Schiacciare l’uva, foto dell’autore a scuola
1 – I gingko
Novembre, appuntamento fisso della nostra classe di scuola primaria: la raccolta delle bacche del gingko, quelle specie di frutti costituiti da semi ricoperti da un involucro carnoso carico di acido butirrico che emanano un odore nauseante. Le bacche del gingko infatti sono prodotte dalle piante femmine di questa specie che risale al Permiano, detta fossile vivente poiché è tra noi umani dopo essere sopravvissuta ad almeno due grandi estinzioni di massa. La particolare modalità di riproduzione di questi alberi prevede la caduta a terra delle bacche e poi la loro trasformazione putrescente che rende possibile la fecondazione e quindi la continuità della specie.
Fin dalla prima elementare il mese di novembre prevede un’uscita fissa per andare a raccogliere i semi del gingko, tra lo stupore del primo anno e i versetti schifati ma in fondo divertiti degli anni successivi. Sì, perché la puzza ricorda molto quella della cacca ed è veramente tremenda, tanto che il luogo di raccolta a volte si può individuare seguendo la scia dell’odore. I bambini e le bambine ormai lo sanno, sono in terza, e quest’anno la coltivazione dei gingko deve portarci a vendere le piantine germinate come attività di autofinanziamento. L’odore è forte, tutti fanno versi ma tutti vogliono sentirlo, quell’odore è la condizione e la prova della fecondazione, la dimensione sensoriale della continuità della vita. Piantare gingko non è come piantare fagioli, con i gingko devi uscire quando fa freddo, andare a cercare l’albero, sporcarti e superare il disgusto della puzza, poi devi mettere le bacche nei vasi e aspettare alcuni mesi, avere fiducia, ritornare a vestire i panni del contadino che si affida alla terra e sa attendere, che può fallire. Se i gingko non facessero puzza l’esperienza non avrebbe lo stesso valore. Qui sensazione e cognizione vanno insieme e il disgusto è il rito di passaggio per rientrare, anche se per un attimo, nel mondo contadino ormai scomparso, nel quale letame, fatica e rischio di insuccesso accompagnavano le attività quotidiane per la riproduzione dell’esistenza. Quando organizzo la raccolta dei gingko la penso come un’esperienza per ricollegarsi all’universo sensoriale plurimillenario esistente fino agli albori della rivoluzione industriale, prima del progresso delle pratiche igieniche e dell’abbassamento della soglia di tolleranza olfattiva, quando si viveva immersi in un mondo di odori ancora potenti.
In fondo la credenza della generazione spontanea si fondava sull’idea della nascita del vivente dal putrescente, in una cosmogonia dominata dalla forza arcana della putredine, un’idea che rendeva letteralmente inimmaginabili quelle che oggi consideriamo normali pratiche igieniche.
Le “bacche” puzzolenti del gingko, foto dell’autore a scuola
2 – La dominanza visiva
Tra Otto e Novecento la rivoluzione igienica si è affermata parallelamente alla progressiva scolarizzazione di massa. L’igiene è divenuta subito una delle materie trasversali della scuola elementare dell’Italia unita, contribuendo a trasmettere abitudini di prevenzione e informazioni fondamentali per ridurre le occasioni di contagio di malattie endemiche tra le classi sociali povere. L’azione della scuola ha potuto divenire via via più efficace man mano che le condizioni di esistenza delle classi proletarie andavano migliorando, che la dieta giornaliera diventava più nutriente e che la frequenza scolastica – anche solo per due o tre anni – diveniva compatibile con il bilancio familiare, cui veniva sottratto il lavoro prezioso di bambine e bambini nella cura degli animali e dei campi.
