§restituire, lenire, ridistribuire
Ripensare la restituzione: dalla proprietà alla relazione
di Marzia Varutti

Il concetto legale di proprietà inteso come diritto esclusivo dell’individuo è profondamente radicato nella prospettiva ideologica dell’Occidente, da dove fu successivamente esportato a tutto il mondo attraverso l’impresa coloniale e poi implicitamente elevato a principio universale dalla Convenzione UNESCO del 1970 sulla Proprietà dei Beni Culturali (UNESCO, 1970). Non sorprende dunque che le istituzioni museali continuino ad operare in questo paradigma e siano restie o esplicitamente opposte alla restituzione del patrimonio culturale. Le ragioni di tale opposizione sono molteplici, ma si riconducono fondamentalmente ad un approccio alla curatela basato sul concetto legale di proprietà delle collezioni. Finché le collezioni continuano ad essere concepite come oggetti di proprietà del museo, e per estensione della nazione, la questione della restituzione rischia di rimanere in stallo. 

Questo articolo si appoggia ad una genealogia di teorici della museologia e pionieri della pratica museale nel propugnare, in alternativa al diritto di proprietà, una prospettiva alla restituzione incentrata sul concetto di relazione (Clifford, 1997). Nel momento in cui le collezioni museali si ripensano non più come oggetto di contesa ma come relazioni in potenza, passerelle materiali tra comunità, paesi, saperi, culture, ontologie e sistemi di valori, la restituzione diviene opportunità

Più in dettaglio, la restituzione diviene un’opportunità di avviare processi di rilevanza cruciale per tutti gli attori coinvolti, quali la rigenerazione delle collezioni grazie ai nuovi significati che gli oggetti acquistano con la re-inserzione nel tessuto socio-culturale locale; la rigenerazione delle culture locali che rinforzano/reinventano la loro identità attraverso il recupero del patrimonio culturale; la creazione di nuove relazioni tra musei e comunità riceventi, relazioni improntate ad una maggiore parità con un effetto (quantomeno parzialmente) risanatore degli abusi e discriminazioni di epoca coloniale; il ripensamento delle competenze curatoriali, non più in termini di ‘‘connoisseurship’’ bensì di capacità di mediazione e sensibilità culturale; l’emergenza di nuove pratiche museali, risultanti dal rispetto e integrazione di prospettive patrimoniali, valori culturali ed etici di diversi attori; nonché cambiamenti paradigmatici nella filosofia e ideologia museologica (derivanti dai punti precedenti), per esempio in relazione all’etica museale.

L’articolo sviluppa una serie di riflessioni su tali opportunità utilizzando esempi tratti dalla letteratura e ricerca di terreno (principalmente tra le popolazioni indigene a Taiwan), e propone una riflessione su alcune delle questioni aperte della restituzione, quali il rischio di neo-colonialismo (Boast, 2011) legato a forme di ‘‘restituzione condizionata’’.
L’articolo è un invito e un contributo a ripensare la restituzione come processo produttivo di nuove relazioni e pratiche che a loro volta hanno il potenziale di trasformare in modo radicale l’istituzione museale: una trasformazione necessaria affinché i musei continuino ad essere istituzioni socialmente rilevanti nel futuro.

Alcune note terminologiche. L’uso del termine ‘‘restituzione’’ è preferito a quello di rimpatrio, carico di connotazioni nazionalistiche. Allo stesso modo, le espressioni ‘‘comunità richiedenti’’ e ‘‘comunità riceventi’’ sono preferite a ‘‘comunità di origine’’, che rinvia ad una continuità culturale e di discendenza tra passato e presente che è spesso oggetto di contestazione nelle questioni di restituzione.
Sebbene questo testo prenda spunto dalla restituzione di artefatti etnografici in risposta a richieste di popolazioni autoctone, le considerazioni sviluppate sono applicabili a varie tipologie di musei e collezioni. 

(Ri)generare collezioni, culture, legami

La restituzione arricchisce le collezioni museali di nuovi significati poiché artefatti del passato vengono riattualizzati nel contesto di politiche identitarie attuali a livello locale, nazionale e sovranazionale. A prescindere dall’esito finale, le richieste di restituzione rafforzano l’identità culturale, il senso di unione e coesione della comunità richiedente che si mobilita attorno all’intento della restituzione o per celebrare il ritorno degli artefatti. Analogamente, le richieste di restituzione sono spesso accompagnate da gesti spettacolari e cerimonie ampiamente mediatizzate che offrono visibilità a gruppi altrimenti marginalizzati
[1].
La restituzione è una forza rigeneratrice della cultura grazie alla sua dimensione rituale. Si può in effetti ripensare la restituzione (come proposto da Peers et al., 2017) come una serie di rituali che articolano «i profili di un emergente panorama etico in cui negoziazioni concernenti la memoria,  responsabilità, sensi di colpa, identità, santità, località e proprietà assumono forma di rituale» ( Peers et al. 2017: 2). Si tratta certo di un rituale in cui diversi rapporti di forze si confrontano, ma che ha anche una valenza riconciliatrice e risanatrice proprio grazie alla sua natura processuale, di performance.

