Introduzione
Nel dizionario della Treccani la cura è così definita: Cura: s. f. [lat. cūra]. – 1. a. Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività: dedicare ogni c. alla famiglia, all’educazione dei figli, ai proprî interessi; avere c., prendersi c. di qualcuno o di qualche cosa, occuparsene attivamente, provvedere alle sue necessità, alla sua conservazione.
È interessante notare come nella definizione stessa di cura compaia una connotazione emozionale, e come ci sia un riferimento sia alla cura come qualcosa che coinvolge l’“animo”, sia alla cura come attività.
In questa riflessione accoglieremo la duplicità della cura come attività e come logica di relazione che chiama in causa un apparato emotivo e affettivo, ma ci discosteremo da una connotazione di cura come intrinsecamente premurosa, cioè legata a sentimenti positivi, priva di complessità o conflittualità.
Il concetto di cura è stato a lungo considerato un concetto neutro e pacifico, strettamente associato al mondo femminile e alle mansioni stereotipicamente assegnate ai soggetti socializzati come donne. Cura-casa-donna sono tre concetti strettamente legati nell’immaginario comune: la casa, rifugio sicuro, è il regno dell’affettività, della cura e di chi la esercita, cioè delle donne.
Ma di ‘cura’ non esiste una definizione esaustiva, e anzi, scopo di questo articolo è proprio asserire che il concetto di cura è un qualcosa da lasciare incompleto, in quanto tale incompletezza strutturale è ciò che la rende uno spazio aperto, dinamico e fluido, disposto ad accogliere significati sempre diversi e nuovi.
Partendo da questa accezione aperta di cura, in questo contributo saranno presentate le teorie e i metodi che, in una prospettiva che cerca di tenere insieme gender studies e studi geografici, possono essere un punto di partenza per costruire una comunità di cura.
Cura come metodo e principio, lavoro e pratica
Il punto di partenza per una decostruzione della cura come neutra è il riconoscimento che essa sia un’attività femminilizzata, e di conseguenza, seguendo una logica capitalista, improduttiva, quindi svalutata e invisibilizzata.
Le prime ad analizzare il concetto di cura criticamente sono le femministe marxiste negli anni ’70, e poi le promulgatrici della Social Reproduction theory (Bhattacharya 2017; Fraser 2016), che mettono in luce un preciso aspetto della cura, definendola come attività sociale-riproduttiva non pagata necessaria all’esistenza del lavoro pagato e al funzionamento del capitalismo in quanto tale. Il fatto che il lavoro riproduttivo sia non salariato ha dequalificato quel lavoro, sminuendo anche chi lo pratica, e ha reso così le donne subordinate, nonostante tale lavoro sia conditio sine qua non del lavoro salariato produttivo.
Il rilevamento del fatto che la cura sia un lavoro riproduttivo non retribuito, dequalificato e reso invisibile è un punto di partenza fondamentale per una riflessione critica che mette in luce la contraddizione alla base del sistema capitalistico, denuncia le ingiustizie, le asimmetrie di potere e lo sfruttamento, ma questa prospettiva deve essere posta in dialogo con quella della logica della cura (Centemeri 2021; Mol 2006; Tronto 1993).
Secondo tale pensiero la cura non è solo lavoro, un’attività, ma una logica che ci invita a riconoscere “la molteplicità ontologica e antropologica che è presente nelle nostre società ma sacrificata da linguaggi e categorie che ne impediscono il riconoscimento” (Centemeri 2021: 87). La cura come modo di relazione, come principio regolatore di scambi tra esseri umani e tra umani e non umani. Una forma di attenzione, anche se non intrinsecamente positiva: un metodo di relazione e comunicazione che permette di vedere l’altro, i suoi bisogni e le sue necessità, al di fuori da logiche di profitto e di mercato, ma dentro a dinamiche solidali e orizzontali.