Questo lungo percorso però, mentre disinfettava i visi e le mani dei fanciulli, insieme ai germi lavava via anche una buona dose della dimensione sensoriale dell’approccio alla realtà. Gli uomini dell’era industriale prendevano progressivamente le distanze dal proprio corpo, la rivoluzione antropologica sostituiva alla tastiera dei cinque sensi un vivente che si voleva emancipato dal mondo animale e che vedeva se stesso ridefinirsi ad immagine della macchina. La nuova epoca, inaugurata da quella che è stata definita “la privatizzazione degli escrementi”, vedeva realizzarsi in occidente una società nella quale la gerarchia tra i canali percettivi mutava nettamente, producendo il trionfo della vista (e in parte dell’udito) parallelamente ad una progressiva censura e atrofizzazione dei sensi maggiormente caratterizzati dalla contiguità e dal contatto.
Anche il mondo della pedagogia si è sviluppato fin dall’Ottocento seguendo le coordinate che valorizzano la distanza, rendendo praticamente inutile o pericoloso in classe l’uso di sensi come il tatto e il gusto, mentre l’olfatto rimaneva vigile come un dispositivo di allarme sul mancato rispetto delle norme igieniche. Tutta la didattica, anche quella elementare, si svolgeva senza bisogno di questi sensi, potenziali distrattori dell’attenzione convergente verso l’insegnante. Le esperienze meritorie di Montessori e Freinet, con la promozione di attività sensoriali per i bambini e le bambine più piccoli, costituirono un segnale della consapevolezza di questa dimensione parziale e amputata della crescita scolastica, ma giunsero al massimo a promuovere dei freni e dei rallentamenti in un percorso di sviluppo che non ha patito grossi intoppi ed è proseguito fino al presente.
Sporcarsi le mani con il fango, foto dell’autore a scuola
3 – La scuola di oggi
Cosa c’entra questa riflessione un po’ estemporanea sulla didattica elementare in una rivista sull’arte contemporanea al crocevia di antropologia e cultura visuale? Poco forse, ma i fruitori e creatori di arte di domani sono le scolare e gli scolari di oggi, è nelle scuole e negli spazi relazionali e percettivi dell’infanzia che si creano i presupposti dei gusti futuri.
Oggi, ad esempio, credo che la moda di ritorno della scuola cosiddetta “montessoriana” o della “pedagogia Wardorf” negli ultimi anni rappresenti il segnale del disagio percepito dai genitori di fronte ad una dimensione sempre più astratta dell’apprendimento, che tende a sostituire la scrittura corsiva con la videoscrittura e la formulazione dei pensieri con la crocettatura delle risposte nei test di comprensione. Anche il movimento delle scuole all’aperto, per ora limitato ad esperienze periferiche, prende forza in nome del bisogno di riappropriarsi anche percettivamente della realtà. L’idea di estendere l’aula al di fuori dell’aula implicherebbe però una faticosa riconquista dei giardini e dei cortili delle scuole che si compie calpestando, toccando, scavando, sporcandosi le mani, imprimendo segni e scritte al di fuori dei confini della lavagna e del quaderno. A fronte di una crescita dell’inquinamento cittadino e della riduzione delle aree verdi disponibili direttamente alle scuole, la reazione non può che essere di resistenza e di valorizzazione delle poche situazioni ed esperienze possibili che suggeriscono strade alternative. Non è facile perché gli edifici che ospitano le scuole risalgono in gran parte (44%) agli anni tra il 1961 e il 1980 e comunque il 74% di essi sono stati completati prima del 1980; questi edifici incarnano nella propria struttura architettonica un’idea di istruzione ancora disciplinata all’interno dell’aula che esprime una fiducia totale nella cementificazione degli spazi. Così i tentativi di mutare paradigma didattico si affannano a lottare per interventi correttivi dal fiato corto: giardini verticali, coperture dell’asfalto con manti erbosi sintetici, materassini di gomma nei corridoi “primo novecento”. Eppure, anche in questi spazi alienati, i sensi reietti possono ritrovare un luogo per esprimersi, sopravvivendo in queste nuove generazioni almeno come desiderio o nostalgia di pienezza e frammento di una possibile esperienza meno alienata, percezioni che si spera diventino in futuro un ricordo suggestivo e stimolante per provare a mutare le città e le scuole opprimenti in cui si vive oggi.
