Roots: l’auto-emarginazione del prosodista bop
Quando Jack Kerouac pubblicò Sulla strada, dopo che la sua opera prima La città e la metropoli era già stata acclamata dalla critica, si distaccò in modo decisivo dalla tradizione facendo scalpore tanto per quanto narrato tanto per il linguaggio utilizzato. Sebbene sia impreciso fare una distinzione cronologica nelle opere di Kerouac – lui stesso ha dichiarato che la sua produzione andrebbe letta come un intero, come la Recherche proustiana[1] da lui mai letta completamente, è da Sulla strada che inizia la sua carriera di prosodista bop[2] e il mondo narrato raccoglie come un flusso realtà e suggestioni[3]. Esemplari di tale compenetrazione tra mondo onirico e mondo reale sono il Dottor Sax e Il libro dei sogni. Se il secondo è una cronaca di sogni annotati al risveglio, il primo – ritenuto da Kerouac il suo libro più bello – è un miscuglio di vita reale, ricordi di infanzia ed elementi onirici. Il Dottor Sax è un personaggio inquietante venuto dai boschi di Dracut per prendere parte alla realtà ora in forma incorporea (come quando la porta della sua camera sbatteva inavvertitamente), ora come una voce che sussurra: «Non sarai mai felice come sei ora nella tua ovattata innocente immortale notte divoratrice di libri dell’infanzia» (Kerouac, 1977: p. 20). Il Dottor Sax intende essere a suo modo una cronaca del passaggio dall’infanzia all’età adulta, una documentazione della perdita di un certo tipo di magia che caratterizza il mondo dei bambini. Così come mondo onirico e mondo reale vengono raccontati senza particolari distinzioni, lo stesso accade per i romanzi incentrati su una ricerca di stampo spirituale, mistico – un filone che distingue la generazione beat dalla lost, dalla gioventù bruciata[4].
La cronaca è una caratteristica costante dello stile degli scrittori beat. Come i reporter non uscivano di casa senza sigarette e il taccuino, così Kerouac portava sempre con sé un quaderno dove annotare “schizzi letterari”, definiti «diari di bordo per tener d’occhio le incertezze, le divagazioni e gli stati d’animo» (Brinkley, 2010: p. 15). Si tratta di un’informazione tanto conosciuta oggi quanto taciuta tra il 1947 e il 1948, poiché tale smania di annotare tutto per riportare fedelmente quanto accaduto nella propria mente o nella vita reale andava in conflitto con la figura dello scrittore geniale in grado di scrivere per tre giorni di fila[5] un romanzo diventato una pietra miliare della letteratura americana. Il contesto di tale cronaca è quella dell’America del secondo dopoguerra, un Paese fortemente condizionato dal progresso e dall’affermazione del consumismo. È l’America che Adorno descrive con sguardo sgomento nei Minima Moralia[6], durante il suo periodo californiano, e che in Kerouac prende forma di «resistenza allegra» (Corona, 2001: p. XVII). Mentre Adorno rappresenta una chiave di lettura alternativa a quella della beat generation, il riferimento teorico di questa corrente può essere rintracciato in Norman Mailer che, nella serie di articoli che costituiscono The White Negro, ben chiarisce l’aspetto esistenzialista dei beatnik. Mailer ha avuto il merito di chiarire che la spensieratezza della beat generation è solo apparente poiché nata in contrapposizione all’angoscia portata dal “progresso negativo” – in quanto indirizzato alla potenza di sterminio – dei campi di concentramento e della bomba atomica. L’hipster[7] si trova a fare i conti con l’angoscia di poter morire da un momento all’altro, in modo poco dignitoso[8], senza aver fatto nulla. Da qui il confronto quotidiano con l’inutilità della programmazione tanto della propria giornata quanto della propria vita e la conseguente auto-emarginazione dal resto dell’America conservatrice che continuava a proporre uno stile di vita tradizionalista, square[9].
