1. Introduzione
Nel 1935, appena due anni dopo la salita al potere da parte di Hitler e del partito nazionalsocialista, l’Ufficio di politica razziale patrocinò la realizzazione di un cortometraggio diretto da Carl C. Hartmann dal titolo Das Erbe, “L’Eredità”. In modo visivamente molto efficace, il film mostra il meccanismo attraverso il quale la lotta per la sopravvivenza agisce, selezionando gli individui più forti di specie diverse: “anche gli animali perseguono una politica razziale!”, esclama la giovane assistente dello scienziato che spiega il significato del video, mostrandolo ai suoi colleghi. Cosa accadrebbe a quelle specie animali se così non fosse, è evidente dalle immagini di individui affetti da malattie che deformano i loro volti e che testimoniano come l’uomo abbia consentito la loro sopravvivenza, permettendo la loro riproduzione e quindi la diffusione fuori controllo delle loro patologie nella società.
L’opera è particolarmente interessante, perché pur non essendo stata realizzata per educare e preparare il popolo all’uccisione delle “esistenze-zavorra” e dei “mangiatori inutili” (K. Binding, A. Hoche, 1922), mostra come la selezione ad opera della natura preveda, tra gli animali, la discriminazione degli individui più deboli e quindi la loro morte. In questo senso, può essere considerata il simbolo del momento di passaggio in cui la teoria eugenetica sposò la politica totalitaria del nazionalsocialismo e piegò a suo vantaggio le riflessioni che per decenni avevano animato il dibattito internazionale.
Ciò a cui i nazisti diedero il nome di Aktion T4 fu un programma di eutanasia iniziato ufficialmente a partire dal 18 agosto 1939. Alle operazioni di registrazione degli individui affetti da handicap fisici o disturbi mentali, seguirono quelle di sterilizzazione forzata e di trasferimento dei pazienti verso le cliniche organizzate allo scopo di uccidere le persone considerate indegne della vita. A Kaufbeuren-Irsee, dove era situata una delle cliniche utilizzate per l’attuazione del programma, l’ultima uccisione avvenne il 29 maggio 1945, tre settimane dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Cosa sanno, i tedeschi di oggi, dell’Aktion T4? Perché sembrano rapportarsi in maniera così difficile a questo evento, rispetto agli altri crimini commessi dalla Germania nazista? In quale modo la memoria di questo crimine è stata conservata dalle famiglie delle vittime?
La storia della famiglia di Jörg ben rappresenta tutte le altre storie che ho raccolto durante il mio lavoro di ricerca e può essere considerata un esempio specifico di meccanismi in atto nell’elaborazione e nella trasmissione di un trauma che si inserisce all’interno della difficile elaborazione del passato nazionalsocialista, che ha coinvolto l’intera società tedesca dal dopoguerra ad oggi.
La ricerca, che sto ancora portando avanti, vuole illustrare i meccanismi attraverso i quali la memoria delle azioni che portarono alla “morte misericordiosa” di quelle “vite indegne di essere vissute” (K. Binding, A. Hoche, 1922) è stata conservata nella dimensione privata e familiare e come e con quali caratteristiche è stata tramandata da una generazione a quella successiva.
2. La memoria dell’Aktion T4
Nell’ultimo capitolo del suo Zavorre, Aly Götz racconta un fatto avvenuto nel 1983, quando in una cantina all’interno di un cimitero nei pressi di Costanza furono ritrovate 192 urne funerarie contenenti le ceneri di vittime del programma di eutanasia nazionalsocialista, mai richieste dalle famiglie. Le urne furono seppellite solo più di quarant’anni dopo, per volontà degli uffici comunali.
La storia può essere presa a paradigma di come un numero molto elevato di pazienti sia stato ucciso nell’indifferenza generale, senza che nessun parente si sia interessato alla loro sorte in vita e anche negli anni successivi. Aly ci dice che l’apparato burocratico delle cliniche non era in grado, per un paziente su quattro, di stabilire chi fossero e dove risiedessero i parenti prossimi. Tuttavia, neanche tra le restanti tre famiglie su quattro, che quindi furono avvisate, ci fu necessariamente interesse. Tante altre urne sono sicuramente rimaste per decenni nelle cantine di molti cimiteri tedeschi e forse riposano ancora nel buio di qualche stanza. Se per il trasferimento dei minori era sempre necessario avere l’autorizzazione scritta da parte della famiglia, che quindi, di fatto, partecipava involontariamente (o meno) a condannare a morte il proprio figlio, per gli adulti non fu necessario avvisare preventivamente i familiari.
