L’anima del mondo è dotata di sensazioni.
Il mondo è un grande vivente nel quale tutto simpatizza
ed è sottoposto a regole e corrispondenze.
Plotino, Enneadi
In un momento in cui il mondo va verso cambiamenti epocali esiste ancora uno spazio dove, in piena consapevolezza di ciò che sta accadendo, si cercano visioni e soluzioni plurime, contro il pericolo di un’unica narrazione. È un ambito privilegiato dove chi opera conosce la singolarità della propria condizione e i compromessi che la contraddistinguono. È proprio qui che, consci dell’impossibilità dell’uguaglianza delle posizioni, si incontrano due epistemologie, quella occidentale e quella dei mondi indigeni. Uno spazio che è protetto dall’ambiguità stessa dell’arte, che tutela entrambi i domini dalla costante esigenza che l’Occidente ha di creare e mettere in atto strutture, categorie e tassonomie. In questo ambito sono possibili trasformazioni rapide, intreccio di saperi, modi di conoscere e lo sviluppo di pratiche inusitate. Qui si formano figure sospese tra i mondi, capaci di farli entrare in rotte di collisione e, di conseguenza, espanderne i discorsi.
La pratica artistica di Oscar Santillàn (1980, Ecuador), che prende forma attraverso Studio Antimundo (di base tra Amsterdam e Guayaquil), si concentra sulle connessioni possibili tra forme di conoscenza indigena e nuove tecnologie, dalle cosmologie andine all’intelligenza artificiale e alla realtà virtuale.
L’antropologo Arnd Schneider nel suo articolo Sull’appropriazione. Un riesame critico del concetto e delle sue applicazioni nelle pratiche artistiche globali definisce l’artista come “interfaccia”, o punto nodale, che fornisce “un’entrata nelle culture” (Schneider, 2003, p.14). Nel caso di Oscar, questa definizione pare particolarmente calzante per aiutarci a capire la natura stessa di Studio Antimundo.
Antimundo è una rete collaborativa dove la pratica artistica di Oscar Santillàn s’incontra con il lavoro di scienziati, genetisti, biologi, programmatori di software, pensatori e antropologi indigeni e scrittori di fantascienza. Parallelamente è una dimensione agente, che respira e costringe a “contaminare” e “ibridare” le narrazioni e i saperi, a superare le convenzioni dominanti, a partecipare a intricate ecologie del sé. In altre parole, non è solo un insieme di strumenti analitici e critici per individuare i margini della nostra realtà normativa, ma un matrix che incarna l’incontro di culture materiali non correlate e ci consente nuovi punti di accesso.
Quest’articolo è solo uno dei percorsi possibili tra le note e gli appunti presi durante una recente conversazione con Oscar.
Oscar ed io ci siamo conosciuti nel 2014 a Como presso la residenza della Fondazione Antonio Ratti. Durante quelle tre settimane passate sul lago, Oscar fa domanda per prendere parte ad un altro programma di residenza, quello della Delfina Foundation a Londra. L’anno successivo, 2015, soggiorna per alcuni mesi nella Gran Bretagna pre-Brexit e la sua opera The Intruder, esposta presso la Copperfield Gallery, fa così tanto scalpore da scatenare la stampa britannica. I giornali reagiscono allarmati:
“Una pietra viene prelevata da una montagna e installata in una galleria d’arte. Arte o vandalismo?” (Williams, 2015)
“’Rivogliamo la nostra montagna’: Un artista ecuadoriano accusato di vandalismo dopo aver rubato la cima della montagna più alta d’Inghilterra per metterla in una galleria del South Bank di Londra.” (Hoare, 2015)
L’opera consiste nell’aver “trafugato” la punta di Scafell Pike [2], nel Lake District, e averla esposta su un piedistallo museale durante la sua prima personale nella galleria inglese. “La Gran Bretagna è diventata più bassa, in nome dell’arte” scrive indignato Philip Hoare, su The Guardian.
Per Oscar è “un piccolo gesto, suggestivo, che riflette sul modo in cui gli esseri umani hanno imposto le proprie categorie culturali sulla natura”. Il lavoro nasce infatti come commento diretto alle relazioni tra uomini e animali, soggetti e oggetti e alle concezioni convenzionali della storia.
