Dal report Sarr-Savoy [1] del 2018 il dibattito sulle restituzioni, pur già avviato da decenni (Savoy, 2022), si è fatto più serrato, raggiungendo l’opinione pubblica in Europa, oltre il pubblico ristretto di specialisti di questioni museali. Da allora, molto è stato detto, scritto e (in misura minore) fatto. Lo scorso 30 giugno la Germania ha siglato un accordo storico per la restituzione di oltre mille reperti culturali sottratti nel periodo coloniale e conservati in diversi musei tedeschi. Il Ministro nigeriano dell’Informazione e della Cultura Lai Mohammed ha osservato che questa rappresenta la più grande restituzione di manufatti africani rubati ad oggi, esprimendo la speranza che questo evento sia foriero di ulteriori restituzioni [2].
L’intesa prevede come primo invio la riconsegna di alcuni dei celebri bronzi provenienti dall’antico Regno del Benin. Contestualmente il governo tedesco si è impegnato anche a restituire 23 oggetti conservati all’Ethnologische Museum di Berlino (oggi parte dell’Humboldt Forum) alla Namibia. Colloqui con le autorità camerunensi hanno portato anche a un accordo per la restituzione di una statuetta femminile prelevata nel 1903 dal Camerun nordoccidentale da Curt von Pavel, un ufficiale coloniale che l’aveva donata all’Ethnologische Museum. Momenti di rilevanza storica come questo nascondono però ulteriori interrogativi e numerose questioni irrisolte: cosa e come restituire? Cosa fare di ciò che “nessuno reclama”? Il presente intervento intende proporre una riflessione sulla possibilità di allargare il dialogo circa la questione delle restituzioni, oltre il panorama strettamente etnografico proposto inizialmente da Sarr e Savoy. Si prenderanno infatti in considerazione i casi relativi a pellicole cinematografiche e manoscritti, ma anche a reperti di storia naturale e a campioni scientifici di vario tipo, ad esempio minerali. Inoltre, focalizzandosi su alcuni case studies si rifletterà anche sulla spinosa questione di a chi restituire.
Dalla ricerca di provenienza alla restituzione (e ritorno)
Il 12 giugno 2020 l’attivista congolese Mwazulu Diyabanza ha prelevato una stele funeraria dall’allestimento del Musée du Quai Branly di Parigi, cercando di recarsi verso l’uscita, dichiarandosi intenzionato a “recuperare quello che ci appartiene”. Si tratta dell’ennesima rivendicazione, forse la più spettacolare ad oggi [3], legata all’intenso dibattito sui musei europei (e sul modello espositivo “occidentale” in generale) e la loro pesante, ambigua e controversa eredità coloniale; una discussione che pur andando avanti da decenni – ad esempio nel contesto della museologia di collaborazione e la restituzione dei resti umani – si è indubbiamente intensificata negli ultimi anni. Nel novembre 2017, in occasione di un discorso presso l’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato di voler invertire il comportamento sino ad allora tenuto dalle istituzioni culturali francesi, procedendo, nell’arco di cinque anni, alla restituzione temporanea o definitiva del patrimonio culturale africano conservato in Francia.
Soltanto l’anno precedente la Francia aveva negato al Benin la restituzione di alcune statue e preziosi trafugati nel 1892 dal colonnello Dodds durante le guerre franco-dahomeane (incluso il trono dorato di re Béhanzin) e donate al museo del Trocadéro (dalle cui collezioni etnografiche nel 1995 nacque il Musée du Quai Branly per volere del Presidente Chirac, separandole da quelle antropologiche, rimaste invece al Palais de Chaillot). Commissionato da Macron, il report Sarr-Savoy del 2018 ha approfondito le possibilità etiche e culturali relative alla circolazione e restituzione di materiali e opere d’arte africane presenti nei musei francesi, individuando con precisione alcuni oggetti del Quai Branly dai quali cominciare l’operazione, ma indicando anche altri musei come detentori di patrimonio culturale ed artistico legato a saccheggi e violenze ai danni delle cosiddette “source nations”. Tra questi il British Museum, l’Africa Museum di Tervuren, il Weltenmuseum di Vienna.