I medici che presentarono ai genitori la possibilità di sottoporre i bambini a terapie rischiose, esagerarono spesso sulla possibilità di riuscita positiva e quindi in moltissimi casi non si può affermare che i parenti fossero realmente nella posizione di capire cosa sarebbe successo, allo stesso modo delle famiglie dei pazienti adulti, che venivano a conoscenza dei trasferimenti da una clinica all’altra quando il viaggio era già avvenuto.
L’intera struttura del programma di eutanasia era stata costruita in modo che nulla potesse trapelare all’esterno e quindi con lo scopo di rendere labile lo spazio della responsabilità personale, permettendo, fin quando è stato possibile, che le famiglie dei pazienti non dovessero mai trovarsi faccia a faccia con la verità. Tuttavia, il “segreto” fu svelato: le notizie delle uccisioni di malati si diffusero tra la popolazione e nell’estate del 1941 le operazioni furono ufficialmente interrotte pur continuando, in modo decentralizzato, fino alla fine della guerra e anche oltre.
La storia di Jörg è un esempio di come la memoria di questi eventi sia rimasta nello spazio familiare con dolore, difficoltà e sia stata ereditata generando sentimenti complessi e questioni irrisolte. Per poter identificare i meccanismi traumatici con i quali le memorie sono state tramandate, va sempre tenuto presente che il valore che la cultura tedesca attribuiva alla famiglia aveva all’epoca caratteristiche e sfumature molto differenti da quelle di oggi e definiva, quindi, un diverso concetto di identità.
Il trauma qui analizzato riguarda azioni compiute da generazioni precedenti a quella del mio intervistato, che non era a conoscenza della storia del prozio ucciso nel programma Aktion T4 e dopo essersi imbattuto in questo “segreto di famiglia”, ha tentato di ricostruire per la prima volta le vicende del lontano parente che non ha mai conosciuto.
Jörg è nato nel 1977, è laureato in Storia e lavora come archivista. Alois Zähringer, il prozio, nacque il 20 settembre 1921 a Bleichheim, nel Baden-Württemberg. Il 9 agosto 1929 fu ricoverato nell’istituto cattolico St. Joseph, ad Herten, con la diagnosi di epilessia e demenza profonda. Qui rimase fino al 20 agosto 1940, quando fu trasferito nel centro psichiatrico di Emmendingen, tappa intermedia del programma T4. Diciotto giorni dopo il suo arrivo, infatti, il 6 settembre 1940, Alois fu portato a Grafeneck, dove fu immediatamente ucciso.
Jörg non ha avuto un buon rapporto con i nonni paterni, parenti di Alois. Durante l’intervista, ha sottolineato come la sorella della vittima, sua nonna, fosse una donna “piena di odio”.
“The relationship to the parents of my father were always very distant. My grandmother on my father’s side, (the sister of the victim, was a woman with a lot of hate. She and her husband, my grandfather, were not heartful, but bitter people. They didn’t like to talk about personal things, their lives or about feelings” [1].
Alla morte della donna, il padre di Jörg sognò di sentirla ancora viva nella bara e di dover saltare sopra per non farla uscire.
“The relationship to my grandparents of my father’s side was always distant. When my grandmother died in 1993 my father felt revealed. He dreamed that his dead mother would be in the coffin and trying to escape because she was not really dead. In his dream my father jumped on the coffin as a long that inside it was suddenly quiet and she couldn’t escape”.
Jörg mi ha raccontato di essere stato un bambino curioso e di aver cercato, durante l’ infanzia (a differenza di molti suoi coetanei), di chiedere ai nonni di raccontargli del nazismo, cercando addirittura di capire se il nonno avesse commesso dei crimini. L’interesse del padre per la storia e l’attualità ha certamente facilitato la rottura del tabù presente nella società tedesca, creando lo spazio e la possibilità per uno scambio generazionale impensabile in altre famiglie.