Così, in un contesto in cui «sicurezza equivale a noia» (Mailer, 2015: p. 10), l’immediatezza inizia a far da padrona. È un’immediatezza che oltre che nelle esperienze narrate prende corpo nella narrazione stessa – «non c’è nessun oggettivismo, nessuna distanza fra narratore e mondo narrato. Una grande stanza viene invece posta fra il mondo narrato e quello a esso circostante» (Corona, 2001: p. XXXIV) – e nel linguaggio mutuato dal jazz. Oltre che per il riferimento alla pratica dell’improvvisazione, il jazz viene scelto come riferimento perché musica degli emarginati di sempre: i neri. Da sottolineare è che per quanto angosciati e protagonisti di un disagio interiore, gli hipster hanno potuto prendersi il lusso di una auto-disaffiliazione, a differenza degli emarginati con cui capitava di relazionarsi. Mentre gli emarginati veri[10], lo sono loro malgrado, gli hipster, si emarginano consapevolmente ed emarginano coloro che non hanno dimestichezza con il loro linguaggio dal loro mondo. «Man, go, swing, beat, cool, crazy, cat, chick, dig, flip, creep, goof, hep, hip»[11] sono parole utilizzate non tanto per il loro suono o come concetto ma «per la possibilità in esse implicita di risuscitare i gesti, situazioni, stati d’animo primordiali, slegati dalle sovrastrutture della società» (Pivano, 1958: p. 388). Sono vocaboli che fanno parte del loro slang e non c’è un’esplicita spiegazione per coloro che sono fuori dal giro: «lo scrittore non traduce la propria esperienza nel linguaggio degli altri» (Corona, 2001: p. XXXV). Ciò è sintomatico del forte individualismo che caratterizza tutti gli scrittori beat, chiusi nel loro mondo pur vivendo in modo comunitario, «basato su una rete di piccoli gruppi» (Corona, 2001: p. XXXVII). Un linguaggio che «non si insegna, si condivide» (Corona, 2001: p. XXIV). La prosodia bop non è solo la trasposizione di termini mutuati dal jazz nei romanzi. Il jazz è ciò che caratterizza le strutture delle opere stesse: «laddove la musica jazz non è palesemente evocata, troviamo di frequente pagine composte secondo i canoni bop: tema, variazioni, sviluppi riprese» (Corona, 2001: p. LXII). In Sulla strada, il periodico soffiarsi il naso di Burroughs (nel romanzo Old Bull Lee) è una cellula musicale; in I sotterranei vige «un metodo compositivo che si rifà alle linee-guida del bebop (esposizione di un tema, seguito da variazioni strutturate che riconducono infine al tema)» (Corona, 2001: p. LXIII); in Mexico City Blues vi sono tante «frasi lunghe quanto un refrain» (Corsi, 1967: p. 17), tante altre in cui «il ritmo si fa sincopato, le dissonanze stridenti, la violenza fonica potente, quasi anticipando il free jazz degli anni ‘60» (Corsi, 1977: p. 17). Il comune denominatore tra tutte le opere resta la necessità di esprimere e raccontare la vita dei sottomondi, di stili di vita alternativi a quello della maggioranza.
Routes: l’attualità del white negro
I riconoscimenti che molte personalità del mondo dell’arte fanno a Jack Kerouac sono numerosi. Nel mondo della musica c’è chi ne manifesta l’influenza nello stile di vita, come la band Grateful Dead (Bevilacqua, 1999: p. 63) e chi ha dedicato un disco in occasione del venticinquennio di Sulla strada, come i King Crimson con l’album Beat. Nel mondo della letteratura, Cesare Pavese ed Elio Vittorini, «ancora sprofondati nella provincia dell’Italietta perbene ulteriormente provincializzata della dittatura fascista» (Corona, 2001: p. XVI) si impegnano attivamente nella diffusione delle opere beat. Nel mondo cinematografico, limitandoci a trattare delle influenze e non delle trasposizioni, basti pensare ad Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, a Nel corso del tempo di Wenders e a Marrakech Express di Salvatores[12]. Per quanto concerne il linguaggio, ancora oggi è possibile partecipare a battaglie di poesie beat (che rispetto a quelle che originariamente costituivano le slam poetry non necessitano di elementi ritmici ripetuti). Volendo rintracciare una route del lascito dei beatnik è doveroso spingersi oltre il gioco delle corrispondenze e notare cosa permane, se e quanto sia distante il senso di disagio e la portata dell’individualismo nella collettività descritto dagli hipster.
Le opere di Kerouac rappresentano per molti lettori una tappa obbligata destinata a essere un momento di riconoscimento con i protagonisti, nonostante i tempi siano cambiati. Ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che ancora oggi viviamo all’ombra di un progresso parzialmente orientato alla distruzione e certamente più veloce con la realtà della quotidianità[13]. Inoltre, non è ancora scomparsa la consapevolezza di una «condizione collettiva [che] è di vivere sotto la minaccia di una morte istantanea per guerra atomica» (Mailer, 2015: p. 9). Come scriveva Fernanda Pivano nella prefazione a Sulla strada nel 1958: «La rivoluzione scientifica, le rivoluzioni sociali e la rivoluzione estetica di questo secolo sono state tali da creare in oro una perplessità, uno sgomento, uno spavento, un mal du sécle anche più drammatico di quello dei secoli scorsi» (Pivano, 1958: p. 378); uno sgomento ormai familiare anche al resto del globo.