Da quando il report è stato reso pubblico sino al momento dell’ingresso di Mwazulu Diyabanza nel museo, solo un oggetto del Quai Branly, proveniente dall’odierno Mali, era stato restituito. Alcuni passi sono comunque stati fatti, con l’obiettivo di promuovere una visione più inclusiva del museo: non è forse casuale che come nuovo direttore del museo (a succedere dopo la lunga direzione di Stéphane Martin, formatosi all’Ecole Nationale d’Administration) nell’agosto 2020 sia stato promosso Emmanuel Kasarhéou, di padre kanak, ed ex curatore del Tjibaou Cultural Center di Nouméa (Nuova Caledonia) [4].
Per le comunità “saccheggiate” gli oggetti sottratti assumono lo status di “patrimonio assente” (Harrison 2013): un’assenza estremamente “fisica”, come ben testimoniano le sale del Musée des Civilisations Noires di Dakar. Inaugurato il 6 dicembre 2018 (grazie anche a un finanziamento di oltre 34 milioni di dollari ricevuto dalla Cina), il museo, che potrebbe ospitare circa 20.000 opere, al momento ne presenta un numero di gran lunga inferiore ma si è candidato ad ospitare tutte quelle che l’Europa e gli Stati Uniti restituiranno al continente, configurandosi così come un vero e proprio museo della diaspora africana (e delle “riparazioni”).
Un’attività di “riparazione” di particolare interesse è portata avanti da un collettivo di artisti nigeriani che ha fondato Looty.art: la piattaforma online di un progetto chiamato Looty. The world’s first Digital repatriation of Art to the Metaverse che mira a rintracciare l’arte “africana” nei musei di tutto il mondo, quindi utilizza applicazioni e tecnologie speciali per scansionare, “rubare” e convertire l’arte in formati 3D NFT, per poi rivenderli. Il 20% di ogni vendita viene devoluto al Looty Fund, che mira a offrire agli artisti africani sovvenzioni e attrezzature.
Musei e istituzioni culturali, esaminando il caso britannico come esempio emblematico, hanno risposto in modi diversi a tali sollecitazioni: alle restituzioni operate da alcune istituzioni – il Jesus College di Cambridge, l’Edinburgh University, il Manchester Museum – si sono opposte le levate di scudi da parte di altre – il British Museum (Hicks, 2020), ma anche lo stesso governo inglese e la casa reale, nell’interessante caso del diamante Koh-I-Noor e le sue ipotesi di restituzione (Dalrymple, Anand, 2017) – e posizioni di chi, almeno ufficialmente, invita a discutere la questione in modo approfondito (“decolonising is decontextualising”, sostiene Tristram Hunt, direttore del Victoria & Albert Museum).
Per quanto riguarda i musei etnografici, considerati maggiormente “esposti” rispetto al loro rapporto con il colonialismo, si ricorda, oltre ai musei già citati, il Tropenmuseum di Amsterdam, il Musée d’ethnographie di Ginevra, il Museum am Rothenbaum di Amburgo, musei che, a seguito di pressanti richieste di aggiornare la comunicazione dei reperti e “decolonizzare” gli allestimenti (si pensi alla recente decisione dell’Amsterdam Museum di smettere di utilizzare la dicitura “Golden Age”), oltre che vere e proprie richieste di restituzione, si sono visti costretti a ripensare se stessi e i propri criteri espositivi (Thompson, 2003; Gaudenzi, Swenson, 2017). Appare interessante rilevare come proprio questa nuova “pressione” a cui i musei sono stati sottoposti sia stata in grado di influenzare gli allestimenti stessi dei principali musei “coloniali” (e non solo) d’Europa negli ultimi anni, ad esempio per quanto riguarda la “provenance research”[5]. Nei casi in cui si sia deciso di procedere ad indagini preliminari alle restituzioni, si è cercato di risalire alla provenienza degli oggetti attraverso il lavoro d’archivio, tentando di ricostruire la storia e le circostanze in cui sono giunti nei musei europei. È impossibile però non notare come, ad esempio per il caso britannico, a partire dal 2011, sia venuta alla luce l’esistenza di archivi segreti del Foreign Office profondamente legati alle vicende coloniali britanniche in Africa nascosti ai ricercatori per oltre trent’anni e già parzialmente distrutti, incrinando così le speranze di poter ricostruire la provenienza e le vicende di parte delle collezioni.
