Diviser c’est détruire o dell’importanza del contesto di rinvenimento
“Diviser c’est détruire”: così scriveva nel 1796 Antoine Quatremère de Quincy nelle sue Lettres à Miranda. L’opera, nata per opporsi alla spoliazione sistematica delle opere d’arte dall’Italia programmata dal Direttorio, esplicita per la prima volta in maniera chiara un concetto che diventerà fondamentale per l’archeologia: l’importanza del contesto di provenienza dei reperti.
Due anni prima, infatti, nel 1794, il pittore Wicar aveva pronunciato un discorso in cui aveva affermato che la Francia, che con la Rivoluzione aveva restaurato la libertà tanto cara alla Grecia antica (Pucci 1993), aveva il diritto di “rimuovere i resti del suo splendore”. Sempre secondo la sua logica, infatti, sarebbe stato per questo che quei resti erano sopravvissuti al tempo, e la Francia rivoluzionaria avrebbe eretto “templi” degni di contenerli.
E se alcuni membri della Société populaire et républicaine des arts proposero l’idea di fare dei calchi, ci fu chi definì l’idea inutile perché presto ci si sarebbe impossessati di tutti i capolavori di Roma
Le Lettres à Miranda di Quatremère de Quincy nascono per opporsi a tutto questo: pur condividendo l’idea che la Francia abbia effettivamente riportato in vita il “miracolo greco”, vede in questa reincarnazione più un dovere di protezione dei contesti originari che custodiscono i capolavori dell’arte, che un pretesto per fare razzia.
Porta all’attenzione della Repubblica Francese i diritti della Repubblica delle Lettere, la comunità scientifica e intellettuale che in Europa ha a cuore il Bello e il Vero.
L’Antichità è il simbolo dell’unità d’Europa, e ciò che ne resta permette di verificare e interpretare la Storia.
L’Antichità, inoltre, non è un’eredità che ci è giunta in blocco una tantum, ma un patrimonio che si costruisce giorno per giorno grazie ai progressi della Scienza, capace di leggere il “libro” della Storia, di cui i monumenti sono le pagine.
Il passaggio più importante, forse, è quello in cui Quatrèmere de Quincy passa dall’immagine di libro a quella di museo, intendendo come tale non questo o quel luogo di Roma, ma Roma stessa nel suo insieme.
Questo perché, a fare di Roma ciò che è non sono solo le statue o le opere d’arte, ma anche i frammenti architettonici, i resti del vivere quotidiano (quello che in archeologia verrà poi definito instrumentum domesticum): un capolavoro viene proclamato tale solo grazie al confronto con ciò che gli è contemporaneo. Senza quel contesto diviene un oggetto sterile, che appaga la vista ma perde completamente di significato.
Da qui l’idea che diviser c’est détruire, che i musei creati con decisione arbitraria siano solo emmagasinements des modèles totalmente incapaci di far progredire la Scienza, proprio perché privano il visitatore del confronto, impedendogli di comprendere quegli elementi che rendono un capolavoro tale.
Sacralizzare un’opera d’arte equivale a svalutarla, svuotarla di significato, rischia di trasformarla da testimonianza a scoria.
Per quanto colpisca la modernità di tale pensiero, come ben sappiamo esso non riuscì ad arginare le spoliazioni, sia contemporanee che successive, ma resta comunque un eccellente punto di partenza per giudicare l’operato dei musei al giorno d’oggi, che spesso usano proprio l’argomentazione del “Bello da preservare” per mascherare la provenienza illecita dei reperti archeologici che espongono.
Perché le spoliazioni non avvengono solo in zone di guerra, e spesso non si cerca nemmeno una nobile scusa per giustificarle.
Prestare attenzione al linguaggio usato dai musei, quindi, specialmente quelli più noti e prestigiosi, è fondamentale per capire la differenza tra custodire e tramandare la Memoria e trasformare un Bello idealizzato in spettacolo fine a se stesso o, peggio ancora, in sterile forma di guadagno.
“Why can’t people look at it simply as an art object?”
Nel gennaio del 2008 l’allora Ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli, è ospite nell’edizione serale del Tg1. Accanto a lui c’è un vaso greco che è stato appena restituito all’Italia dal Metropolitan Museum of Art: si tratta del Cratere di Eufronio, uno dei pochissimi vasi esistenti attribuiti al più grande ceramista della Grecia classica.
