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Oltre Mare, 2013, Bari
Ritrovo in casa una mappa dell’Albania, è datata 1939, l’anno dell’invasione militare italiana. Probabilmente apparteneva a mio nonno, che durante la seconda guerra mondiale prestò servizio nei Balcani. Alcune località con epicentro in Tirana sono evidenziate a matita, puntini e linee che raccontano un tentativo di controllo e di dominio.
Il progetto “riattiva” quei sentieri di guerra, ma da una prospettiva inedita: mi sono dedicato a una meticolosa rete di viaggi, il più possibile fedele ai segni tracciati sulla mappa. Quegli scarabocchi, oggi frammenti insensati che emergono come da un’amnesia, sono stati il pretesto per andare-tornare in quei luoghi e riempire i vuoti generati da una perdita d’informazioni irreversibile, per ripercorrere strade dimenticate, espulse dal ricordo individuale e dalla memoria collettiva. L’Italia ha infatti rimosso dal dibattito pubblico il proprio passato coloniale, come la mia famiglia ha perduto le informazioni private relative alla mappa.
La carta militare, in origine uno strumento di controllo su popoli e geografie, si è trasformata in una paradossale opportunità per espormi a eventi incontrollabili, in un impossibile dialogo con il fantasma di mio nonno, attraverso un territorio dove lo sviluppo delle grandi arterie di comunicazione, soprattutto dagli anni 90, ha bypassato molte le località segnate 70 anni prima, relegando quelli che furono crocevia di importanza strategica a una condizione di isolamento e marginalità.
Ho viaggiato per due mesi ininterrottamente tra Mulleti, Durazzo, Elbasan, Farka, xafzotaj, Rrogozesa, Kambeza e altre località dell’Albania centro-settentrionale. Eppure, nonostante mi spostassi da solo in un paese non conosciuto, a bordo di furgoncini sovraffollati e guidato da una mappa obsoleta, non sono mai riuscito a perdermi. Venivo da un altrove ma, come intrappolato in diversi gradi di familiarità, non mi sono mai sentito del tutto “straniero”: al di sopra del logoro substrato coloniale, come le vecchie rovine in cemento del centro zootecnico di xafzotaj, si innesta infatti l’attuale diffusa dimestichezza con la lingua e la cultura italiana. L’origine di questa “intimità” risale al tardo periodo comunista, quando in Albania si costruivano antenne televisive artigianali – e al tempo illegali – per captare il segnale televisivo italiano. L’antenna era un “dispositivo relazionale”, creato per avvicinare l’“altro”, ma allo stesso tempo generava desideri allucinati e impossibili da soddisfare: attraverso la televisione italiana, gli Albanesi idealizzavano i simulacri della società capitalista, in una tensione spasmodica verso una falsa promessa.
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Ma i rapporti di forza attraverso mare Adriatico sono sempre stati asimmetrici, oltre che intermittenti. Lo sguardo protervo del supposto civilizzatore cessa con la fine delle velleità imperialiste italiane: da quel momento l’Albania diventa una piccola macchia sulla carta geografica, muta, totalmente priva di relazione con il mondo reale – o almeno così crediamo, fino all’8 agosto nel 1991, quando la nave Vlora attracca a Bari, gremita di 20 mila persone. L’immagine di quello sbarco rimarrà impressa nella memoria collettiva italiana come l’archetipo e il grado zero di una nuova paura, che ribalta l’arroganza del civilizzatore nel terrore di chi si sente minacciato da moltitudini di esseri umani in fuga da mondi sprofondati nel caos – dai Balcani degli anni 90 fino ai paesi oggi sconvolti dalla guerra, senza soluzione di continuità. Nel 1991 ben due generazioni di italiani fecero la loro conoscenza con gli albanesi, un popolo che i miei nonni ricordava invece bene. Scrutavamo, prima sul monitor poi nelle nostre strade, i loro tratti somatici, come si vestivano e il taglio dei loro capelli. Ricordo, durante la diretta dello sbarco, che qualcuno in famiglia commentò come alcuni fossero biondi, il tono era stupito. Lo sconcerto era il sentimento prevalente: chi è questa folla che arriva da un mondo di privazioni così radicalmente altro, e perché tutti parlano italiano?
Forse le antenne auto-costruite sono state proprio lo strumento-espediente che, attraverso il mare adriatico e almeno tre generazioni, ha riprodotto un rapporto di potere asimmetrico nella forma di un’auto-colonizzazione iconografica, linguistica e del desiderio degli albanesi, traghettando fino al presente il rimosso dell’Imperialismo italiano. In quel formicaio umano ci siamo come visti in uno specchio deformante, senza riconoscerci.