4 – Entriamo in classe
Negli ultimi decenni gli effetti della dominanza visiva e uditiva nella didattica mainstream nella scuola elementare si sono incrociati con quelli dell’ossessione securitaria igienica e fisica e con le ricadute dell’espropriazione corporea dell’e-learning. Nella scuola elementare si tocca sempre meno. Non si annusa più nulla da tempo. È vietato gustare i cibi prodotti artigianalmente da genitori o artigiani oppure elaborati in classe.
Prendiamo ad esempio la merenda. Il Regolamento UE n. 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari dà precise direttive, tali per cui non è più possibile portare cibi fatti in casa in occasioni di compleanni o feste per evitare potenziali intossicazioni alimentari, allergie e intolleranze. La normativa non vieta ai bambini di portare la merenda casalinga, ma incarica le maestre e i maestri di controllare che i bambini non condividano il cibo portato da casa con gli altri compagni, ad esempio per mutui assaggi. Ovviamente la direttiva si estende ad ogni assaggio di alimenti anche preparati a scuola, così organizzare la preparazione del pane e del formaggio o la fermentazione del succo d’uva diviene impossibile, a meno di privare l’esperienza della possibilità degli assaggi intermedi e finali di ciò che si è preparato. Anche la cura dei piccoli orti scolastici in teoria non potrebbe terminare con l’assaggio dei prodotti, né sarebbe lecito gustare in ambiente scolastico i semplici infusi di menta o fiori di tiglio raccolti in giardino. Perfino condire le pietanze della mensa con qualche spezia non prevista nel menu si configura come attività illegittima, in contrasto con le direttive.
Un altro esempio: la neve. La nostra scuola, che è collocata in uno splendido giardino, in passato ha sempre festeggiato l’avvenimento-neve con grande entusiasmo: siamo sempre usciti e nelle annate più fortunate abbiamo gestito la neve per varie ricreazioni facendo le classiche esperienze: palle di neve, pupazzi, scivolate con i sacchetti dell’immondizia sotto il sedere; i bambini si bagnavano ma allo stesso tempo si organizzavano per non bagnarsi: la neve diventava la materia prima di un’esperienza sensoriale totale e preziosa. Quattro anni fa però, con l’ultima ingente nevicata, la situazione è mutata – temo in maniera non facilmente reversibile. In questa occasione è arrivata l’ordinanza del sindaco che proibiva alle scuole cittadine di uscire per evitare il rischio che i rami degli alberi si spezzassero sotto il peso della neve con i bambini in giardino. Certo, una precauzione legittima, ma è la prima volta nella storia che viene formulata, e l’effetto è di interdire ogni contatto tra allievi e le neve nel contesto scolastico. Credo sia difficile che in futuro queste attenzioni – forse un po’ esagerate – alle ragioni della sicurezza si possano attenuare, poiché la catena delle responsabilità spinge ogni attore prima di ogni altro ragionamento a tutelarsi burocraticamente rispetto a ciò che potrebbe accadere; il principio sacrosanto della precauzione è divenuto – in questi casi – talmente forte da cancellare interi campi di esperienza.