La cura non è un concetto omogeneo, semplice, e definito, ma il prendersi cura, caring, è una pratica con una forte complessità affettiva, caratterizzata da disuguaglianze che ne influenzano la gestione e la distribuzione. È un luogo in cui si innescano dinamiche di potere fortemente genderizzate, razzializzate e di classe che ricadono pesantemente sulla nostra vita quotidiana. Può essere lavoro causa di stress e burn out, può essere svolta contro voglia o per forza, data per scontata e mai valorizzata. Quindi, di conseguenza, la cura si configura anche come un terreno di scontro, di rivendicazione e di lotta, un luogo marginale dal quale iniziare un cambiamento, una pratica che può diventare uno strumento capace di modificare relazioni di potere asimmetriche andando verso una riappropriazione della cura come promiscua, relazionale, e quindi non unidirezionale, universale (The Care Collective 2020; Fragnito e Tola 2021).
La prospettiva spaziale
Nella nostra prospettiva, che mette in dialogo gender studies e studi geografici, la cura è un modo di stare insieme, di relazionarsi, un’attività e un lavoro, che è agita da persone genderizzate e che prende forma in uno spazio/luogo specifico.
Il rapporto tra cura, genere e spazio è intrecciato, i corpi mettono in scena ripetizioni di norme egemoniche che performano il genere nella vita quotidiana e lo fanno sempre e comunque in uno spazio, a partire dal corpo, la geografia più prossima.
Nella letteratura femminista si è cominciato quindi a mettere in discussione l’idea neutra della cura e della casa (Blunt, Dowling 2006), comprendendo che la casa spesso si configura come un luogo poco sicuro, in cui le donne bianche si sono sentite confinate e spesso minacciate da mariti violenti. Ma la casa non può essere definita in modo univoco e omogeneo, i luoghi non sono intrinsecamente definiti, ma sono spazi aperti, vissuti in modo specifico ed eterogeneo, incoerente, in maniere tra loro contrastanti. L’affermazione del femminismo bianco che la casa sia un luogo di oppressione è stata molto criticata dal femminismo nero, che afferma che per le donne nere la casa è stata a lungo l’unico luogo in cui erano al sicuro prima dalla schiavitù, poi dal razzismo. Anzi, per queste donne la casa era un luogo di resistenza (bell hooks 2014). Così come le donne non possono essere considerate come un insieme neutro e omogeneo, anche la concezione di casa e di cura ospitano valorizzazioni e significazioni plurali, diversificate e situate.
Oltre all’analisi dello spazio domestico, luogo in cui, come abbiamo visto, si articolano geografie fortemente genderizzate, l’attenzione è da rivolgere anche allo spazio esterno, fuori dalla casa, regolamentato da impliciti relativi alle norme comportamentali che producono i binomi giusto/sbagliato, omosessuale/eterosessuale: vi sono meccanismi di inclusione ed esclusione che si basano, intersezionalmente (Crenshaw 1989), su categorie di genere, di classe, di etnia, di nazionalità, di abilità (Borghi, Dell’Agnese 2009; Mezzadra, Neilson 2013; Kern 2019).
Lo spazio urbano è stato fino ad oggi prevalentemente progettato e costruito, tranne quando dichiaratamente pensato per specifiche soggettività, basandosi su un prototipo di utente che, immaginato come neutro, è risultato invece essere l’uomo bianco, cisgender, eterosessuale, abile. Ma lo spazio urbano è un oggetto relazionale che si crea nel suo rapporto con le soggettività e gli oggetti che lo vivono e lo valorizzano, non un contenitore fruibile da un preciso modello di utente. Può essere quindi un luogo conflittuale in cui si svolgono guerre di interpretazioni, di risemantizzazione, di costruzione di oggetti di valore (Volli 2005); è un luogo manipolabile che può essere abitato da utenti non previsti, animato da pratiche dissidenti e ribelli agite da soggettività che vengono discorsivamente costruite come marginali e periferiche e che pretendono un posto accogliente all’interno delle dinamiche urbane e quotidiane.
La cura si configura in questa ricerca come riappropriazione di spazi, tempi e ruoli; non solo come lavoro riproduttivo o logica di relazione, ma come concetto che cerca di tenere insieme queste due prospettive proiettandole nel contesto urbano e pensando la cura in modo fortemente spazializzato, perché il luogo in cui viene esercitata influisce sul modo in cui la pensiamo e la valorizziamo.
In questa ricerca la cura, liberata dallo spazio privato, sconfina nel pubblico, configurandosi come lavoro, attività, ma anche logica di relazione, principio e regola di tale lavoro. La cura come forma e come contenuto, la cura come criterio, metodo, e come azione, dilaga, si disloca, fiorisce in spazi altri, in eterotopie relazionali e sociali.
