nell’altro.
Questa assenza, forse questa svista, a noi frocie non binarie contemporanee dona un’impagabile opportunità: quella di “deviare” qualunque interpretazione binaria di questa figura, sottraendola del tutto alle grinfie della Storia patriarcale. Se di Cristina, una regina, dunque ricoperta di privilegi, la Storia è comunque riuscita a modificare i tratti salienti, nonostante la sua autoaffermazione come personaggio non conforme, noi operiamo una rappresaglia contro queste angherie. Reclamiamo Colomba come figura trans non binaria, soprattutto per la sua storia come soldato volontario, dopo che anche questa ha subito un attentato alla propria autenticità, cercando di smorzarne la forza adducendo come scuse il fatto che fosse stato un atto d’amore per il marito, anch’egli soldato. Queste figure perse tra le maglie della storia, poco documentate, hanno bisogno della nostra forza immaginativa per risorgere nelle loro discrepanze rispetto alle norme di genere, spesso re-imposte su di loro a posteriori. Il busto di Colomba resta femminile solo per il nome ancora attribuitole oggi, ma solo per quello; nulla del suo corpo è consolidato come femminile. Un vantaggio che questa opera di memoria condivide con molte altre. Possono in questo modo, grazie alla nostra reciproca apticalità, al nostro contatto con loro, grazie agli “Attributi” che mancano loro e che noi guardiamo, venendo guardati a nostra volta, ritornare ad un non-binarismo che lascia possibilità, che non è un’imposizione sul passato e che non ha il sapore del controllo sul corpo, ma del margine di manovra, che riconosciamo a quelle voci silenziate e che restituiamo a noi stessə, togliendo potere a quel Potere che vorrebbe i corpi strumenti al servizio della Storia (Foucault, 2019).
Le frocie che rubano la Storia, lo fanno, come sempre, immettendosi nelle crepe, nelle falle che essa ha trascurato per riempirle di frociaggine. Non solo perché ci è stato solo permesso questo finora, ma perché il nostro lavoro parte da lì, dalle debolezze di quel Sistema (o Cis-tema) che ci vuole inesistenti. E per riaffermare la non linearità della storia come fonte di emancipazione e di ri-narrazione (Gumbs, 2023), ecco che si rifà il giro e si torna a Winckelmann, che ha lasciato distrattamente cadere sul selciato della Storia degli attrezzi, un po’ polverosi perché persi nel XVIII secolo, dove ammette egli stesso la possibilità, anche per quelle opere d’arte apparentemente così immobili, intoccabili, come le sculture greco-romane, di “vedere i propri contorni sfumare”. Winckelmann se ne avvale con finalità diverse dalle nostre, ma oramai l’ha ammesso: i contorni delle statue non sono in grado di definire un’essenza, neanche quella delle figure di cui tentano di fare un ritratto (Potts, 2000, p. 172).
Ma passando al modo di attivare queste realtà queer, se su un piano teorico e ad un livello strettamente personale restituire vita a questi oggetti è possibile, va ricordato che per le norme contemporanee è vietato intervenire sui monumenti, pena l’essere additatə come “vandali” [3]. Ovviamente, queste regole mancano di uno sguardo critico sul perché certe azioni si intraprendono e non si chiedono se alcune di queste iniziative invece non siano finalizzate ad attivare, anche creativamente e non solo come forma di protesta, le testimonianze monumentali, quando altrimenti siederebbero “morte” nelle strade o nei musei. Queste norme ci permettono di ricordarci del valore del passato solo quando possiamo indignarci per un loro uso che non sia la mera conservazione. Una specie di prolungamento giustificato dalla Scienza in quelle politiche di Potere che mirano a preservare una Storia univoca, insindacabile. Come intervenire se quel tocco di cui si è parlato sopra non è possibile? E come si fa a fare ciò per un pubblico?