Impastare, foto dell’autore a scuola
5 – Quanto costa una Lim
La Lim, lavagna interattiva multimediale, è stata fortemente promossa dagli ultimi ministeri che hanno investito somme ingenti di denaro per dotare una parte delle aule italiane del dispositivo. A loro volta molti gruppi di genitori nelle zone più benestanti del paese si sono organizzati per dotare a loro spese l’aula dei propri figli di questo strumento, visto come indispensabile per qualificare l’apprendimento e renderlo “moderno” e al passo con i tempi. Il costo medio di una Lim si aggira sui 2500 euro. Di cosa si potrebbe dotare una classe con quei soldi, se decidessimo di privilegiare un approccio sensoriale all’esperienza? Facciamo una prova:
100 chili di creta da modellare, un kit di 30 calamite e limatura di ferro per esperienze sul magnetismo, 200 litri di terriccio e una ventina di confezioni di sementi per allestire una ventina di orti in cassetta, 50 dadi da lancio, 50 compassi, 30 palloni, 30 corde per il salto, 15 kit per cucire, 40 chili di farina e di sale per fare impasti, 20 litri di tempere, 50 pennelli, 5 scatole di gessi grandi colorati, … siamo a 853 euro. Tenendo conto che il 90% della funzionalità di una Lim è riproducibile con un computer portatile collegato ad uno schermo grande, acquistabili con meno di 600 euro, con la metà dei soldi che vengono spesi per una Lim si potrebbero fare molte più cose rendendo bambine e bambini protagonisti attraverso i loro sensi più bistrattati, senza per questo privarsi della possibilità di vedere filmati su grande schermo. Eppure la gran parte degli investimenti ministeriali vanno nella direzione opposta, di un precoce e-learning che sottrae esperienze concrete ai bambini e alle bambine e riempie le scuole di ingombranti strumentari tecnologici precocemente obsoleti e la testa dei docenti di decine di corsi di formazione sul pensiero computazionale da applicare già a sei anni.
La terra è tutta da scoprire, foto dell’autore a scuola
6 – Lasciamoli impastare
Nelle scuole elementari chi insegna ha la responsabilità di aprire nella didattica e nelle ricreazioni finestre segrete per la fuoriuscita dei bambini e delle bambine dagli schermi del conforme sensoriale.
Esistono poche attività che dovrebbero essere sempre a disposizione di chi sta nelle classi per imparare, di cui basta fare un semplice elenco per renderci conto di quante interdizioni mentali limitino il nostro movimento didattico come insegnanti. Eppure non è difficile.
Lasciamo loro impastare il fango, la sabbia, diamogli farina per preparare la pasta madre, aggiungiamo sale e olio per avere una specie di pongo, facciamogli schiacciare l’uva e assaggiare il succo e annusarlo e attendere giorni e annusare il vino e l’aceto e poi usiamo l’aceto per seminare tracce a terra da scoprire fiutando come sanno fare i quadrupedi. Facciamo che in palestra o durante gli intervalli stiano a piedi scalzi, che impastino i loro corpi, che si schiaccino in giochi in cui ci si rotola gli uni sugli altri, le une sulle altre, che si annodino e si snodino tra loro. Bendiamole e bendiamoli, facendo sì che si ricordino come è ruvido e liscio il mondo intorno a loro, come sono fatti i visi dei compagni, come è bagnata l’acqua, come è scivoloso l’olio, che forma hanno le penne, le gomme, le mani dei compagni…
Non proteggiamoli dai graffi, dai disinfettanti che bruciano, non sottraiamo loro l’esperienza traumatica ma fondamentale di sbucciarsi le ginocchia giocando in giardino e di imparare quanto il nostro corpo ci aiuta a proteggerci dalle ferite che non sono gravi; non impediamo loro di piantare chiodi, di avvitare viti, di usare la carta vetrata; …facciamogli toccare, assaggiare e annusare il mondo. Occorre praticare un insegnamento pronto a cogliere queste piccole occasioni eversive rappresentate dalle puzze, dal fango, dai profumi, dalle manipolazioni, dai sapori e dalle carezze, per continuare a sperare in una società futura che sappia perlomeno intuire e percepire le proprie alienazioni… E chissà, che prima o poi non provi ad emanciparsene.
Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Con Davide Montino ha curato La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario (Ombre corte, 2009) e con Alberto Burgio è autore di Il razzismo (Ediesse, 2012). Ha inoltre pubblicato Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). Ha contribuito alla realizzazione delle mostre La menzogna della razza (1994), I problemi del fascismo (1999), Il mito scolastico della marcia su Roma (2012).