La restituzione di antichi artefatti museali alle comunità richiedenti spesso conduce alla riscoperta, rivalorizzazione, e a volte reinterpretazione di significati; il processo può generare nuove informazioni, nuove storie e nuove pratiche culturali che rivelano sorprendenti connessioni tra individui, discipline, comunità, istituzioni, paesi, eventi. Ad esempio, l’antropologa canadese Cara Krmpotich (2014) ha documentato come la comunità Haida della British Columbia si sia raggruppata attorno alla richiesta di restituzione del proprio patrimonio disperso in musei di tutto il mondo. Le richieste di identificazione, documentazione e recupero degli oggetti, iniziate a metà degli anni Novanta, hanno innescato una vigorosa rigenerazione della memoria e delle pratiche culturali Haida, a partire dalla cultura materiale, con la creazione di coperte rituali e tradizionali scatole di legno curvato decorate con i tipici motivi, usate in riti e cerimonie. 

L’esempio della comunità Haida è significativo anche per l’ampio sistema di relazioni con musei internazionali che gli Haida sono riusciti a tessere attraverso le richieste di restituzione. Ad esempio, da oltre due decenni la comunità e il museo Pitt Rivers dell’Università di Oxford sono impegnati in un dialogo attorno alla restituzione di artefatti nelle collezioni del museo. Il dialogo ultra ventennale – documentato dalle antropologhe e curatrici Laura Peers e Cara Krmpotich (Krmpotich e Peers, 2013) – ha fornito il contesto per una serie di progetti collaborativi grazie ai quali artisti Haida hanno potuto osservare e studiare da vicino artefatti culturali, trarne ispirazione per nuove opere e recuperare saperi e tecniche legati alla loro creazione, in tal modo contribuendo al rinnovo artistico-culturale della comunità [2]. Queste collaborazioni hanno contribuito in modo sostanziale alla revisione delle politiche di restituzione al Pitt Rivers, che in anni recenti ha instaurato una serie di procedure, principi e protocolli destinati a facilitare collaborazioni e dialoghi attorno alla restituzione [3].


Nei dintorni della restituzione

La riappropriazione fisica dell’artefatto museale originale non rappresenta necessariamente l’unico o il più importante esito di una richiesta di restituzione. Per lungo tempo, la centralità del concetto legale di proprietà ha offuscato altre opportunità di collaborazione tra musei e comunità, alternative (o propedeutiche) al trasferimento della proprietà, quali i prestiti di lungo periodo, scambi e riproduzioni, nonché progetti di restituzione virtuale.
Il Centre culturel Tjibaou a Noumea, in Nuova Caledonia (un territorio soggetto alla sovranità della Francia), offre un’illustrazione di come la questione spinosa della proprietà del patrimonio culturale si ponga in un contesto coloniale (Message, 2006). Il Centro ha negoziato con musei francesi ed internazionali detentori di collezioni Kanack (la cultura indigena) una serie di prestiti di lungo periodo (tre anni nel caso di collezioni provenienti dal Musée du quai Branly – Jacques Chirac a Parigi) che permettono alla popolazione locale di riavvicinarsi e riappropriarsi della loro cultura, riattivare la memoria culturale e gli aspetti del patrimonio immateriale.