La risposta ormai cementificata a momenti di consapevolezza del genere è una fuga – ora pratica ora mentale, «un’estasi […] temporale e spaziale, concettuale e pratica» (Corona, 2001: p. XXVII) – che assume connotazione di ricerca individuale;[14] una ricerca lontana dalle accademie,[15] sebbene anche alcune Università – come quella di San Francisco – abbiano all’epoca aderito al movimento (Pivano, 1958: p. 366). Droga e misticismo possono andare di pari passo, come in Mexico City Blues. Città del Messico è ritenuta sacra per la facilità con cui si poteva reperire ogni tipo di droga a basso prezzo (Corsi, 1977: p. 16). La droga rendeva più facili le suggestioni sostanziali dell’opera. L’esplorazione della città è aiutata dall’oppio[16] e non a caso tutto il poema è caratterizzato da una forte attrazione visiva. In altre opere come I vagabondi del Dharma, Kerouac fa il suo «viaggio verso l’alto» (Corona, 2001: p. LXXI), confrontandosi alla maniera di Walden con la nuova società di massa (Corona, 2001: p. LXXX). Stavolta, all’«umanità dei bar e dei varietà e dell’amore spavaldo» (Kerouac: 1998, p. 255), viene contrapposta una vita eremitica, nella natura, vissuta nel segno di una spiritualità non meglio precisata: «O tu eterno giovane O tu sempre dolente. Giù sul lago presero forma i riflessi rosati di vapore celestiale e dissi: Dio, ti amo» e alzai gli occhi al cielo ed ero sincero. «Mi sono innamorato di te, Dio. Proteggi tutti i noi, in un modo o nell’altro». (Kerouac, 1988, p. 258). Inoltre, in un’intervista di fine anni ’50, alla domanda «Si è detto che la beat generation è una generazione alla ricerca di qualcosa. Che cosa state cercando? Kerouac risponde: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”» (Pivano, 1958: p. 387). Mailer apostroferà questi deliri mistici come «una risposta alla disperazione» (Mailer, 2015: p. 15) e come «versione sofisticata della saggezza primitiva» (Mailer, 2015: p. 18).
Sebbene nella nostra attualità sono meno frequenti l’uso di droghe per una ricerca mistica e i viaggi in autostop, ciò che permane sono da un lato le lotte che in quegli anni hanno iniziato a conoscere una modalità di espressione più marcata – «rifiuto del carrierismo e delle acquisizioni materiali individuali, rifiuto del familismo, dell’eterosessualità monogamica obbligatoria, delle discriminazioni di ogni genere» (Corona, 2001: p. XXXIII) – e dall’altro un senso di disagio dovuto a un livellamento collettivo, «basato su un benessere uniforme e generale» (Pivano, 1958: p. 376) che «pianifica la società in programmi impersonali nei quali l’individuo ha solo compiti associati, mai fine a se stessi […] a questi compiti certi ragazzi si sforzano con ogni mezzo di sottrarsi, perché li considerano noiosi e inutili: non credono negli scopi in base ai quali essi vengono prescritti; non credono nelle associazioni di massa, siano esse politiche o religiose» (Pivano, 1958: p. 376). Leggere gli scritti della beat generation oggi significa prendere ancora una volta consapevolezza di «ragazzi maturati troppo in fretta da un’esistenza sempre più promiscua della vita degli adulti, partecipi attraverso la televisione e i giornali illustrati degli stessi mezzi di informazione, superficiali e grossolani, di cui si servono gli adulti medi» (Pivano, 1958: p. 372). Da ciò deriva quell’atteggiamento che solitamente si limita all’età adolescenziale, in cui ci si discosta dalle giustificazioni e dalle regole date dagli adulti in favore di «una realtà autonoma e svincolata da convenzioni morali che ai loro occhi mascherano solo pregiudizi e luoghi comuni» (Pivano, 1958: p. 372). Dagli studi di mezzo secolo fa si rintraccia la documentazione dell’inizio di uno stile di vita individualistico in cui c’è «pochissima teorizzazione e una pratica continua» (Corona, 2001: p. XXXIII) il cui racconto è caratterizzato dall’immediatezza.
Note:
[1] «Nella premessa firmata [a Big Sur] egli annuncia che tutti i suoi libri andrebbero considerati parte di un’unica opera proustiana scritta strada facendo e non a posteriori in un letto di inferno» (Corona, 2001: p. LXXVI)
[2] Anche se chiariremo questa definizione in seguito, per prosodista bop si intende uno scrittore in grado di scrivere con a stessa spontaneità del jazz prima che il jazz fosse standardizzato. Negli scrittori della beat generation viene inoltre riconosciuta una certa influenza dell’action painting di Pollock, De Koonig, Kline, Francis e Motherwell. Fonte: Corona, 2001: p. XXXI.
[3] Un percorso cronologico è stilabile solo attenendosi alle date di pubblicazione dei testi poiché mentre Kerouac ultimava La città e la metropoli era già alle prese con la stesura di Sulla strada, di Dottor Sax, Mexico City Blues e Leggenda di Duluoz.