Quando gli ho chiesto di raccontarmi in quale occasione e da chi avesse saputo dell’esistenza del prozio, lui ha usato il verbo discover, scoprire: è stata una scoperta, anche se casuale, nella quale si è imbattuto chiedendo aiuto alla nonna per ricostruire l’albero genealogico della famiglia. Dalle parole della donna venne infatti a sapere che Karl Friedrich, il fratello minore, morì quando era ancora piccolo. In cerca di documenti presso l’anagrafe, Jörg scoprì però che Karl Friedrich non era mai esistito: il vero nome del ragazzo sembrava essere Alois, e non risultava essere morto in tenera età.
“I discovered the fate of my great uncle by coincidence. When I was 12 years old I was interested in family history and I did some genealogical research. At the begin I asked my grandparents about their siblings, parents and grandparents. I wanted to draw a family tree and I needed this kind of information. My grandmother told me that she was born in 1913 in Bleichheim and that she had several siblings, Oskar, Karl Friedrich and Anna Zäzilia. I asked for the dates of birth and death, but she didn’t know them all. Karl Friedrich, she told me, was younger than her and died as a baby or as a small child. She couldn’t know that I wrote letters to the Standesamt in her birth town to ask for the birth and death certificates. They answered me that there was no Karl Friedrich Zähringer and that my grandmother must have been confused: his name was Alois, he was born in 1921. They also told me that he didn’t die as a baby, but that on his birth certificate there is a note regarding his death. I could read ‘1940’ and a place like ‘Grafenruck’, or ‘Grafeneck’”[2].
Incredulo, Jörg chiese spiegazioni alla nonna, che solo allora sembrò ricordare altri particolari: il fratellino era forse malato, viveva in un ospedale. “I talked to my grandmother and she seemed to be surprised about what I had discovered. The only thing she admitted was that he was maybe sick and had some “attacks”. He lived in an hospital because of that. I was not able to get more information from her. Only one year later, in November 1990, I read in the local newspaper an article and I discovered that in Grafeneck was inaugurated a memorial site for the victims of the Nazis who were murdered there, because they were disabled or handicapped. In that moment, I started to understand a bit more, and went on with my research. My father was a teacher in history and also interested in the Nazi time, but he never heard about Grafeneck before. He knew that disabled people were murdered, but he didn’t know anything concrete about it”.
Incuriosito dallo strano comportamento della nonna e deciso a fare chiarezza, Jörg prese la decisione di voler intraprendere una ricerca. L’iniziale insuccesso lo scoraggiò per qualche anno, ma non perse del tutto il suo interesse, fino a decidere di iscriversi alla facoltà di storia.
“I found out the existence of Alois when I was 12. I contacted the “Samariterheim” in Grafeneck and asked for further information. They told me that all the documents were destroyed by the Nazis at the end of the war, and that they cannot give me further information. They recommended me to read a small monography about Grafeneck, which I bought, thinking that it would have been the end of my research. I continued during my civilian service with a genealogical research, and suddenly I found an important document: in the burial register I discovered that Alois was buried in his hometown in Bleichheim, with information about his official date of death and cause of death and that he lived before in Josefsanstalt Herten. So, I had a new trace. I contacted Herten, and they told me that he was deported on August 20, 1940 to Emmendingen, before being deported to Grafeneck. So, I contacted the psychiatry in Emmendingen and they had also one document about him. I visited Herten and Emmendingen – and also Grafeneck, several times -, because I wanted to see these sites with my own eyes. I made a step and contacted the only half-sister of my grandmother who was still alive, Margarete”.
È stata proprio Margarete ad avergli fatto una rivelazione determinante: Alois sarebbe nato sano e i suoi disturbi sarebbero stati causati da una caduta mentre la nonna di Jörg lo teneva in braccio.