E` per quanto appena detto che suggerisco che entri in gioco qualcosa che si chiama “drag transtemporale” (Getsy, 2016, p. 155), ossia performance drag che re-incarnano personaggi, usanze, tradizioni e le riempiono di nuovo significato, disturbando la supposta linearità, concetto egemone e dunque patriarcale, delle cronologie. Personalità come Cristina di Svezia e Colomba Antonietti sono esistite nel passato, ma data la rilevanza che corpi dissidenti come i loro hanno per la formazione di genealogie queer e trans contemporanee, si viene a complicare, se non annientare, la distinzione tra ciò che è “passato” e ciò che è “presente”. È da qui che si può partire per immaginare una visione del tutto nuova degli effetti della performance e del corpo. Ciò che si racconta col corpo e la performance, ha le sue radici in un passato e il corpo performativo stesso diventa luogo dove il binarismo passato-presente non esiste più. Diventa agente del cambiamento, palesamento dell’effetto di quella affettività discussa in precedenza, lasciando solo apparentemente invariato l’oggetto della discussione (l’opera d’arte) che non sarà mai più lo stesso perché imbevuto di nuovo significato. I corpi qui si toccano a distanza, parlano l’uno dell’altro, si crea un dialogo fra essi, corpo immobile che riprenda vita nel corpo mobile. Le storie che raccontiamo e come le raccontiamo hanno la possibilità di diventare le nostre memorie, ma queste memorie hanno bisogno di una mediazione; quella mediazione può essere lo sguardo, ma se lo sguardo non è accompagnato da una conoscenza più profonda, tattile laddove possibile, forse l’arte può venire in nostro soccorso. Non tutta l’Arte, ma arti politicamente posizionate, armate di una difesa e di una comprensione delle genealogie queer. Se i corpi dissidenti del passato non sono ricordati come tali, li rielaboriamo noi oggi e lo facciamo con poetiche che ci sono familiari, non con gli strumenti del sistema e non fingendo che le narrazioni che prendono in considerazione il genere assegnato alla nascita o il linguaggio autoinflitto [4] siano metri attendibili per il genere attraverso cui si dovrebbe parlare di una persona del passato.
La nostra poetica e il nostro linguaggio saranno sempre sforzi politicamente informati e collettivi.
Note
[1] Per apticalita` si intende la sinestesia, la coordinazione, del senso del tatto con altri sensi. Si tratta, come delineato in Halberstam (Trans*, p. 90) e in Sexon (Gender-Querying Christ’s Wounds, pp. 133-153) dell’impossibilità per qualunque senso di bastare a se stesso per conoscere il mondo. Gli oggetti-soggetti di cui si parla in questo articolo infatti sono molto spesso meglio compresi se due o più sensi vengono attivati per comprendere ciò che si ha davanti.
[2] L’uso dell’asterisco alla fine della parola “trans”, non unanime od omogeneo neanche all’interno della comunità di riferimento, e` normalmente inteso ad ampliare il senso di questo termine così da includere tutte le modalità di varianza di genere possibili per l’essere umano (es. le identità non binarie) e di sottrarre la parola al gergo medico da cui proviene (che legittima come transgender soltanto chi avvia percorsi di affermazione di genere coadiuvati dal sistema medico-psichiatrico)
[3] Mi riferisco alla legge che sanziona i cosiddetti “ecovandali”, termine non neutrale come vorrebbero far credere dal governo approfittandosi di un certo perbenismo delle istituzioni culturali.
[4] Si intende qui quello usato da persone trans e gender non-conforming del passato per descriversi in assenza di altro. Va ricordato infatti che, come tutto, anche la resistenza politica all’oppressione attraverso uno sviluppo creativo della lingua è uno sforzo collettivo e non frutto del genio di una singola persona – dunque in assenza di comunità forti, manca anche la lingua che r-esiste.
Bibliografia
Buckley V., Cristina regina di Svezia. La vita tempestosa di un’europea eccentrica, Mondadori, 2008.
Doni E., Rose bianche per un soldato. Colomba Antonietti, in Donne del Risorgimento, il Mulino, 2011, pp. 25–33.
Foucault M., Un pensiero del corpo, Ombre Corte, 2019.
Getsy D., Queer: Documents of Contemporary Art, Whitechapel Gallery, 2016.
Gumbs A. P., Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini, Timeo, 2023.
Halberstam J.J., Trans*: A Quick and Quirky Account of Gender Variability, University of California Press, 2018.
Potts A., Flesh and the Ideal: Winckelmann and the Origins of Art History, Yale University Press, 2000.
Sexon S., Gender-Querying Christ’s Wounds: A Non-Binary Interpretation of Christ’s Body in Late Medieval Imagery, in Trans and Genderqueer Subjects in Medieval Hagiography, Amsterdam University Press, 2021.
Spencer-Hall A., Medieval Saints and Modern Screens: Divine Visions as Cinematic Experience, Amsterdam University Press, 2017.
Dani Martiri è curatorə indipendente. Tra il 2022 e il 2023 ha lavorato all’Istituto di Ricerca del Victoria and Albert Museum. Ha inoltre fondato nel 2021 il progetto di divulgazione “Queering Rome”, per parlare di Roma attraverso una lente queer femminista. Dal 2023 lavora sull’uso di un linguaggio non discriminatorio nei beni culturali e fa parte del Gruppo di Lavoro “Genere e diritti LGBTQ+” di ICOM Italia, con cui si occupa di promuovere la museologia queer nel paese.