Restituire oltre il patrimonio etnografico
Il proposito di decolonizzare il museo, più volte evocato negli ultimi decenni, non sempre si è accompagnato ad una riflessione puntuale rispetto a cosa renda un museo coloniale, o a quali siano le collezioni identificabili come tali. Un’operazione necessaria, quella di individuare cosa è coloniale per porsi successivamente l’inevitabile, complessa e urgente domanda: cosa fare di queste collezioni? Del resto, le restituzioni stesse hanno coinvolto non soltanto oggetti/manufatti, ma anche, seppur in misura minore, altre tipologie di materiali. È il caso delle spoglie di animali che ricoprono e ricoprivano particolari significati, come la tartaruga dorso di cuoio (honu), ritenuta taniwha (divinità con funzioni di guida) precedentemente conservata a Wellington e restituita dal governo neozelandese alla comunità Te Rūnanga o Koukourarata nel maggio 2021. Il significato “coloniale” delle collezioni di storia naturale è ancora in larga parte inesplorato, sebbene sia strettamente collegato all’idea di dominio e possesso coloniale, e allo sfruttamento economico dei territori soggetti.
Tali riflessioni coinvolgono anche collezioni come quelle del Museo Tropicale dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare (ex Istituto Agricolo Coloniale Italiano): campioni di cotone, olio, vino, resine, gomme venivano presentati al pubblico italiano al fine di incentivare l’utilizzo di materie prime provenienti dalle colonie (Falcucci, 2020). Sebbene materiali di questo tipo difficilmente si caratterizzano come soggetti di richieste di restituzione, rimane il fatto che essi occupano uno spazio sostanziale nei nostri musei, ad esempio in quelli universitari, e che è necessario fare i conti con la loro presenza museale. Le linee guida rilasciate a marzo 2022 dal comitato UMAC (University Museums and Collections) di ICOM [6], evidenziano come patrimoni pur di provenienza coloniale, considerati “scientifici” e dunque difficilmente messi in relazione con la questione delle restituzioni, necessitino comunque attenzione ai fini tanto della ricerca di provenienza quanto rispetto alla volontà di immaginare allestimenti “decoloniali” o “anticoloniali” nei musei europei. Anche volumi e manoscritti sono stati oggetti di richieste di restituzione, in alcuni casi virtuale.
Ormai già da alcuni anni, ad esempio, Massimo Zaccaria dell’Università di Pavia sta collaborando con il Research and Documentation Centre di Asmara a un progetto che mira a identificare e ricreare digitalmente una parte significativa del patrimonio nazionale a stampa dell’Eritrea. L’obiettivo è quello di individuare, nelle biblioteche italiane e non solo, e digitalizzare il maggior numero possibile di volumi editi in Eritrea tra il 1867 (dalla data del primo libro stampato) e il 1941. Negli ultimi anni il governo etiope ha presentato più volte richiesta formale di restituzione dei manoscritti (e molti altri oggetti sacri e/o preziosi) sequestrati dagli inglesi durante la battaglia di Maqdala. Le richieste sono state avanzate nei confronti del British Museum, del Victoria and Albert Museum (V&A), della British Library, della Cambridge University Library e della Bodleian Library di Oxford. Da alcuni anni, su richiesta della Chiesa ortodossa etiope, i tabot (tavolette sacre in legno) sono conservati in un deposito speciale e non sono accessibili nemmeno al personale del museo. Alcuni oggetti, compresa una Bibbia copta, sono stati restituiti a settembre 2021 [7].