Metodi creativi per mappare la cura e metterla in pratica
La cura quindi come promiscua, cioè al di fuori delle famiglie tradizionali e delle logiche di mercato, come principio di interdipendenza e condizione di possibilità del mutuo aiuto e della solidarietà, deve essere esercitata da una comunità di cura, situata in uno spazio pubblico costruito come accessibile e in cui possano convivere differenze in modo orizzontale e rizomatico, differenze interdipendenti contro la pervasività dell’incuria e a favore di una cura universale, e cioè di una politica che riconosce nella cura la priorità assoluta in ogni campo e ambito.
Il mio contributo suggerisce una delle tante strade percorribili per costruire una comunità che faccia cura con cura ovvero che, adottando principi di interdipendenza, mutuo aiuto, promiscuità, deprivatizzazione, costruisca un modo di svolgere il lavoro di cura come commoning urbano al di fuori delle mura domestiche femminilizzate, re-immaginando tempi, spazi, ruoli, in luoghi urbani risemantizzati capaci di aprire una breccia nella corrispondenza simbolica tra spazio privato e lavoro riproduttivo / spazio pubblico e lavoro produttivo.
Fare comunità è un processo sempre in divenire, un processo aperto e in costruzione che presuppone interdipendenza, fiducia, complessità.
Per poter creare questo rapporto di fiducia tra ricercatrice e partecipantə, si è deciso di ricorrere a interviste semi-strutturate; per provare invece a creare fiducia, interdipendenza e conoscenza solidale tra le persone del quartiere si è deciso di svolgere dei laboratori collettivi.
Le persone che parteciperanno saranno famiglie con bambinə [1], standard e post-famigliari (Beck-Gernsheim 1998), che vivono nello stesso quartiere; famiglie che entreranno tra loro in relazione profonda, che, auspicabilmente, alla fine del nostro percorso riusciranno a pensarsi come una comunità interdipendente.
Durante le interviste sarà chiesto aə partecipantə di fare due disegni, uno raffigurante la loro casa, uno il quartiere, i luoghi che attivano sensazioni positive e quelli che attivano invece emozioni negative.
Alla fine delle interviste quindi avrò accesso a discorsi verbali e a discorsi visuali, mappe mentali ed emotive deə partecipantə che verranno analizzate cercando di disaggregare e riaggregare le esperienze e i vissuti dei singoli alla luce delle categorie intersezionali di genere, nazionalità, classe, etnia, abilità, età, orientamento sessuale a relazionale, facendo sempre attenzione, dopo un’operazione di riflessività metodologica, a posizionare il mio sapere nel momento in cui dovrà entrare in relazione con i saperi delle altre persone con cui lavorerò, in modo da non cannibalizzare il campo e i soggetti con cui si interagisce e si fa ricerca (Giorgi, Pizzolati, Vacchelli 2021; Benzon, Holton, et al. 2021; Borghi 2020). Verranno quindi alla luce i modi in cui ə partecipantə significano e valorizzano luoghi ed esperienze tramite messe a discorso verbali e visuali che possono essere in armonia o confliggere tra loro. I disegni infatti sono uno strumento utile per impegnare le persone in una formulazione meno automatica rispetto al racconto verbale, capace di una ricostruzione inedita del quotidiano. Disegnare [2] è un gesto dinamico, un atto incorporato e influenzato da emozioni, percezioni ed esperienze, è un gesto che racconta una storia personale creando connessioni tra movimento, percezione, spazi quotidiani, rivelando il modo in cui qualcunə si muove, conosce, vede, sente. Il disegno è uno strumento creativo, un processo di dialogo, un divenire che crea uno spazio immaginato ricco di informazioni (Benzon, Holton, et al. 2021).
Nella seconda fase, il lavoro sul campo sarà ancora più esplicitamente inteso come un processo dialogico che si co-produce progressivamente attraverso l’interazione tra ricercatrice e partecipantə. Intendo fare ricerca non ‘su’, ma ‘con’ le persone intervistate (Bonu, 2019; Giorgi, Pizzolati, Vacchelli 2021) svolgendo dei laboratori per immaginare e co-progettare insieme un quartiere pluriversale (Kothari, Salleh et al. 2019), cioè “immaginarlo come un arcipelago di punti di enunciazione, una costellazione di micropolitiche di decolonialità, di laboratori di sperimentazione, a partire dal proprio posizionamento e dai propri privilegi” (Borghi 2020: 39).