Nei giorni successivi all’inaugurazione, però, si scatena un’accesa discussione mediatica che supera i confini della stampa: sui social media c’è chi chiede a gran voce ad Oscar di restituire o riportare la pietra sulla cima e chi invece inizia a tracciare paralleli interessanti con quanto viene custodito nelle vetrine di una delle più illustri istituzioni museali inglesi: il British Museum. Se a Santillàn, che ricordiamolo è ecuadoriano, viene chiesto di restituire la punta della montagna non sarebbe allora lecito che anche l’Inghilterra iniziasse a restituire i beni trafugati nei secoli dall’impero britannico [3]?
Quando ne parlo con Oscar concordiamo che l’aspetto più straordinario di The Intruder è l’aver rivelato la sua qualità di agente sociale, secondo la definizione di Alfred Gell (1998).
O: “Ci sono dei momenti della vita di un artista dove è l’opera d’arte che ti viene incontro. Pensavo di aver fatto un’opera, ma in quello stesso momento l’opera ne stava creando una diversa ed è stata proprio essa ad insegnarmi come fare un lavoro migliore.”
È una riflessione potente soprattutto se pensiamo che quest’opera nasce dal desiderio di tematizzare un certo senso di controllo, un preciso modo di capire il mondo attraverso categorie e tassonomie come ad esempio: “Quale è la montagna più alta d’Inghilterra?”.
O: “È stata la realtà stessa che mi ha posto di fronte a domande. Tentavo di controllare la mia opera, ero convinto che fosse conclusa in quanto era un pezzo che avevo immaginato, che credevo di aver concepito sotto ogni aspetto, in tutti i dettagli, con ogni sfumatura. Ed è stato proprio in quel momento che il mio senso di controllo ha accusato un brutto colpo ed è stato brutalmente cacciato fuori dal contesto. L’opera è diventata qualcosa di totalmente diverso da quello che significava per me. E in questo senso mi sento di dire che è molto migliore dell’artista, perché in grado di aprire scenari che io non riuscivo a vedere, a causare dibattiti che io non potevo immaginare.”
Parafrasando Oscar, potremmo dire che l’opera ci forza a un ripensamento della questione dell’intenzionalità, ci chiede di rivedere la nostra concezione culturale che relega l’intenzionalità a caratteristica dei soli esseri umani o, in alcuni casi, ad altri viventi animati. Ecco allora che, in un paradigma dove assegniamo delle capacità cognitive all’inanimato, tutta la questione dell’altro e dell’alterità, che ha popolato molti dei discorsi degli ultimi decenni, dev’essere ripensata [4].
La questione delle categorie e delle tassonomie affrontata con The Intruder torna spesso nei discorsi di Oscar e ci avvicina alla sua definizione di scienza e alla pratica che contraddistingue Studio Antimundo.
Mentre ne discutiamo, emerge l’attuale stato d’incertezza ma anche un’immensa potenzialità in quanto categorie, tassonomie e dicotomie di matrice occidentale (natura/cultura, umano/non umano, per fare alcuni esempi) si rivelano in tutta la loro fragilità. Oscar prende tra le mani il libro di David George Haskell The Songs of Trees. Legge ad alta voce alcuni passaggi del primo capitolo, dedicato all’albero del corallo che abita la foresta amazzonica dell’Ecuador, dove vive anche il popolo dei Waorani [5].
“La vita dei Waorani all’interno della foresta non ha prodotto alcuna tassonomia linneana delle piante. Molte «specie» vegetali hanno piú nomi e vengono descritte attraverso le loro molteplici relazioni ecologiche, o per il loro uso nella cultura umana, invece che con nomi individuali [6]. L’antropologa Laura Rival scrive che nonostante le domande insistenti e pressanti, i Waorani «non riescono in nessun modo» a indicare nomi specifici per ciò che gli occidentali definiscono «specie di albero»: descrivono sempre il contesto ecologico, per esempio la composizione della vegetazione circostante.” (Haskell, 2018, pp. 30-31)
Le categorie per i Waorani esistono quindi ma solo in forma di relazione, di reciprocità, di interdipendenza. E questo riguarda anche l’identità individuale o self, per utilizzare un termine d’origine anglosassone che però nella contemporaneità si è imposto a tutto l’Occidente (Wikan, 2012, pp. 119-139).