La diretta celebra il rientro in Italia del reperto, frutto di uno scavo clandestino avvenuto agli inizi degli anni ’70 a Cerveteri, e la fine di un lungo braccio di ferro col Metropolitan Museum di New York, che l’ha acquistata nel 1972 per la cifra record di un milione di dollari, prima opera d’arte in assoluto ad aver raggiunto quella cifra.
Ripercorrere le complesse vicende legate a questo vaso e alle inchieste giudiziarie a esso collegate è storia lunga (Watson e Todeschini 2006), per cui mi limiterò solo a riportare i dati essenziali alla comprensione degli eventi: il Metropolitan acquistò il vaso da un mercante d’arte di nome Robert Hecht, che a sua volta era solo uno dei vertici di una delle più vaste reti internazionali di trafficanti di reperti finora identificate. Quello che è importante sottolineare è che questa rete faceva capo ad alcuni dei curatori dei più importanti musei del mondo, tra cui Dietrich Von Bothmer del Metropolitan Museum di New York e Marion True del Getty Museum di Malibu.
A proposito di Von Bothmer, il curatore che acquistò materialmente il cratere, è interessante notare la reazione che ebbe quando il New York Times, a cui furono fatte pressioni affinché accettasse di pubblicare senza fare domande la versione del museo sulla provenienza del reperto, non solo non si piegò, ma iniziò a indagare per proprio conto:
“Why can’t people look at it as archaeologists do, as an art object?”
Questa fu la sua risposta che, prevedibilmente, scatenò la reazione indignata della comunità scientifica americana, parole gravi perché figlie di un’epoca che, a differenza della Francia della Rivoluzione, conosceva e riconosceva il ruolo di testimone della Memoria di un oggetto antico.
Spesso e volentieri, infatti, chi ha interesse a occultare la provenienza illecita di un reperto (nel caso specifico: un vaso), si limita a descriverne soprattutto l’aspetto figurato, come se l’oggetto in questione fosse solo il supporto di una scena dipinta.
La realtà è ben diversa: le scene figurate sono tutt’uno con la forma, ad esempio, che ci dice la funzione che quel vaso poteva avere. A sua volta, il fatto che sia stato trovato intero come parte di un corredo funebre piuttosto che in frammenti all’interno di un pozzo rituale o come rimanenza degli arredi di una domus ci aiuta a comprendere meglio chi fosse il proprietario, come funzionava la società in cui viveva e perfino i rapporti commerciali che la sua città intratteneva col resto del Mediterraneo.
Questo è ciò che fa la moderna archeologia, ed è il motivo principale per cui, contrariamente a ciò che Von Bothmer aveva dichiarato, essa vede ogni singolo oggetto come parte di un insieme più grande, che poi è quello della nostra eredità culturale.
Eppure Von Bothmer era egli stesso un archeologo, e pure dei migliori ma, come ha dichiarato un altro curatore del Metropolitan, Oscar White Muscarella, era privo di quella morale che dovrebbe caratterizzare gli uomini di scienza. In un suo articolo del 2013, infatti, Muscarella racconta di come Von Bothmer si sia vantato spesso, anche tra le sale del museo, di aver personalmente corrotto le autorità italiane per favorire l’esportazione di reperti frutto di scavi clandestini. L’essersi opposto, ai tempi dell’acquisizione del Cratere di Eufronio, a questa spregiudicata politica da parte del museo gli costò l’ostracismo, ma oggi Muscarella è una delle voci più autorevoli di SAFE (Save Antiquities for Everyone), una delle più importanti associazioni americane che si battono in difesa del patrimonio culturale.
Purtroppo, nonostante lo sforzo suo e dei tanti altri archeologi che, nel corso degli anni, si sono battuti e si stanno battendo per vincere la battaglia contro i trafficanti di reperti, ci sono altri eminenti membri della comunità scientifica che, al contrario, continuano a fare dichiarazioni che sembrano voler demonizzare la necessità della salvaguardia dell’identità che un reperto incarna e rappresenta.
James Cuno, dal 2011 Presidente e Amministratore Delegato del Getty Trust, in suo saggio del 2011 ha scritto questo passaggio che riporto per intero perché illuminante: «Archaeologists encourage the institution of nationalist retentionist cultural property laws, believing them to be important to the protection of archaeological sites. That their work is used by source nations for nationalist political purposes is the price archaeologists pay for excavating within national jurisdictions».
Ma è davvero così? È proprio vero che, come dicono Cuno e altri personaggi di spicco del mondo museale, gli archeologi siano al soldo di un’ideologia nazionalista, che difenderebbero in nome delle proprie attività di scavo?
