Nell’ospedale psichiatrico in cui lavoro, anni fa era in uso un sistema elaboratissimo per mezzo del quale l’infermiere di turno si garantiva di essere svegliato ogni mezz’ora da un malato, per poter timbrare la sua scheda di presenza, cosi com’era d’obbligo. La tecnica consisteva nell’incaricare un malato (che fra l’altro non poteva dormire) di dividere il tabacco di una sigaretta dalle briciole di pane che vi erano mescolate. L’esperienza aveva dimostrato che per questo lavoro di smistamento, occorreva appunto mezz’ora, dopo di che il malato svegliava l’infermiere e riceveva in premio il tabacco. L’infermiere timbrava la sua scheda (era necessario che testimoniasse ogni mezz’ora di essere sveglio) e riprendeva a dormire, incaricando un altro malato o lo stesso malato di ricominciare – nuova clessidra umana – il suo lavoro alienante.
L’istituzione negata, Franco Basaglia
Giovanni Ferrara, Sesta Sezione Donne, 2016
vestito, oggetti e cubi di resina
La legge 180 del 1978, nata dalla spinta fortemente critica e autocritica di un sistema psichiatrico che rifiutò ogni mandato sociale in cui si considerava il malato mentale come un non uomo, tuttora può considerarsi ancora non compiuta. Il dibattito si è appiattito e la rivoluzione istituzionale che interessava l’ospedale psichiatrico è divenuta un processo sterile in cui la mancanza degli strumenti necessari all’attuazione della legge Basaglia ha consentito la nascita di altre forme di istituzioni totali. Il manicomio rappresenta quindi un angolo nascosto in cui nel corso del tempo sono state abbandonate le situazioni più scomode e contraddittorie di una società che giustificava determinati atteggiamenti conferendo finalità educative agli abusi, ai letti di contenzione, alle celle e sopratutto all’annullamento dell’identità personale di ogni malato mentale. Queste considerazioni rappresentano la base del lavoro Sesta sezione donne, nato da una ricerca artistica il cui obiettivo è stato di ricostruire la storia di mia zia Raffaela rinchiusa all’interno dell’ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” di Napoli nel 1946.
La permanenza del malato mentale all’interno del manicomio ha come unica testimonianza diretta la stesura della sua cartella clinica, documenti fondamentali per comprendere il processo di oggettivazione del malato mentale, il ritmo istituzionale a cui è sottoposto e soprattutto la perdita del contatto con la società esterna. L’internamento che dovrebbe avere finalità terapeutiche, diventa invece l’inizio di un processo che conduce all’annientamento dell’individualità, l’internato diventa la rappresentazione non più della propria soggettività ma l’espressione della sua malattia e il suo corpo custodito dall’istituzione totale che esercita su di esso tutto il suo controllo attraverso la violenza. L’opera realizzata è un’installazione che si presenta come il tentativo di ricostruzione dell’individualità personale di Raffaela attraverso il recupero dei suoi oggetti cercando di creare una narrazione parallela ed opposta all’assoluta anonimità del manicomio. Nella prefazione del libro Diario di una diversa di Alda Merini, Giorgio Manganelli scrive: «Dentro il manicomio tutto è sacro, ogni oggetto è vivo, può essere tormentoso o amoroso, ma in ogni modo reca in sé una sconvolgente volontà di significato». Gli oggetti quotidiani il cui possesso all’interno delle strutture manicomiali era proibito, assumono un ruolo fondamentale all’interno dell’opera, inseriti in cubi di resina vengono isolati dal contesto originale, lasciati sospesi nello spazio, evocando la condizione di perenne attesa presente all’interno delle strutture manicomiali. Un ultimo tentativo estremo di cristallizzare il tempo, cercando di ritrovare le identità di tutti coloro che varcata la soglia dell’ospedale psichiatrico si sono dispersi in un ricordo ormai sbiadito.
Il progetto prende il titolo dalla sezione donne numero sei, uno dei reparti presenti all’interno dell’ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” di Napoli, padiglioni in cui i malati mentali risiedevano durante il periodo di internamento.
L’istituzione all’interno di questi reparti esercitava sul corpo un potere violento e repressivo. L’obbligo di indossare, nelle sezioni femminili, una veste bianca diventava un processo di omologazione e di oggettivazione dell’internato. Il corpo omologato, privato della libertà personale diventa l’espressione di una contraddizione sociale e medica, frutto di un potere le cui finalità non erano il recupero del malato mentale ma la tutela dei sani nei confronti della follia. La veste diventa l’elemento sovversivo, oggetto utilizzato dall’istituzione totale per reprimere si trasforma invece in traccia della storia di vita di Raffaela, diventa all’interno dell’opera, la superficie bianca di una pagina di diario. Uno spazio libero su cui è ricamato il suo racconto attraverso un gesto intimo che nel silenzio rivendica la dignità di donna, oltre ogni peso dell’essere definito folle. Oggi degli ospedali psichiatrici restano solo le enormi strutture fatiscenti e dismesse, spazi che trasmettono la terribile sensazione di una sofferenza passata, ma restano soprattutto luoghi in cui gli archivi diventano custodi di storie e della storia.
Restituire l’identità negata è il compito principale di questa ricerca ma rappresenta per me anche l’inizio di un dibattito nei confronti dell’istituzione autoritaria, contro un potere che riconosce nella sopraffazione l’unica via da perseguire, facendo della malattia mentale una condanna biologica.
Giovanni Ferrara, nato a Napoli nel 1991, è un artista visivo. Si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Il suo lavoro di ricerca è legato al recupero della memoria storica e sociale contenuta all’interno degli archivi ed alla valorizzazione delle cartelle cliniche presenti nell’ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” di Napoli.