O: “La società Waorani non conosce l’equivalente dell’eremita chiuso in una caverna, o nella capanna di Thoreau, «vissi soltanto con il lavoro delle mie mani». I Waorani dicono di sé che «vivono come un sol uomo». L’individualità, l’autonomia e la competenza sono valori altamente riconosciuti, ma solo se espressi nel contesto della relazione con la comunità.” (Haskell, 2018, p. 31)
Questo concetto si ripercuote anche sui nomi attribuiti ai “singoli individui”, scelti dal gruppo in base alle relazioni. Ne consegue che “Lasciare un gruppo per unirsi a un altro comporta la morte del vecchio nome, l’acquisizione di una nuova identità, e l’impossibilità di tornare indietro.” (Haskell, 2018, p. 31)
Una classificazione dei viventi attraverso categorie come varietà, specie, genere, ordine e classe (come quella proposta nel XVIII secolo da Carl Linnaeus) non può più soddisfare.
È interessante notare come la cosmologia occidentale che chiamiamo “scienza moderna” si basa su una fantasia fortemente radicata, la falsa convinzione che il nostro mondo sia completamente conoscibile, e quindi, dominabile. È chiaro come la crisi ecologica sta facendo vacillare questo immaginario. Ci troviamo di fronte a una nuova esigenza: è Gaia che ci fa vedere con violenza il limite del pensare all’ambiente solo in termini di sfruttamento o di tutela. Gaia ci impone di ripensarci in qualità di trame di relazioni – positive, negative o ambigue.
Oscar spiega: “Quando parlo di scienza nell’ambito di Antimundo non mi riferisco esclusivamente alla scienza moderna ma a quella che chiamo ‘scienza espansa’. Da questa parte del mondo, la scienza iniziò migliaia di anni fa – ancora prima che nascessero la matematica e l’architettura Maya – quando le comunità di cui non conosciamo i nomi impararono a intrecciare le loro vite con i cicli ecologici del pianeta, qualcosa che va oltre il puro utilitarismo di caccia e raccolta. Se poi per scienza intendiamo interfacce per relazionarsi sistematicamente con la realtà, possiamo comprendere questa espansione del concetto come un matrix in cui si adattano la scienza moderna, le cosmologie indigene o la cibernetica [7]”.
La domanda che si pone Antimundo è: “Come possiamo raccontare altre storie, quelle messe in ombra dalla scienza ufficiale?”
Come si relaziona tutto questo con la tecnologia? Usiamo come punto di partenza la terza legge dello scrittore di fantascienza Sir Arthur C. Clarke che recita:
“Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia” (Clarke, 1962)
O: “La legge che tu stai citando ci racconta che, dalla rivoluzione industriale in poi, qualsiasi essere umano che possa viaggiare nel tempo e veda la tecnologia adottata da altri che vivono in un epoca successiva alla propria, la considererebbe magia e non tecnologia. C’è un altro elemento interessante da tenere in considerazione e cioè che, allo stato attuale delle cose, le nostre tecnologie, per noi, qui ed ora, funzionano già come magia. Si potrebbe dire che questo succede costantemente tra coloro che usano (user) la tecnologia. Per fare un semplice esempio, tu ed io pur essendo in due diversi continenti ci stiamo vedendo e stiamo chiacchierando in tempo reale: usiamo una tecnologia di cui ignoriamo il funzionamento ma, da quando il machine learning è diventato preminente nell’ambito dell’intelligenza artificiale (IA) questo “non sapere” è ormai una realtà anche per i programmatori. Oggi giorno, quando lavori con gli algoritmi di machine learning, le reti neurali artificiali elaborano i dati e, sostanzialmente, imparano autonomamente, andando a cercare soluzioni appropriate ai problemi. Il sistema con il machine learning diventa una grande scatola nera, e neppure i programmatori ne conoscono del tutto il funzionamento.”
– Abbiamo un input;
– Accade una magia e…abracadabra;
– Abbiamo un output!
O: “E questo è completamente antimoderno, perché la missione alla base della scienza moderna era quella di aprire le scatole nere della natura. Ed è qui che esiste un collegamento forte con le cosmologie indigene, perché potremmo dire che le persone nelle culture indigene sono capaci di trovarsi a proprio agio, di sentirsi a casa, tra le scatole nere dell’universo che ci circonda, lasciandole chiuse. Tutti i popoli del mondo hanno vissuto così fino all’Illuminismo, fino all’avvento della scienza moderna che ci ha promesso una spiegazione per ogni cosa. È straordinario vedere come le nostre stesse tecnologie, frutto della scoperta scientifica, si stanno trasformando in tecnologia antimoderna. Ci hanno sopraffatto, non possiamo comprendere oltre.”