In altri casi, il trasferimento di un artefatto può dar luogo alla creazione di una replica che viene donata alla parte cedente l’originale. Per esempio nel 2006, il Museo Nazionale Etnografico Svedese di Stoccolma restituì il totem pole G’psgolox alla comunità di origine Kitamaat, nella British Columbia (Jessiman, 2011). In tale occasione, artisti Kitamaat crearono una replica del totem ora al museo svedese; grazie alla replica si instaurarono dialoghi tra artisti e scolaresche a Stoccolma e Kitamaat.
Accanto a prestiti e riproduzioni, la restituzione virtuale è emersa come una delle soluzioni più diffuse in alternativa e in complemento alla restituzione fisica degli oggetti. Si tratta di una forma di restituzione di parte del patrimonio immateriale attraverso l’accesso a materiale fotografico e audiovisivo, data base, documentazione d’archivio ecc. Il termine ‘‘restituzione’’ non è del tutto appropriato poiché si tratta in effetti di una limitata condivisione (o data sharing, per usare il termine proposto da Boast e Enote, 2013) del sapere legato al patrimonio materiale. Ciononostante, queste forme di distribuzione del sapere aprono nuove prospettive d’interpretazione delle collezioni e facilitano la creazione di vasti network di contatti grazie all’accesso condiviso a piattaforme virtuali e data base. Al di là dei benefici evidenti di tali iniziative, ci si può chiedere se nel lungo periodo possano esacerbare la mancanza materiale degli oggetti. Se per alcune comunità la restituzione virtuale non è un’opzione soddisfacente, per altre l’accesso virtuale offre delle prospettive di riappropriazione  equiparabili alla restituzione. Ad esempio, a Taiwan, documenti storici sulla comunità autoctona Kavalan testimoniano l’abilità di questo gruppo nella lavorazione delle fibre del banano, utilizzate  nella creazione di capi di abbigliamento e oggetti di artigianato. 

Esemplare di tessuto prodotto dalla comunità Kavalan (Hualien, Taiwan) ottenuto a partire da fibre dell’albero di banano. Foto dell’autrice.

Nel corso del XX secolo, questo sapere andò quasi completamente dimenticato, finché nei primi anni 2000 un’antropologa taiwanese (la professoressa Hu Chia-Yu all’Università Nazionale di Taiwan) intraprese una ricerca sulle collezioni in fibra di banana provenienti da Taiwan in una serie di musei in Gran Bretagna, Giappone e Canada [4]. La documentazione audio-visiva che ne risultò offrì alle donne più anziane della comunità Kavalan uno strumento prezioso per rievocare la memoria dei gesti e sperimentare con le procedure di lavorazione della fibra, fino a recuperare le competenze perdute. Oggi la comunità Kavalan vanta una cooperativa locale che produce articoli in fibra di banano; la qualità della lavorazione è tale che diversi musei nazionali di Taiwan hanno commissionato alla cooperativa la riproduzione di artefatti storici Kavalan, in tal modo chiudendo un cerchio di continue relazioni tra comunità e musei (Varutti, 2015).

Tra i progetti internazionali di condivisione digitale delle collezioni merita una menzione il pionieristico Reciprocal Research Network (RRN) [5]. Si tratta di una piattaforma di ricerca lanciata dal Museum of Anthropology at UBC, che riunisce le collezioni di musei negli Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna; la piattaforma permette a membri della comunità autoctone di visionare oggetti e documentazione relativi al loro patrimonio e recuperare così la memoria culturale.
Un simile progetto di restituzione virtuale degno di nota è Sharing Knowledge [6], frutto della collaborazione tra la Smithsonian Institution di Washington, l’Anchorage Museum e le comunità autoctone dell’Alaska. Il progetto prevede la collaborazione di professionisti museali e comunità locali attorno alla documentazione ed interpretazione delle collezioni dell’Artico. 

I prestiti di lungo periodo, le riproduzioni, i progetti di restituzione virtuale non offrono soluzione immediata alla questione della restituzione, ma acquistano significato in una prospettiva di lungo periodo, come passi intermedi verso la risoluzione di annosi contenziosi e il risanamento di relazioni. Hanno il beneficio di far emergere nuove prospettive e saperi sugli oggetti – inclusi saperi riguardo al valore di tali oggetti per le parti coinvolte, nonché le rispettive aspettative. Nel processo, si creano le condizioni per una migliore comprensione reciproca, e si gettano le basi per rapporti più paritari e di fiducia – indispensabili per avanzare lungo la strada della restituzione.

 

Restituzione e neocolonialismo
Venticinque anni fa, James Clifford (1997) propose il concetto di museo come zona di contatto, a significare il potenziale del museo e le sue collezioni di diventare piattaforme di dialogo con attori esterni, spazi per la mediazione di forme di sapere, valori ed autorità, idealmente caratterizzati da uguaglianza e reciprocità. Per Clifford (1997: 190) ‘quando si ripensano i musei come zone di contatto, la loro struttura organizzativa in quanto collezione diviene una continua relazione storica, politica e morale, una serie di scambi carichi di energia». A dispetto della visione ideale che animò le parole di Clifford, la zona di contatto può spesso rivelarsi in realtà una zona di disparità e discriminazione – anche in contesti di restituzione. In effetti, anche un processo a priori redentivo, risanatore dei soprusi del passato quale la restituzione può essere affetto da asimmetrie di potere e sopraffazione, celate proprio dai toni positivi del gesto e dalla sua risonanza con retoriche politicamente corrette sul ruolo dei musei nell’attuare post- e de-colonizzazione, inclusione e giustizia sociale. In quest’ottica, l’esperto di digitalizzazione del patrimonio culturale Robin Boast invita ad una lettura critica dell’idea del museo come zona di contatto. Boast osserva che i musei possono rivelarsi «spazi asimmetrici di appropriazione […] A dispetto di quanto ci sforziamo di rendere questi spazi accoglienti, rimangono spazi in cui l’Altro viene a dare una performance per noi, non con noi» (2011: 63). Esiste dunque un rischio reale che la zona di contatto si trasformi in una zona di appropriazione dietro la facciata della collaborazione, dando così luogo a nuove forme di colonialismo. 