Indubbiamente, la cultura materiale ha assunto un ruolo centrale nel dibattito, mettendo in ombra, per esempio, le ampie collezioni di materiali audiovisivi conservati negli archivi europei. La spoliazione del patrimonio culturale dei popoli soggetti coloniali durante l’epoca degli imperialismi non si è limitato a sculture, libri, oggetti, ma si è esteso anche alle registrazioni sonore e visive. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto per i manufatti, poche organizzazioni, comunità o governi hanno dato priorità alla richiesta di restituzione dei ricchi filmati d’archivio e delle registrazioni audio effettuate durante il periodo coloniale. Nel 2015, una registrazione audio di 65 anni fa di una canzone chiamata “Chemirocha”, cantata da un gruppo di giovani donne della comunità Kipsigis nella Rift Valley del Kenya, è stata restituita. Si tratta di una delle migliaia di registrazioni sul campo effettuate dall’etnomusicologo Huey Tracey in Zimbabwe nel 1921. Tra gli anni Venti e gli anni Settanta Tracey effettuò infatti oltre 35.000 registrazioni di musica popolare africana, fondando la International Library of African Music (ILAM), il più grande archivio di musica africana al mondo [8]. Un fatto recente, sebbene in un contesto diverso ma che ci può spingere a interrogarsi anche sulla restituzione in ambito cinematografico, vede protagonista la Cineteca Nazionale di Roma che ha offerto alla Direzione Cinema del Ministero della Cultura senegalese (DCI) il primo film di Ababacar Samb Makharam dal titolo “L’ubriaco”, cortometraggio diretto dal pioniere del cinema senegalese al Centro Sperimentale di Cinema di Roma nel 1961 [9].
Un discorso a parte meritano i resti umani. Anche gli “ancestral remains” presenti nei musei sono oggetto di richieste di restituzione, una circostanza già riscontrabile a partire degli anni Settanta del secolo scorso nei musei americani che ha condotto nel 1990 all’emanazione del Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA). Soltanto per citare un caso recente e significativo per consistenza, nel giugno scorso ben 113 scheletri sono stati restituiti dal Natural History Museum di Londra alla Nuova Zelanda [10]. Ciò tuttavia non accade soltanto nei musei coloniali europei, una circostanza che impone di interrogarsi sulla funzione stessa del museo, la sua origine e sul suo significato nel contesto globale. In Italia il Museo Egizio di Torino propone un nuova sezione dedicata proprio all’esposizione dei resti umani, interrogandosi (e interrogando i visitatori) in particolare sull’opportunità o meno di esporre le mummie. Tra settembre e ottobre 2019 il museo stesso ha condotto un sondaggio sui propri utenti, domandando loro cosa pensassero dell’esposizione delle mummie all’interno del museo [11].
Restituire a chi?
Con il suo intervento artistico Vermisst in Benin del gennaio 2021 l’artista nigeriano Emeka Ogboh ha cercato di accelerare e attualizzare la narrazione sulla riparazione dei manufatti del Benin attualmente in possesso del Museum für Völkerkunde di Dresda. Ogboh ha affisso per le strade di Dresda dei manifesti che dichiarano la scomparsa dei Bronzi del Benin con l’obiettivo di inquadrare il discorso stagnante e astratto sulle riparazioni coloniali con l’urgenza e la gravità di un annuncio di servizio pubblico, facendo letteralmente “scendere in strada” la questione delle restituzioni, visibile finalmente a tutti i cittadini. Come dichiara lo stesso artista sul sito del progetto «Spero di demistificare quello che è diventato un dialogo elitario confinato al settore museale e artistico. Passando al dominio pubblico con il formato immediatamente riconoscibile di un manifesto di scomparsa, spero di reclamare questo problema come una responsabilità postcoloniale e sociale. Nessuno è esente dalle ripercussioni del colonialismo e, finché continueranno a esistere questioni di agency, proprietà e libertà, la società deve agire nel suo insieme per rimpatriare manufatti che semplicemente non sono suoi» [12].
Per “Vermisst in Benin”, Ogboh ha scelto il mezzo dei manifesti delle persone scomparse, che vengono affissi nei luoghi pubblici alla ricerca di persone di cui è stata denunciata la scomparsa. Ognuno dei cinque manifesti mostrava l’immagine di un bronzo del Benin con sopra l’anno “1897” e il luogo “Bini/Nigeria” in cui l’oggetto è scomparso. L’attenzione era attirata dal manifesto con la scritta “MISSING” stampata in lettere rosse su tutto il manifesto. Sotto l’immagine si trovavano le dimensioni del bronzo e una breve descrizione, oltre al link al sito web del progetto e a un codice QR. In un secondo momento la discussione su questi e altri oggetti saccheggiati si è andata concentrando sulla proprietà, e cioè sulla domanda: a chi appartengono questi oggetti? All’odierno stato nigeriano?