“She told me that Alois was healthy when he was born, and when my grandmother was taking care of him as a babysitter, probably because she was not careful enough, he fell on the floor. Apparently, from that day on he was disabled. I don’t know if the story is true, it can also be just another fairy tale in my family, to keep the family “clean”: it was not a genetic disease, it was just an accident. Only now I found in Herten information about his diagnosis and a description of his disease. ‘Angeborener Schwachsinn (inherent idiocy) mit Epilepsie (epilepsy) und Seelenstörung (mental disorder)’”.
Margarete conservava una fotografia in cui sembrerebbe comparire anche Alois. Il bambino è però in disparte, lontano dal resto della famiglia. Non è possibile vedere il suo volto e i contorni del corpo si distinguono a fatica, mischiandosi con alcuni tronchi d’albero ammassati davanti alla casa. Significativamente, questa è l’unica foto conservata dalla famiglia in cui compare Alois.
Jörg spiega bene come il suo ruolo, nella dinamica familiare, sia stato un ruolo attivo, capace in qualche modo di riparare il passato e di riportare in vita almeno in ricordo del prozio Alois.
“When I moved to Berlin and studied history I put my focus immediately on the Nazi time and the Holocaust. For me it has been very clear from the start that I could not deal with the crimes of the Nazis in an academic way ignoring what happened in my own family. More and more I also felt that it is my obligation for Alois to remember him. That’s the only thing I can do for him. The Nazis murdered him, my family collaborated in that way that they made him forgotten, he didn’t exist any longer. I had to go on with the research to bring him back to the memory, back to my family, back to life. I’m aware that this is only possible on a symbolical way, because he was murdered and he remains dead. But that’s the only thing I can do for him”.
Tutti i miei intervistati hanno manifestato, anche se in forme e tempi differenti, una tenace volontà di rompere il tabù del silenzio relativo al nazionalsocialismo, cercando quando possibile di interrogare i propri nonni o i parenti più anziani sui loro ricordi del periodo di guerra. Questa tenacia sembra essere la manifestazione di una forte tensione generazionale e questo è tanto più evidente se si tiene presente che in Germania, dal dopoguerra ad oggi, il dialogo generazionale tra nonni e nipoti è stato pressoché inesistente, fino al punto di diventare segno tangibile di una cesura sociale.
Quando ho interrogato conoscenti tedeschi sul perché fosse considerato tanto difficile parlare in famiglia del nazismo, mi è stato risposto che “non è/era il caso”, “non è segno di buona educazione”, “non si ha il diritto di mettere delle persone anziane nella posizione di doversi giustificare, senza sapere cosa noi avremmo fatto al loro posto” e “parlare di questo in famiglia è considerato un tabù”.
Perché, dunque, Jörg è stato capace di spezzare il tabù familiare, obbligando il resto della famiglia a confrontarsi con il proprio, pesante, passato?
A mio parere è stata proprio la connessione di queste storie familiari con l’Aktion T4 a permettere alle ultime generazioni di rompere la pesante cesura presente nella società tedesca: esse hanno scoperto di essere delle eccezioni -e lo hanno scoperto imbattendosi in un “segreto di famiglia”- perché avendo un legame diretto con il mondo delle vittime, non sono legate soltanto a quello dei carnefici, come gli altri tedeschi.
Anche se in modi differenti, tutti hanno affermato di aver percepito nelle loro famiglie qualcosa di non dichiarato e non risolto, una sorta di freudiano processo emotivo in atto capace di generare sensazioni complesse, provenienti da un evento sicuramente passato, che essi non conoscevano né sapevano spiegarsi, eppure avvertivano chiaramente. A imbattersi in questo segreto-non segreto, del quale la famiglia non vuole parlare, ma sembra aver disseminato indizi per sottolinearne l’esistenza, è la generazione più giovane, quella dei nipoti o pronipoti delle vittime. Forti della propria distanza temporale dai tragici eventi, essi hanno avuto la forza di voler comprendere cosa veniva taciuto.
Trincerati in un convinto silenzio, i parenti più stretti delle vittime hanno invece cercato, con il tempo, di dimenticare la sorte toccata ai propri cari.