Ѐ proprio qui che nella pratica di Studio Antimundo conoscenza indigena e nuove tecnologie, cosmologie andine e intelligenza artificiale, esplorano le possibilità aperte da questo che non è un capovolgimento ma, al contrario, un allargamento degli orizzonti, che permette nuovi intrecci tra scienza moderna e antimoderna.
O: “Non dobbiamo dimenticare che i mondi indigeni sono mondi cosmopoliti [8]. Molti dei gruppi indigeni che popolano la foresta amazzonica usano la tecnologia. Hanno smartphone e social media. La concezione delle società indigene come mondi “puri”, incontaminati, da opporre alla rappresentazione di un Occidente decadente, è un’idea fuorviante di matrice occidentale. Molte delle comunità indigene hanno scelto di essere tessitrici di nuove realtà.”
Come la navetta di un telaio, sale e scende, entra e esce tra i fili che compongono l’ordito di un tessuto, così molte comunità indigene sanno come relazionarsi alle idee dell’Occidente e operare da dentro e da fuori i confini di entrambe le culture.
C’è anche un altro aspetto che riguarda un’idea fuorviante di America Latina.
O: “Nella tradizione intellettuale dell’America Latina del XX secolo, c’è stata una forte tensione tra scienza e cultura umanistica. Per spiegarlo, credo che il modo migliore sia citare il titolo di un libro che la sintetizza magistralmente. È un raccolta di saggi di storici della scienza di origine latino-americana, curata da Eden Medina, la cui ricerca utilizza la storia della scienza e della tecnologia come strumento per comprendere i processi di cambiamento politico nel continente. Il titolo è Beyond Imported Magic (Oltre alla magia importata). Nel XX secolo esisteva una narrazione dominante, l’America Latina come una terra piena di magia ma assolutamente inadatta alla scienza. Un po’ come se gli abitanti del continente fossero nati con una fantasia galoppante, una mente selvaggia non in grado di formulare quel pensiero razionale e sistematico che la scienza moderna richiede. Ed è anche per questo che il termine “realismo magico” è diventato così famoso. È un termine da cui io stesso rifuggo, un termine che ancora oggi mi causa non pochi problemi soprattutto perchè mi è stato spesso attribuito in riferimento al tipo di lavoro che producevo una decina di anni fa.”
La pratica di Oscar all’epoca era caratterizzata da quello che potremmo definire ” un’ambiguità poetica” che investiva lo spettatore, il quale spesso e volentieri si trovava a non essere più in grado di tracciare un confine preciso tra elementi reali e fittizi.
O: “Quando ho iniziato a dedicare molto tempo alla ricerca scientifica, e quindi alla scienza moderna ma anche alle cosmologie indigene nel loro modo di praticare una scienza antimoderna, ho iniziato a chiedermi perché il termine “realismo magico” mi stesse così stretto. E sono arrivato alla conclusione che il termine suggerisce che l’autore inietti una dose di fantasia nella realtà, ma non contribuisca alla produzione di conoscenza. Per me questo è un problema politico: in quanto artista latino-americano, m’impegno affinché la mia pratica venga riconosciuta come una forma di produzione di conoscenza, anche se può essere percepita come imbevuta di magia o di immaginazione”.
L’arte da tempo si è inoltrata nel dominio della ricerca, spesso si è trasformata nella ricerca stessa come forma d’arte. C’è in questo un mescolarsi di pratiche, di sensibilità e soprattutto un mettersi in gioco, un dover varcare dei limiti e mettere in dubbio degli ambiti.
Quella di Oscar è una delle tante nuove forme di resistenza decoloniale del continente “americano”. La sua pratica ha una spiccata agenda politica, scevra da moralismi. Non si tratta solamente di ribellarsi al termine realismo magico ma anche agli stereotipi imperanti rispetto alla produzione culturale e scientifica del continente latino-americano. Inoltre è una spinta verso la “rivalutazione” delle ecologie native e delle cosmologie andine come strumento di conoscenza scientifica. Una visione coloniale viene sostituita da narrazioni non lineari.
O: “Tornando al mio ruolo di artista, e alla sua funzione politica, vorrei aggiungere un elemento biografico. Io sono un meticcio, cioè nelle mie vene scorre sangue di diversi popoli, ma è stato l’Occidente che in larga misura ha dato forma alla mia realtà, al mio modo di capire il mondo. Ciò significa che ho dimenticato una parte fondamentale di me stesso. Tutto quello che non è conoscenza occidentale, vive nella mia memoria in forma di aneddoto. In quanto artista, la mia è un pratica di “rieducazione” continua. Ci tengo a sottolineare che in questo atteggiamento non ho nessun tipo di moralismo o di accusa nei confronti dell’Occidente, la cui narrazione è così potente: ti ingloba, ti avviluppa, ti unifica. Ci vorranno molti anni per riacquistare la conoscenza perduta. M’interessa imparare, ipotizzare. Alle volte, quando ne sento il bisogno, mi prendo delle licenze, mescolo, contamino forme di conoscenza e di relazione con il mondo.”