A questa domanda si potrebbe rispondere in due modi: il primo consisterebbe nel contrapporre la tesi altrettanto radicale espressa da Muscarella nel già citato articolo (Muscarella 2013), secondo cui sarebbero i vertici museali stessi, e i curatori in particolare, una delle cinque “colonne” del traffico di reperti (le altre quattro sarebbero, in ordine: i tombaroli, la criminalità organizzata, i mercanti d’arte e gli archeologi compiacenti); ma preferisco soffermarmi sul secondo modo, che prevede un ragionamento più articolato che parte da alcuni dati di fatto.
Marina Mazzei e il traffico di reperti come emorragia
Marina Mazzei è stata una delle archeologhe italiane che più si è spesa contro il traffico internazionale di reperti: nel 1993, assieme all’archeologo Daniel Graepler realizza una mostra itinerante che tocca diverse città tedesche e svizzere (Graepler e Mazzei 1996). Lo scopo è quello di sensibilizzare il pubblico illustrando le fasi che portano un reperto dallo scavo clandestino al mercato. La scelta del tema e delle città scelte non è affatto casuale: proprio in quegli anni, infatti, Mazzei si sta occupando del caso dell’acquisizione di un corredo funebre avvenuto nei primi anni ’80 da parte dell’Altes Museum di Berlino. I vasi che lo compongono, tutti staordinari per dimensioni, fattura e perché appartenenti quasi certamente alla stessa sepoltura, sono opera del Pittore di Dario e di altri artisti della sua cerchia, cosa che ne identifica la provenienza dalla Puglia. E nonostante la versione del museo, che sostiene che il corredo sarebbe stato acquistato nell’800 da un’importante famiglia di mercanti svizzeri e rimasto sconosciuto fino a quando un noto studioso svizzero, Jacques Chamay, lo avrebbe studiato e proposto al museo per l’acquisizione, in realtà è stato identificato con certezza come frutto, anche questo, di uno scavo clandestino (Pellegrini 2016).
Tornando a Marina Mazzei, nella recensione che fa della prima pubblicazione inerente il corredo scrive righe molto significative (Taras 1990): «Questi ricordi di storia passata, insieme alle vicende di oggi, non possono dare altro che la misura dell’emorragia del patrimonio culturale italiano: si badi però che essa non segna solo questa nazione, ma la cultura tutta. E alla ricerca scientifica sulla civiltà apula resteranno fra non molto solo miti e vasi, legati da una storia senza gente.»
Credo che queste ultime righe siano estremamente significative: come nel caso del Cratere di Eufronio, o in tanti altri casi di reperti esposti privi di contesto, il reperto archeologico smette di avere un significato in quanto tale e viene ridotto al rango di mero supporto di scene figurate, descritte e analizzate come se fossero a sé stanti, e non parte di un insieme organico, in grado di raccontarci una storia più grande.
I fautori della “Bellezza senza confini e senza passaporto”, coloro che difendono il diritto dei musei di acquistare ed esporre materiale privo di contesto, brandendo come una spada il diritto dell’umanità intera di godere di tale bellezza, in realtà sottraggono a quella stessa umanità il diritto alla conoscenza. Perché a rimanere danneggiata non è solo la comunità scientifica, ma la ricostruzione storica che è poi la nostra coscienza, la nostra auto-consapevolezza di esseri umani.
Riprendendo ancora una volta il pensiero di Quatremère de Quincy, ma ribaltandolo: non è il contesto a essere funzionale al capolavoro, ma è il capolavoro a illuminare e rendere vivo il contesto. Le storie che racconta un vaso dipinto, come anche una statua, un gioiello, un’arma, etc… vanno molto oltre la sua scena figurata: è la storia del perché è stato creato, da chi, con quale scopo, la storia delle relazioni tra i popoli che ha permesso a un artista greco come Eufronio di potersi spostare e operare anche in Etruria, o ad artisti apuli come il Pittore di Dario e la sua cerchia di trarre ispirazione e creare uno stile proprio.
E a proposito di ceramica apula: probabilmente si tratta della categoria di reperti più diffusa sul mercato antiquario. Vasi del Pittore di Dario sono stati venduti a musei e collezionisti ovunque, perfino in Giappone (Gervasi 2018): Mazzei, che in quanto funzionaria statale si è occupata in prima persona di contrastare il fenomeno degli scavi clandestini, ha potuto toccare con mano la gravità e l’estensione del fenomeno, provando ad arginarlo attraverso l’arma della consapevolezza.