L’eco della zona di contatto come uno spazio di potere asimmetrico risuona qualora la restituzione di artefatti alla comunità richiedente sia soggetta ad una serie di condizioni imposte dal museo cedente, quali ad esempio la presenza di un museo locale ‘‘ricevente’’ dotato di strutture ed equipaggiamento conformi a criteri prestabiliti. L’imposizione di tali condizioni rappresenta in se stessa un esercizio di potere che non può passare inosservato, anche e soprattutto nel contesto di progetti altrimenti esemplari. Ad esempio, in Norvegia, un accordo di restituzione delle collezioni attinenti alle comunità autoctone Sámi (chiamato Bååstede, ‘restituzione’ in lingua Sámi) fu sottoscritto nel 2012 da due musei nazionali norvegesi (il Museo Norvegese di Storia Culturale e il Museo di Storia Culturale dell’Università di Oslo) e il Parlamento Sámi in rappresentanza delle comunità Sámi norvegesi (Gaup et al., 2021). L’accordo prevede il trasferimento di metà delle collezioni a sei musei locali Sámi (l’altra metà è destinata a rimanere nei musei della capitale, Oslo). La valutazione di Bååstede è ambivalente. Il Museo Norvegese di Storia Culturale mette in rilievo la libertà accordata ai musei Sámi di gestire le collezioni in modo autonomo [7], inclusa la possibilità di applicare metodi curatoriali emananti da tradizioni e conoscenze indigene locali, quali ad esempio metodi di conservazione tradizionali Sámi per le pelli (Klokkernes e Olli, 2008). Tuttavia il testo finale dell’accordo include condizioni non-negoziabili concernenti standard di sicurezza per la conservazione e l’esposizione delle collezioni. Ciò ha spinto alcuni a chiedersi se si tratta di un gesto di «restituzione, espiazione o un dono condizionato» (Ween 2021: 50), destando dunque perplessità sulla natura decoloniale (Lonetree, 2012) e  il potenziale riconciliatore dell’intero processo (Harlin e Olli, 2014; Ween, 2021).

Il caso norvegese porta alla luce la questione più ampia, e troppo spesso trascurata, dell’impatto di lungo periodo della restituzione sulle relazioni tra istituzioni e comunità. Questo nodo problematico è in larga parte risolto adottando la prospettiva più costruttiva del concetto di guardianship.

Oltre la restituzione: guardianship
I principi di curatela e conservazione delle collezioni sono stati lungamente ispirati da assunti quali ad esempio l’idea del museo come spazio secolare, scientifico, obiettivo, in antitesi ad idee del sacro e tradizionale, e l’idea che gli oggetti siano passivi, inerti, piuttosto che vivi, simili a persone, capaci di ‘agency’. Tali dogmatismi e rigidità hanno ostacolato lo sviluppo di approcci curatoriali alternativi, incentrati sull’idea di sensibilità culturale. Porre la sensibilità culturale al cuore delle attività di curatela significa aprire uno spazio in cui le parti coinvolte sono invitate ad un dialogo basato sulla volontà di mutua comprensione, un dialogo che non sorvola su sfumature e sfaccettature, al contrario le esplora, e di conseguenza include possibilità di malintesi e opportunità per chiarimenti. In un dialogo, la comprensione reciproca emerge dalla volontà di estendere l’orizzonte delle proprie esperienze e modi di pensare al fine di cercare genuinamente di comprendere i significati e la rilevanza di un artefatto da un punto di vista altrui. In tale contesto, la sensibilità culturale – e le connesse capacità di empatia e mediazione – si prefigurano come competenze chiave del professionista museale contemporaneo.