—-
In una delle sue più recenti conferenze presso il Colby College, nello stato del Maine dove si trova in qualità di visiting scholar, Oscar cita una poesia del 1967 di Richard Brautigan, All Watched Over by Machines of Loving Grace (Vegliati da macchine dotate di grazia amorevole). Qui il poeta, ispiratore di tante generazioni di scrittori della Bay Area, sogna una realtà dove esseri viventi e computer vivono insieme in armonia, in programmazione reciproca. È un pensiero, legato al socialismo utopico e a quelli che si sono rivelati essere i limiti della visione degli anni ’60/’70, che si basa sulla speranza che la cibernetica abbia raggiunto uno stadio tale da consentire il ritorno all’equilibrio della natura e l’eliminazione della necessità del lavoro umano.
I like to think (and
the sooner the better!)
of a cybernetic meadow
where mammals and computers
live together in mutually
programming harmony
like pure water
touching clear sky.
I like to think
(right now, please!)
of a cybernetic forest
filled with pines and electronics
where deer stroll peacefully
past computers
as if they were flowers
with spinning blossoms.
I like to think
(it has to be!)
of a cybernetic ecology
where we are free of our labors
and joined back to nature,
returned to our mammal
and all watched over
by machines of loving grace.
Mi piace immaginare
(prima è, meglio è!)
un prato cibernetico
dove mammiferi e computer
vivono insieme in reciproca
programmata armonia
come acqua pura
che tocca il cielo terso.
Mi piace immaginare
(ora, ve ne prego!)
una foresta cibernetica
di pini ed elettronica
dove i cervi passeggiano pacifici
oltre i computer
come fossero fiori
con boccioli rotanti.
Mi piace immaginare
(che così sia!)
un’ecologia cibernetica
dove siamo liberi dal lavoro
e ci riuniremo alla natura,
tornando dai nostri
fratelli e sorelle mammiferi
e insieme vegliati
da macchine dotate di grazia amorevole [9].
Tenendo in sottofondo le parole di questa poesia, spogliandola della radice utopista e investendola dei nuovi paradigmi della “scienza espansa”, possiamo concludere con Treelemma [10], un progetto lanciato qualche giorno fa da Studio Antimundo.
Oscar Santillàn, insieme ad un gruppo di ricercatori, sviluppatori e artisti, vuole esplorare le possibilità degli NFT, impiegando la blockchain technology come medium artistico. Questa tecnologia è un meccanismo di database avanzato che consente la condivisione trasparente di informazioni all’interno di una rete. Si tratta, in relazione all’emergenza ecologica, di trasformarla in uno strumento nativo, creativo.
Quando sul pianeta terra brucia una foresta, un’intelligenza artificiale si risveglia. Per reazione al trauma che il pianeta sta attraversando, scrive una poesia e crea un’animazione che diviene un NFT. È un modo di contribuire alle azioni di allarme per il cambiamento climatico, richiamandosi proprio alla visione di Brautigan sulle foreste del futuro. Siamo di fronte ad un allargamento delle prospettive che il dominio dell’arte ci consente. Mondi nativi, tecnologia, attivismo ed ecologia trovano nuovi equilibri.
NOTE
[1] La conversazione è avvenuta in inglese, tutte le traduzioni sono a cura dell’autrice dell’articolo.
[2] Un sassolino alto un pollice, ossia 2,5 cm.
[3] Rispetto al problema delle restituzioni in Inghilterra si veda il lavoro di Hicks, 2020.
[4] In riferimento a questi aspetti vedi l’opera di Oscar Santillan, Solaris (2017), che si ispira al romanzo di Stanislaw Lem e anche il lavoro dell’antropologa peruviana Marisol de la Cadena sui Tirakunas (esseri che possiedono capacità cognitive senza bisogno di un cervello) nella tradizione dello sciamanesimo andino.
[5] Waorani visitato il 29.12.2022.
[6] Vedi a proposito di un’altro gruppo che abita l’amazzonia ecuadoriana, gli Achuar, il volume di Maurizio Gnerre, La saggezza dei fiumi. Miti, nomi e figure dei corsi d’acqua amazzonici, Milano, Meltemi, 2003.