Una mostra realizzata nelle città dove hanno sede le grandi case d’asta, dove operano i mercanti d’arte che più di tutti sono responsabili dell’immissione sul mercato di reperti di provenienza illecita, tanto da essere stati definiti Janus Figure (Mackanzie e Davies 2014), porta materialmente sotto i loro occhi i danni prodotti da un’etica di mercato così spregiudicata, spiegando in maniera puntuale l’insieme di cui la compravendita è solo parte dell’ingranaggio.
C’è un esempio, in particolare, di museo dove il concetto di Bellezza viene elevato al rango di divinità e le cui vicende, al tempo stesso, si intrecciano strettamente a quelle del traffico internazionale di reperti: è il caso del Miho Museum di Kyoto, e vale la pena soffermarsi sulla sua storia nel dettaglio.
“Spiritual power. Historical interest is never enough.”
Shinji Shumeikai è uno degli oltre seicento gruppi religiosi del Giappone.
Secondo le stime dell’organizzazione vanta 300.000 adepti in tutto il mondo.
La storia della sua nascita è interessante e singolare a un tempo: fu fondato, infatti, da una delle ereditiere più ricche del Giappone, Mihoko Koyama, che aveva ereditato le attività tessili della Koyobo Corporation.
Koyama era seguace di Mokichi Okada, il creatore di Johrei, una medicina alternativa simile al Reiki e, a sua volta, capo di un altro gruppo religioso, la Church of World Messianity.
Koyama fonda il proprio gruppo religioso nel 1970, con l’intento di sviluppare ulteriormente il pensiero del suo maestro, basato sulla ricerca continua di un equilibrio, che lei e il suo gruppo perseguono attraverso la creazione del Bello.
Per questo, a un certo punto, decide di voler creare un museo, uno scrigno preziosissimo per le collezioni di strumenti rituali per la cerimonia del tè e altre ceramiche tradizionali pregiate che costituiscono la collezione privata della sua famiglia. Per farlo si affida all’archistar Ieoh Ming Pei, l’ideatore della Piramide di vetro del Louvre.
I. M. Pei consiglia a lei e alla figlia di ampliare la collezione, rendendola internazionale, in modo da fare del museo un polo di attrazione degno dell’investimento economico previsto. «It is important to have a museum building, but it is also important that the collection be first class, too. A museum today must be international» (Met Museum 1996)
Nasce così l’idea di fare di questo luogo un santuario dedicato alla Bellezza Universale, tanto per quanto riguarda l’aspetto esteriore, quanto per la scelta oculata dei pezzi da esporre.
La figlia di Mihoko Koyama, Hiroko, inizia a cercare opere d’arte da acquistare battendo i principali mercati antiquari, primo fra tutti quello svizzero, con la precisa idea che «Works of art are not to be monopolized by the few, but shown for the delight of many, that their spirits may be elevated. The mission of Art is to contribute to the development of culture» (Met Museum 1996).
L’idea che le opere d’arte non debbano essere monopolio di pochi, ma debbano essere rese accessibili a quante più persone sia possibile è molto nobile, ma cozza terribilmente con la realtà dei fatti che, al contrario, legano questo luogo e la sua collezione alla già citata rete di trafficanti internazionali che aveva venduto il Cratere di Eufronio al Metropolitan, quella che ha visto tra i suoi vertici i mercanti d’arte Giacomo Medici e Gianfranco Becchina.
Ma procediamo con ordine: i primi due reperti che Hiroko Koyama acquista sul mercato antiquario sono una statua di Buddha, proveniente dalla regione del Gandahara, e due pannelli dipinti provenienti da Pompei. Entrambi i reperti sono stati acquistati in Svizzera, in un magazzino del Porto Franco di Ginevra, dal mercante d’arte Noriyoshi Horiuchi, che era stato nominato consulente, e il cui nome balzerà agli onori delle cronache nel 2008 quando, proprio in quello stesso container, i carabinieri effettueranno il più grande recupero di materiale di provenienza illecita finora effettuato, la cosiddetta Operazione Andromeda.
Furono recuperati ben 20.000 artefatti, di cui 337 vennero identificati come provenienti dall’Italia, ai quali vennero poi restituiti.
Noriyoshi Oriuchi era collegato a Gianfranco Becchina, e anche i pannelli pompeiani provenienti dal museo in precedenza (Dörig 1975) erano stati attribuiti alla collezione privata di George Ortiz, altro nome collegato alla stessa organizzazione.