Un caso illuminante in tal senso è quello studiato da Abena Yalley e Daniel Kwofie [13], che riguarda la testa del re Badu Bonso II sottratta dagli olandesi e conservata per oltre 150 anni al Leiden University Medical Center e le implicazioni riguardo la sua restituzione al governo del Ghana per il popolo Ahanta. Gli olandesi avevano infatti stabilito porti dediti al commercio di schiavi in Ghana dalla fine del 1500 e rimasero coinvolti nel paese fino alla fine del XIX secolo; nel 1838 invasero il regno Ahanta, distruggendone per sempre l’autonomia e la prosperità, impiccarono Badu Bonso e la sua testa conservata in formaldeide venne spedita in Olanda. Nel luglio 2009, la testa di Badu Bonso II è stata restituita al governo del Ghana e da allora conservata all’Ospedale militare n.37 di Accra. Come sottolineano Yalley e Kwofie, molti ahantas sentono che Badu Bonso non è ancora “tornato a casa”, nonostante siano passati 12 anni dalla restituzione formale al Ghana: gli ahantas avrebbero infatti voluto riavere la testa per poterle dare una sepoltura formale, non riconoscendo di fatto nel governo ghanese il legittimo detentore dei resti del loro re.
La complessità della restituzione
Si è visto come per comprendere a fondo la pervasività della presenza coloniale nei nostri musei, istituti, archivi, sia necessario spingersi oltre gli oggetti e manufatti etnografici e oltre il rapporto coloniale “classico”, di come sia necessario interrogarsi oltre le forme di restituzione meramente “fisica” e di come si renda necessaria una riflessione anche su quali sono gli interlocutori che i governi occidentali ritengono “al proprio pari” e dunque degni di ingaggiare questa conversazione con noi (e quindi quali no).
Tuttavia, Olúfẹ́mi Táíwò, professore di African Political Thought alla Cornell University rifiuta con forza l’utilizzo indiscriminato del termine “decolonize”, ritenendo che esso neghi l’agency dei paesi e cittadini ex-colonizzati, indicando tale prassi come “industria della decolonizzazione” (Táíwò 2022). Sullo stesso piano si pone anche Dan Hicks, curatore del Pitt Rivers Museum di Oxford e autore di Brutish Museum, che parla di un vero e proprio “Scramble for Decolonization” in atto, cinico e superficiale. Una sorta di “Olimpiadi della decolonizzazione” a cui ancora una volta partecipano solo le nazioni europee [14].
Per quanto riguarda nello specifico l’Italia, tali riflessioni paiono appartenere a un orizzonte ancora lontano. Nonostante vicende ormai note come quelle della Venere di Cirene o della stele di Axum (Santi, 2014; Troilo, 2018), il nostro paese percepisce se stesso come un territorio “tradizionalmente spoliato”, a partire dalle campagne napoleoniche per giungere sino all’arte trafugata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, tanto da giustificare la presenza di un nucleo dell’Arma dei Carabinieri con competenze specifiche dedicate a rintracciare opere d’arte sottratte al paese. Il cambio di paradigma che lo vedrebbe “spoliatore” a sua volta, nei territori delle ex colonie e non soltanto, non è dunque affatto scontato. Recenti richieste di restituzione, come quella dello zemi precolombiano ricevuta dal Museo di Antropologia di Torino [15], che ha portato all’organizzazione di una mostra ad esso dedicata [16], e la nascita di un gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali in seno al Comitato per il Recupero e la Restituzione dei Beni Culturali presso il Ministero [17] paiono tuttavia segnare dei possibili punti di partenza per una maggior consapevolezza del ruolo che l’Italia, come il resto del Global North, ha rivestito (e tuttora riveste) come spoliatrice e detentrice di patrimoni altrui.