[7] Per una definizione di cibernetica in relazione a Studio Antimundo, vedi il lavoro del sociologo britannico Andrew Pickering che la definisce “un tipo di scienza nomade che, invece di cercare di dominare la realtà come la sua controparte moderna, sviluppa piuttosto un teatro ontologico tra umani e non umani.”
[8] Si veda a questo proposito il lavoro dell’antropologo Eduardo Kohn.
[9] Trad. dell’autrice
[10] Treelemma
BIBLIOGRAFIA
Brautigan Richard, All Watched Over by Machines of Loving Grace, 1967.
Disponibile presso LINK [visitato il 22/12/2022].
Clarke Arthur C., «Hazards of Prophecy: The Failure of Imagination» in: Profiles of the Future: An Inquiry into the Limits of the Possible, Victor Gollancz Ltd Londra, 1962.
Gell Alfred, Arte e Agency. Una teoria antropologica, Raffaello Cortina Editore, Milano, Ediz. orig., 1998.
Haskell David George, Il canto degli alberi. Storie dei grandi connettori naturali, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018, trad. Stangalino Chiara. Ediz. orig., 2017.
Hicks Dan, The Brutish Museum, The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution, London, Pluto Press, 2020.
Hoare Philip, «A stone is taken from a mountain and installed in an art gallery. Art or vandalism?» in The Guardian, Londra, 27 marzo 2015. Disponibile presso LINK [visitato il 22/12/2022].
Kohn Eduardo, Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano, nottetempo, Milano, 2021, trad. Lucera Alessandro e Palmieri Alessandro. Ediz. orig., 2013.
Medina Eden, da Costa Marques Ivan, Holmes Christina (a cura di) Beyond Imported Magic. Essays on Science, Technology, and Society in Latin America, The MIT Press, Cambridge Massachusetts-London, 2014.
Pickering Andrew, The Cybernetic Brain: Sketches of Another Future. The University of Chicago Press, Chicago, 2010.
Santillan Oscar e Troncone Alessandra, The Andean Information Age, Bom Dia Publications, Berlin, 2020.
Schneider Arnd, «Sull’appropriazione. Un riesame critico del concetto e delle sue applicazioni nelle pratiche artistiche globali» in: Antropologia, Anno 8, n. 11, 2003, Meltemi, Milano, trad. Bargna Ivan, pp 13-32.
Williams Amanda, «‘We want our mountain back’: Ecuadorian artist accused of vandalism after stealing the top of England highest pick to put in a gallery on London’s SouthBank»: in The Daily Mail, Londra, 26 marzo 2015. Disponibile presso LINK [visitato il 22/12/2022].
Wikan Unni, «Against the Self: For a Person Oriented Approach» in: Resonance. Beyond the words, The Chicago University Press, Chicago, 2012.
Oscar Santillàn è un artista visivo la cui pratica parte da un approccio transdisciplinare che lo ha portato a continue collaborazioni con scienziati, umanisti e altre menti curiose. La sua formazione è iniziata nei primi anni 2000 come artista autodidatta in Ecuador. Nel 2011 ha conseguito un MFA in Scultura presso la VCU-Virginia Commonwealth University, negli Stati Uniti. Successivamente è stato artista in residenza presso Skowhegan (Stati Uniti), Jan van Eyck (Paesi Bassi), Fondazione Antonio Ratti (Italia), Delfina Foundation (Regno Unito) e l’Osservatorio Astronomico di Leida (Paesi Bassi). È stato uno dei promotori di “órbitat”, una piattaforma per l’incontro tra arte, scienza e tecnologia in America Latina.
Il suo lavoro in Italia è rappresentato dalla galleria Tiziana di Caro (Napoli).
Anna Castelli è una ricercatrice indipendente. Il suo lavoro riguarda il rapporto tra arte e antropologia nell’ambito della storia dell’arte globale. Insegna presso la NABA (Milano) e all’Università IULM (Milano) dove è parte di una ricerca interdipartimentale sul tema “Popoli indigeni del Centro e Sud America tra storia, memoria, attivismo, musei e arte”. Ha scritto, insieme a Franco La Cecla, Scambiarsi le arti. Arte & Antropologia (Bompiani, 2022) e ha curato la mostra L’infanzia del segno. Disegni di bambini della Nuova Guinea della Collezione Wirz per il MUSEC (Lugano).