Per tale fine verranno messi in pratica metodi creativi come mappe di comunità, collages e laboratori.
Mappare, disegnare, immaginare, sono strumenti che materializzano i bisogni e le aspirazioni della comunità, capaci di dar forma alle geografie desiderate del quotidiano e coniugare cura deə bambinə e cura deə adultə in luoghi pensati e creati da chi li vive e per chi li vive.
I metodi creativi e partecipativi, nati in relazione a approcci epistemologici costruttivisti, si interrogano sulla condizione di produzione del sapere scientifico e riconoscono, andando contro una logica estrattiva di conoscenze ed incontro a un approccio antiegemonico, una pluralità di saperi situati, una rosa di vissuti e di restituzioni valorizzate e significate in maniera differente, una polifonia che può essere armoniosa quanto stonare (Benzon, Holton, et al. 2021). L’approccio partecipativo ha l’ambizione di abbattere la dicotomia tra soggetto-studioso e oggetto-studiato, di aprirsi a un sapere informato da prospettive differenti per individuare il modo in cui i soggetti si posizionino all’interno di determinati contesti e strutture sociali per poi elaborare strumenti trasformativi capaci di incidere su quei contesti e quelle strutture in modo condiviso (Bonu 2019).
Il primo momento laboratoriale sarà dedicato ad instaurare un rapporto di conoscenza e di fiducia tra ə partecipantə tramite la discussione collettiva dei risultati ottenuti dalla prima fase di ricerca, cercando di agire e far agire ə partecipantə secondo un’etica della cura, cioè riconoscendo e mettendo costantemente in discussione le dinamiche di potere, imparando a guardare chi ci sta intorno con nuovi sguardi, negoziando metodi di scambio e riflessione, dando vita ad una discussione corale che permetta a ciascunə di trovare ed esprimere la propria voce nel rispetto dell’altrə (Bonu 2019).
L’ultima fase, quella più prettamente creativa e trasformativa, prevede la creazione di una mappatura partecipativa del quartiere, tramite collages, disegni e mappe, in cui si cercherà di immaginare e collocare spazialmente ciò che ci piacerebbe trovare nel quartiere in relazione al lavoro di cura deə loro bambinə: una costruzione collettiva di una realtà altra, una co-progettazione del non ancora reale, del desiderato, capace di politicizzare lo spazio e quindi permettere la decostruzione delle dicotomie che lo governano (Dambrosio 2019).
Collocando i luoghi desiderati sulla mappa attiviamo un processo di materializzazione dei nostri desideri, diamo loro delle coordinate spaziali che rendono i nostri desideri più vicini, raggiungibili e visibili; troviamo un appiglio con la materialità del reale. Collocare un desiderio significa renderlo un obiettivo possibile, trascinarlo fuori dal mondo onirico e farlo entrare in quello empirico, significa trasformare un desiderio in una rivendicazione, trasformare un’utopia in un’eterotopia possibile. Perché un’utopia, nel suo essere posizionata, collocata, situata, acquista un diverso grado di realtà, diviene un’utopia situata, un’eterotopia in cui, contro l’incuria e le logiche di mercato neoliberali, prende forma un luogo per la cura in cui si pensa e si agisce con cura.
Le mappe creative dei luoghi aiutano a mappare nuove relazioni, mostrano connessioni prima invisibili, si configurano come un framework partecipativo in cui possono essere articolate simultaneamente visioni differenti (Benzon, Holton, et al. 2021).