Bibliografia
Dalrymple W., Anand A., Koh-I-Noor. The History of the World’s Most Infamous Diamond, Bloomsbury Publishing, London, 2017.
Falcucci B., Creating the empire: the colonial collections of the Museo Agrario Tropicale in the Istituto Agricolo Coloniale Italiano of Florence, in «Journal of the History of Collections», 2020, 32(2), pp. 341-352.
Gaudenzi B., Swenson A., Looted Art and Restitution in the Twentieth Century. Towards a Global Perspective, in «Journal of Contemporary History», 2017, 52(3), pp. 491-518.
Harrison R., Heritage. Critical Approaches, Routledge, London, 2013.
Hicks D., The British Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution, Pluto Press, London, 2020.
Santi M., La stele di Axum da bottino di Guerra a patrimonio dell’umanità, Mimesis, Milano, 2014.
Savoy B., Africa’s Struggle for Its Art: History of a Postcolonial Defeat, Princeton University Press, Princeton, 2022.
Táíwò O., Against Decolonisation. Taking African Agency Seriously, Hurst, London, 2022.
Thompson J., Cultural Property, Restitution and Value, in «Journal of Applied Philosophy», 2003 20(3), pp. 251-262.
Troilo S., Bianca e casta. La Venere di Cirene tra Italia e Libia (1913-2008), in «Memoria e ricerca», 2018, 57, pp. 133-155.
Note
[1] Il rapporto Sarr-Savoy del 2018 consultabile a questo LINK
[2] Per approfondire, a questo LINK gli accordi di Berlino del 30 giugno 2022
[3] Un gesto simbolico, che richiama il noto caso del furto del 1982, quando un codice azteco venne rubato dalla Bibliothèque Nationale di Parigi da ignoti, per riapparire all’Instituto Nacional de Antropologia e Historia a Città del Messico.
[4] Si veda a questo LINK l’annuncio della nuova presidenza del Musée du Quai Branly
[5] A riguardo si vedano, ad esempio, le Guidelines for German Museums Care of Collections from Colonial Contexts, German Museums Association, Berlin, 2021.
[6] Si veda a questo LINK la guida ICOM per le restituzioni legate a collezioni universitarie.
[7] Un approfondimento a questo LINK sulla restituzione di alcuni oggetti sottratti a Maqdala.
[8] Si veda a questo LINK il caso della restituzione di audiovisivi.
[9] Si veda a questo LINK l’interessante case study della Cineteca di Roma.
[10] Si veda a questo LINK il caso della resituzione di 113 scheletri dal Natural History Museum alla Nuova Zelanda
[11] Si veda a questo LINK la nuova sala del Museo Egizio di Torino
[12] Dan Hicks commenta a questo LINK le più recenti restituzioni
[13] Comunicazione presentata da A. Yalley e D. Kwofie, Restitution is Equal to What? The assassination and return of the head of Badu Bonso II by the Dutch and its implications for the Ahanta people of Ghana, The return of looted artefacts since 1945: post-fascist and post-colonial restitution in comparative perspective, Max Weber Stiftung Conference, German Historical Institute in Rome, 16-18 May 2022.
[14] Si veda il sito del progetto Vermisst in Berlin
[15] Si veda a questo LINK la richiesta di restituzione da parte della Repubblica Dominicana all’Italia
[16] La mostra “Il mondo in una stanza” che ha avuto nel suo centro proprio lo zemi
[17] Si veda a questo LINK l’annuncio della nascita del gruppo di lavoro ministeriale.
Beatrice Falcucci è assegnista di ricerca presso l’Università dell’Aquila e fellow presso il Reale Istituto Neerlandese di Roma. Dopo aver conseguito il dottorato presso l’Università di Firenze è stata fellow presso l’American Academy in Rome e borsista presso la Fondazione Einaudi di Torino. La sua tesi di dottorato ha vinto il XXV premio della Fondazione Spadolini. Ha pubblicato tra gli altri Il Museo Coloniale di Roma tra propaganda imperiale, oblio e riallestimento in “Passato e Presente”. La sua monografia dedicata ai musei e alle collezioni coloniali in Italia è prevista in uscita entro l’anno 2022.