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L’antenna ufficiale albanese, concepita per captare unicamente il segnale radiotelevisivo della televisione di Stato, era affiancata e sovvertita dalle antenne auto-costruite, rivolte verso le frequenze proibite che venivano da oltre il mare. L’aspetto di questi dispositivi era determinato da innumerevoli fattori. La prima caratteristica delle antenne era di essere costruite con materiali di scarto: gli elementi strutturali maggiormente utilizzati erano fili metallici variamente intrecciati a creare l’equivalente dei moduli rigidi delle antenne ordinarie, oltre a questi era frequente l’uso di lattine (kanace), coperchi di alluminio da cui veniva asportata la parte centrale, ruote di biciclette e qualunque altro rottame che l’inventiva umana potesse piegare al desiderio e alla tecnica. Gli elementi morfologici del territorio giocavano a loro volta un ruolo cruciale: in alcune zone di Scutari era sufficiente infilare una forchetta di alluminio nel ricettore della televisione, piegandone uno dei denti; a Tirana la montagna Dajti faceva rimbalzare verso la città le onde italiane, concentrandole e rendendo la capitale un ottimo luogo di ricezione; a Valona il segnale italiano era potentissimo per via della vicinanzaza geografica e della superficie tesa del mare: qui bastava un fil di ferro piegato per vedere Sanremo. In altri casi i fattori che determinavano l’aspetto delle antenne erano “ambientali”: la presenza di potenziali delatori tra i vicini imponeva strategie mimetiche per cui l’antenna poteva essere ad esempio dissimulata nello stendi panni.
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Nell’era della comunicazione globale e del digitale l’Italia non monopolizza più il desiderio collettivo dei propri vicini e questi dispositivi analogici auto-costruiti sono diventati obsoleti, inoltre quasi tutti sono stati distrutti già negli anni ’90 per recuperarne i metalli. Oggi le antenne sopravvivono solo memoria di chi le ha costruite e utilizzate.
Questo è il quadro in cui, nell’estate del 2013, tento di captare le ultime emissioni radio-televisive, prima della completa transizione al digitale. Il luogo dove avviene questo ribaltamento degli sguardi – il momento culminante de “Il sole sorge ad Occidente” – è il molo del porto vecchio di Bari, non lontano da dove il Vlora attraccò 22 anni prima. Per captare un segnale dall’”altrove” del nostro rimosso utilizzo un’antenna rudimentale costruita a partire dagli schizzi raccolti in Albania. Dopo molti fallimenti e solo grazie all’aiuto di albanesi “naturalizzati” baresi, è possibile catturare un segnale, seppur molto flebile: la lingua albanese risuona per pochi minuti nel silenzio della controra barese, l’ora della siesta, quando la città è deserta e avvolta in un’atmosfera da pittura metafisica: è un telegiornale, si parla di un censo, si intravede il presentatore, siamo appesi al filo sottile delle onde elettromagnetiche, italiani e albanesi di Bari, poi il brusio di fondo rende illeggibile immagini e suoni, dopo alcuni minuti dal rumore di fondo riemerge un ritmo, è un reggae albanese, poi tutto sparisce, ingoiato nel pulviscolo del tubo catodico.
Infanzia brasiliana, 2013, Tirana
Antenne auto-costruite nel ricordo dei miei interlocutori, disegni raccolti nell’Albania centro-settentrionale, 2013
Mappa dell’Albania sotto occupazione italiana, 1940, dettagli
La ricerca di Leone Contini si colloca lungo il margine di contatto tra pratiche creative e lavoro etnografico. Gli ambiti della sua ricerca ineriscono il conflitto, la frizione interculturale e le relazioni di potere e le sue pratiche, spesso includono lecture-performances, interventi nello spazio pubblico, narrazioni testuali e audio-visuali. Negli ultimi anni ha tenuto mostre o realizzato interventi presso: Quadriennale di Roma; Cittadellarte, Biella; Triennale di Tbilisi, Georgia; Mart, Rovereto; Biennale D-0 Ark Underground, Bosnia; Kronika + Imago Mundi, Bytom e Cracovia; Delfina Foundation, Londra; Kunstraum, Monaco; Khoj, Nuova Delhi; Galleria Civica, Trento; DOCVA, Milano; Kunstverein, Amsterdam; Tirana Art Lab, Tirana; Fondazione Pistoletto, Biella; Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato; Frigoriferi Milanesi, Milano; Chan, Genova. È stato artista in residenza presso: Cittadellarte Fondazione Pistoletto, Biella, 2015 e 2016; Kronika/Imago Mundi, Polonia, 2015; Delfina Foundation, UK, 2014 e 2015; Tirana Art Lab, Albania, 2013; Under Construction Open Residency – Beirut/Milano, Italia e Libano, 2012.