Oltre all’uso delle mappe i gruppi potranno scegliere se disegnare i luoghi desiderati o creare dei collages, uno strumento fortemente connotato emotivamente che permette di selezionare, scegliere e trasformare. Il collage apre lo spazio all’ibrido e alla metamorfosi costante (Cerioli 2019); tramite l’osservazione del già detto, del già significato, si possono agire stravolgimenti semiotici che sovvertono i significati, si mette in atto una rielaborazione trasformativa che permette di esperire come dallo status quo possano emergere accostamenti inaspettati. Si ha la possibilità di ritagliare il mondo tramite le proprie forbici, valorizzare alcuni oggetti, alcune azioni e non altri, di scegliere cosa magnificare e cosa narcotizzare, cosa reinterpretare, a partire da una cultura che è un insieme di testi e pratiche che dobbiamo avere la possibilità di riscrivere, elaborando altre rappresentazioni, altre testualizzazioni, dando vita a contro-letture, riscritture, risignificazioni, differenti assiologizzazioni (Demaria, Tiralongo 2019). “Questa azione apre la possibilità del ri-assemblaggio dei “pezzi” in un nuovo ordine […] Il collage permette la riappropriazione di uno sguardo dai margini, fa emergere contraddizioni, svela il nascosto, l’invisibilizzato e il represso; imbarazza, turba e meraviglia chi guarda” (Cerioli 2019 p. 73).
Collage di Giulia Cerioli tratto da Corpo Umano? No! Un percorso visuale tramite il collage di Giulia Cerioli, Liberazioni. Rivista di critica antispecista, 2019.
Immagine per gentile concessione dell’artista.
Conclusione
In questo contributo ho raccontato un percorso possibile per tentare di decostruire la cura come femminilizzata e amorevole, per provare a immaginare altre forme di cura con la comunità senza indirizzarla verso una specifica situazione o soluzione, ma anzi osservando cosa affiorerà di nuovo e imprevisto da un processo collettivo di costruzione di saperi.
L’obiettivo è re-immaginare tempi e ruoli in luoghi che creano e ospitano una comunità di cura nello spazio pubblico, per poter pensare il prendersi cura come atto collettivo promiscuo e radicale, come commoning urbano che trascenda le mura domestiche femminilizzate, che pensi una condizione di cura deprivatizzata e promiscua organizzata in una comunità che accolga l’interdipendenza mettendo in discussione la suddivisione tradizionale dello spazio in pubblico e privato.
Disegnare insieme un quartiere accessibile che non risponda a logiche economiste (Pierallini, Tontodonati 2019), una città che permetta la convivenza di differenze, significa affermare il diritto di ogni persona alla città.
La formula del diritto alla città (Lefebvre 1974; Harvey 2012) è collettiva e trasformativa, volta a reinventare la città secondo le esigenze e i desideri dei gruppi sociali che rivendicano tale diritto; esso è infatti un significante vuoto e ogni componente della città ha il diritto di riempirlo di senso, anzi di sensi differenti.
Per un diritto alla città etico, solidale e in cui sia possibile una convivenza non gerarchica delle differenze, urge rinnovare l’interesse per la cura (The Care Collective 2020), pensandola come common urbano, logica di relazione e lavoro, messa in essere in luoghi che riconoscano la sua importanza.
La cura pensata come principio universale – il prendersi cura come commoning urbano – perché i commons non sono solo le pratiche con cui condividiamo in modo egualitario le risorse che produciamo, ma sono anche un impegno a creare un soggetto collettivo, un impegno a promuovere l’interesse comune, a respingere ogni gerarchia e ogni principio di costruzione dell’altro in base a criteri di esclusione (Federici 20212; Moïse 2021).
Così la cura, intesa come «orientamento etico, stato emotivo, prassi concreta» (Pirate Care 2021: 161) può essere metodo e faro per orientarsi in un mare sterile e burrascoso verso una terraferma biodiversa e feconda.
Note
[1] Seguendo la proposta di Malatesta, con il termine bambinə: «ci si riferisce agli individui in età scolare che frequentano la scuola primaria, dunque, a grandi linee, di età compresa tra i 5 e gli 11 anni» (Malatesta 2015: 32).
[2] La pratica del disegnare, come ogni altra modalità espressiva, potrebbe creare disagio in alcunə partecipantə, e in tal caso saranno decise insieme altre pratiche: le modalità di espressione saranno infatti proposte e negoziate in una fase preliminare per far sì che si crei uno spazio il più sicuro possibile per tuttə.
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Francesca Acetino è dottoranda in studi geografici presso l’Università di Padova e Ca’ Foscari di Venezia. Filosofa e semiotica di formazione, si interessa della connessione tra spazi e studi di genere. Le sue ricerche si focalizzano soprattutto sul rapporto tra lavoro domestico e di cura e spazio pubblico.