Nessun nucleo familiare è uscito incolume dalla volontà dei più giovani di ricostruire la storia delle vittime. Le relazioni tra i membri di uno stesso nucleo si sono rafforzate, nel bene e nel male: chi era legato in modo particolare, si sente adesso ancora più legato; chi aveva un rapporto difficile ha posto una distanza più grande.
Perché queste rimozioni siano avvenute è complesso da spiegare. I fattori in gioco sono molteplici e strettamente legati gli uni agli altri, fino a creare una fitta rete di dolore e silenzio, simile e differente al tempo stesso per ogni nucleo familiare.
Nel testo Die Unfähigkeit zu trauern. Grundlagen kollektiven Verhaltens (A. e M. Mitscherlich, 1967), gli psicoanalisti Alexander e Margarete Mitscherlich spiegano come migliaia di cittadini tedeschi, che erano stati entusiasti sostenitori di Hitler, svilupparono dopo la guerra difese psicologiche per rispondere alla colpa, alla vergogna e al rimorso. Tra queste difese, quella più diffusa era la dissociazione di coscienza, che permetteva di superare la crisi senza prenderne veramente consapevolezza.
Trauern, portare il lutto – necessario, ci dice la Mitscherlich, per una sana evoluzione mentale -, alla Germania non è stato possibile: non c’era tempo, non era il caso, non poteva esistere un lutto legittimo agli occhi del mondo, per il popolo che aveva compiuto crimini tali da necessitare una nuova definizione, i “crimini contro l’umanità”.
3. Conclusioni
Parlare con i tedeschi di quello che fu il programma di eutanasia attuato durante il Terzo Reich, è ancora molto difficile. La questione è legata al problematico rapporto che ogni uomo ha con il termine della vita e certamente anche a un senso di colpa generato dalla consapevolezza delle azioni criminose, ma perché questo argomento è ancora percepito come uno tra i più difficili con i quali confrontarsi?
L’uccisione dei portatori di handicap e dei malati mentali, (tra i quali molte persone depresse, incomprese, con una sensibilità accentuata) è forse il crimine che più tra gli altri, a mio parere, riuscì a inserirsi all’interno della sfera privata dei cittadini del terzo Reich, rompendo equilibri affettivi e dinamiche familiari in nome della purificazione della “razza tedesca”.
Se è vero che l’uomo è un animale sociale, allora è proprio nei sentimenti che lo avvicinano e lo allontanano dagli altri esseri umani che egli definisce sé stesso.
Non ci sono, nella storia della famiglia di Jörg e nelle altre storie che ho raccolto, nemici esterni da aver potuto, all’epoca, additare da una qualunque distanza di sicurezza e sulla sorte dei quali essersi potuti disinteressare, ma padri e madri, figli e figlie, sacrificati in nome e per mano di una volontà che fu capace di divenire più forte di ogni legame di sangue.
È questo il volto più spaventoso dell’Aktion T4: quello che riflette la nostra capacità di odiare, in nome di una fede qualsiasi, addirittura una parte di noi stessi.
Note
[1] Intervista a Jörg W., Berlino, marzo 2019, in Archivio Privato dell’autrice. Tutti gli estratti presenti in questo articolo fanno riferimento a questa intervista.
[2] Grafeneck, nel Baden-Württemberg, fu uno dei centri di uccisione del programma Aktion T4.
Bibliografia
Binding K., Hoche A., Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens, ihr Maß und ihre Form, Verlag von Feliz Meiner, Leipzig, 1922.
Aly G., Zavorre, Einaudi, Torino, 2017.
Mitscherlich A. e M., Die Unfähigkeit zu trauern. Grundlagen kollektiven Verhaltens, Piper, München, 1967.
Erika Silvestri è dottoranda di ricerca presso il Zentrum für Antisemitismusforschung della TU Berlin e l’Università La Sapienza di Roma. Si è specializzata nei crimini del nazionalsocialismo presso la Humboldt Universität e il Leo Baeck Institute di Berlino ed è stata ricercatrice presso il Friedrich Meinecke Institut. Il suo libro Il commerciante di Bottoni, sulla storia di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau, è stato pubblicato da Rizzoli.