Uno dei concetti più innovativi nell’attuazione di questa postura ideologica curatoriale è il concetto di guardianship. L’idea di guardianship, o tutela, scardina la nozione di proprietà e la sostituisce con la condivisione di diritti e obbligazioni, e la collaborazione e consultazione estensive e di lungo periodo tra professionisti museali e rappresentanti delle comunità d’origine (Geismar, 2008). Questo approccio è stato adottato al Museo Te Papa Tongarewa a Wellington, in Nuova Zelanda, dove rappresentanti della comunità Maori sono coinvolti e consultati in tutti gli aspetti della curatela delle collezioni Maori – conservazione, esposizioni, eventi, pubblicazioni. L’importanza e la valenza trasformatrice del concetto di guardianship risiede in parte nella riconfigurazione delle relazioni – basate su fiducia, rispetto e co-responsabilità tra istituzioni e comunità – e in parte nella riqualificazione del patrimonio culturale come qualcosa di vivo, in evoluzione, di cui prendersi cura, e come qualcosa di collettivo, da condividersi. Tutto ciò alimenta una visione della proprietà come relazione (Geismar, 2008).

 

Dalla proprietà alla relazione
La restituzione è una delle più potenti forze di trasformazione dei musei, basti pensare al trattamento dei resti umani e a come le domande di restituzione abbiano prodotto non solo una serie di cambiamenti radicali nelle pratiche di acquisizione, conservazione ed esposizione di resti umani, ma una vera e propria trasformazione dell’orizzonte etico dell’attività museale (Marstine, 2011; ICOM 2016) che si sta aprendo con rinnovata sensitività culturale verso la diversità di approcci curatoriali (Kreps, 2015). 

I musei hanno oggi accumulato una significativa esperienza nel campo della restituzione. Un paio di decenni di progetti ed esperimenti di restituzione, prestiti, scambi, condivisione di basi dati etc. hanno chiarificato ciò che funziona e non funziona e permesso di calibrare soluzioni diverse e adatte ad ogni situazione particolare. I professionisti museali hanno appreso molto e accumulato considerevole sapere e abilità nel corso di questi processi. In parallelo, non mancano strumenti teorici, quali ad esempio le prospettive critiche neocoloniali o il concetto di guardianship, che aiutano a dar senso e a riflettere sui percorsi evolutivi del museo. Questi approcci teorici e pratici sono il riflesso di un più ampio contesto ideologico internazionale aperto alla revisione e alla trasformazione dei parametri etici dei musei.
Le premesse ci sono tutte perché i musei capitalizzino le  risorse a disposizione – l’esperienza e le competenze sviluppate, i concetti teorici e il quadro ideologico – per implementare nella pratica e nell’ideologia museale il passaggio dalla restituzione come un atto legale, come  conclusione dell’itinerario museologico degli oggetti, alla restituzione come inizio di nuove relazioni, esplorazione di nuove opportunità e modalità di relazionarsi ad oggetti, comunità e pubblico in senso largo.

Note
[1] La dimensione mediatica di atti concernenti il patrimonio assume un’importanza ancora maggiore nel caso di gruppi il cui status politico, ad esempio quali popoli indigeni, è contestato, come nel caso di diverse comunità indigene a Taiwan (Varutti, 2013) .
[2] Ulteriori informazioni, inclusa una ricca documentazione audio-visiva sui progetti di collaborazione tra il museo Pitt Rivers e le comunità Haida, sono disponibilit sul SITO del museo
[3] Dettagli sulle politiche di restituzione del museo sono disponibili sulla PAGINA web
[4] Il recupero del sapere legato alla lavorazione delle fibre del banano è raccontato nel documentario ‘Collezione di Memorie Ping-pu’, diretto dal regista Kavalan Pan Chao-chen (Pan, 2011) e prodotto dalla Prof. Hu Chia-yu.
[5] RRN COMMUNITY
[6] ALASKA.EDU
[7] L’accordo di restituzione prevede che ‘con il completamento del trasferimento fisico degli oggetti, la responsabilità professionale del Museo Norvegese di Storia Culturale nella gestione degli oggetti viene a cessare. A partire da quel momento, la gestione ed amministrazione degli oggetti sarà completamente la responsabilità del museo ricevente’ (testo originale Norvegese, traduzione dell’autore) 

Bibliografia

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Marzia Varutti, precedentemente professoressa associata in museologia e storia culturale all’Università di Oslo, è ora ricercatrice M.S. Curie al Centro Svizzero in Scienze Affettive (CISA) dell’Università di Ginevra. Ha esplorato le relazioni tra musei e popolazioni indigene (in special modo a Taiwan) e si è interessata in modo più generale alle politiche di rappresentazione culturale nei musei. La sua ricerca più recente si focalizza sul ruolo delle emozioni nella pratica curatoriale.