[4] Fonte: Pivano, 1958.
[5] In realtà alla battitura di Sulla strada sono preceduti numerosi taccuini di annotazioni da cui furono copiati interi brandelli.
[6] «L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Mentre studia di respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca invano di nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più autonoma. L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anch’essa un cliente» (Adorno, 1994: p. 241)
[7] «Il bohemien e il giovane delinquente vennero in contatto col negro e l’hipster trovò di fatto il suo spazio nella società americana» (Mailer, 2015: p. 12); «L’hipster non può essere un musicista jazz; raramente è un artista, quasi mai uno scrittore» (Mailer, 2015, p. 5). Sulla stessa scia, Truman Capote dichiara a una trasmissione televisiva che «nessuno di loro [scrittori della beat generation] sa scrivere, nemmeno Jack Kerouac […] quella non è affatto scrittura – è dattilografia» (Corona, 2001: p. XXIX).
[8] «Non una morte dignitosa, conseguenza di azioni serie e deliberate, bensì una morte causata da un non meglio identificato deus ex machina in una camera a gas o in una città colpita dalla radioattività» (Mailer, 2015: p. 7)
[9] Letteralmente “quadrato”, in opposizione a hip.
[10] «Il negro ha potuto raramente permettersi le inibizioni sofisticate della civiltà» (Mailer, 2015: p. 13)
[11] Fonti: Corona, 2001: p. XXV; Mailer, 2015: p 28.
[12] Su ciò si legga anche Corona, 2001: p. XIV.
[13] «Siamo obbligati, la maggior parte di noi, ad affrontare il ritmo del presente e del futuro con riflessi e frequenze che ci vengono dal passato» (Mailer, 2015: p. 21).
[14] «L’attenzione di Kerouac è tendenzialmente introversa, rivolta in ultima istanza al proprio io, un io accentuatamente americano che non si confronta davvero mai con l’altro-da-sé, col mondo esterno, e dunque non si modifica in maniera significativa, non cresce» (Corona, 2001: p. XXXIV); «Allargare per se stessi i limiti del possibile, ma solo per se stessi, che di altro non c’è bisogno» (Mailer, 2015: p. 38).
[15] Basti pensare agli Young Prometeans il gruppo di amici di Sembastain Sampas che si riuniva informalmente a Lowell per parlare di politica, filosofia e letteratura. (Kerouac, 2018: p. 18)
[16] «Non ho ne piani / né appuntamenti / ne puntelli con qualcuno / così esploro tranquillo / cuori e città […] Non faccio che esplorare cuori & città / dalla vendetta / della mia torre d’avorio innalzata, / Innalzata con l’aiuto / dell’Oppio» (Kerouac, 1975: p. 63)
Riferimenti bibliografici
Adorno T.W., Minima Moralia, Einaudi, Torino 1994;
Bevilacqua E., Beat& Be Bop, Einaudi, Torino 1999;
Brinkley D., Introduzione in Un mondo battuto dal vento, Mondadori, Milano 2010;
Corona M., Storie degli anni Cinquanta in Kerouac, Mondadori, Milano 2001;
Corona M., Jack Kerouac, o della contraddizione in Kerouac, Mondadori, Milano 2001;
Corsi C.A., Introduzione in Refrain di J. Kerouac, Guanda, Modena 1977;
Kerouac J., Un mondo battuto dal vento: I diari di Jack Kerouac 1947-1954, Mondadori, Milano 1957;
Kerouac J., Sulla strada, Mondadori, Milano 1959;
Kerouac J., I sotterranei, Feltrinelli, Milano, 1965;
Kerouac J., Mexico City Blues, Newton Compton, Roma 1975;
Kerouac J. Big Sur, Mondadori, Milano, 1976;
Kerouac J, Il dottor Sax, Mondadori, Milano 1977;
Kerouac J. I vagabondi del Dharma, Mondadori, Milano 1988;
Kerouac J., La città e la metropoli, Newton Compton, Roma 2001;
Kerouac J., Libro dei sogni, Mondadori, Milano 2002;
Kerouac J., On the Road. Il “Rotolo” del 1951, Mondadori, Milano 2010;
Kerouac J., Lettere alla beat generation, Mondadori, Milano 2018;
Mailer N., The White Negro, Castelvecchi, Roma 2015;
Pivano F., Introduzione in Sulla strada, Mondadori, Milano 1958
Ambra Benvenuto è laureata triennale in Filosofia e magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Dopo aver frequentato un master in Counseling presso l’INPEF di Roma, ha continuato la sua formazione presso il corso di laurea in Scienze dell’Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e ha vinto due borse di formazione presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Giornalista pubblicista, collabora con diverse testate online e cartacee ed è autrice di saggi su filosofia, architettura, musica.