Istituzioni come il Miho Museum, infatti, rappresentano una manna dal cielo per i trafficanti di reperti perché, parafrasando le parole di Hiroko Koyama, l’unico criterio di selezione è: «Spiritual power. Historic interest is never enough» (Jeffs 2002).
Sostituire la suggestione di un fantomatico “potere spirituale” all’altrettanto suggestiva immagine della Bellezza non cambia la sostanza: anche in questo caso, come in molti altri che non è possibile citare in questa sede, una comunicazione volutamente fumosa e mistificatoria serve a mascherare l’origine poco chiara, quando non propriamente illecita, di manufatti che, se scavati secondo il metodo scientifico da professionisti, potrebbero dirci molto di più del nostro passato, e arricchire le comunità a cui appartengono, e che ne sono le reali proprietarie.
Conclusioni
Questa breve carrellata di esempi, per nulla esaustiva, vuole solo essere un invito rivolto a tutti coloro che visitano i musei affinché prestino maggiore attenzione a quello che i musei dicono e, più ancora, a quello che i musei cercano di nascondere.
Per rimanere competitivi su quello che è, comunque e a tutti gli effetti, un mercato (quello turistico), i curatori hanno necessità di accaparrarsi pezzi sempre più prestigiosi che siano in grado, all’occorrenza, di far parlare di loro sui giornali di tutto il mondo.
È questa necessità, più che il resto, ad alimentare il traffico di reperti archeologici che colpisce non solo il nostro paese (che, tra i tanti, è quello dotato dei migliori strumenti di prevenzione e tutela), ma anche paesi molto più poveri, nei confronti dei quali il furto diventa doppio: culturale ed economico.
Vorrei chiudere questo intervento con un eloquente, ultimo omaggio alle parole di Mazzei, provenienti dal catalogo della mostra più volte citata (Graepler e Mazzei 1996): «Generalmente, seppur di rado, la questione degli scavi abusivi e del commercio clandestino di opere d’arte antiche viene dibattuta dal punto di vista del diritto di proprietà. Alcuni lamentano il “furto al patrimonio nazionale” e avanzano pretese di restituzione. Altri rispondono che i beni archeologici rappresenterebbero un bene comune dell’umanità, per cui non dovrebbero appartenere soltanto a quello stato, sul cui territorio sarebbero casualmente stati rinvenuti. In questo modo la discussione prende ben presto una piega dalle tinte moraleggianti e nazionaliste. Il nocciolo del problema non è dato però dalla questione della proprietà. Le pretese di possesso si possono disciplinare, almeno in linea di massima. Ciò che invece non si può annullare è il danno arrecato dagli scavi abusivi alle possibilità di accrescere le nostre conoscenze storiche.»
Bibliografia
Cuno J., Who owns Antiquity? Museums and the Battle over Our Ancient Heritage, Princeton 2011
Dörig J., Art Antique: collection privées de Suisse romande, Ginevra 1975
Gervasi D., Il mercato della ceramica apula a figure rosse: dati numerici, casi di studio e qualche riflessione, in Archeomafie X, 2018
Graepler D. e Mazzei M. (a cura di), Provenienza: sconosciuta! Tombaroli, mercanti e collezionisti: l’Italia archeologica allo sbaraglio, Bari 1996
Jeffs A., Creating a museum as a sacred, powerful place, in Japan Times, 27/07/2002
Mackanzie S., Davies T., Temple looting in Cambodia. Anatomy of a Statue Trafficking Network, in British Journal of Criminology, 2014
Mazzei M., Recensione al volume di Luca Giuliani “Bildervasen aus Apulien. Bilderhefte deer Staatlichen Museen Preussischer Kulturbesitz. Heft 55, Berlin 1998, in TARAS X, 1990
Muscarella O. W., The Fifth Column within the archaeological realm: the great divide, in Archaeology, Artifacts and Antiquities in the Ancient Near East, 2013
AA. VV., Ancient Art from the Shumei Family Collection, Met Museum, New York 1996
Pellegrini M., Intrigo Internazionale, in Archeo, 375, maggio 2016
Pucci G., Il passato prossimo. La scienza dell’antichità alle origini della cultura moderna, Roma 1993
Watson P. e Todeschini C., The Medici Conspiracy, New York 2006
Daniela Gervasi (Anzio, 1979), è archeologa. Laureata in Scienze Archeologiche all’università La Sapienza di Roma, nel 2017 consegue il Master in Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio Culturale presso il Centro Studi Criminologici di Viterbo, divenendone successivamente uno dei docenti. Ha pubblicato articoli sul tema della provenienza delle collezioni e sul mercato della ceramica apula a figure rosse.