Come e quanto patrimoni culturali, musei e artisti sono risorsa per riparare, rimediare, alleviare, lenire, consolare, restituire vissuti dolorosi, ferite e traumi ad alto portato di sofferenza, con l’intento di provocare relazioni di ascolto, condivisioni di pratiche? La postura richiesta è riconoscere nelle diverse espressioni del patrimonio e dell’arte, che comprendono e provocano corrispondenze cognitive ed emotive, la potenzialità per elaborare memorie generative, per risemantizzare il dolore e ricomporre fratture. Perché ogni testimonianza vibra in risonanza con le fibre del nostro essere, compresi il disagio, la malattia e la fragilità, in relazione stretta con le nostre variegate tensioni; è ausilio per conoscersi e prendersi cura di sé e di ogni persona. «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi» (Borgna, 2014). A Eugenio Borgna, psichiatra e saggista, al suo luminoso pensiero, al suo incessante ricercare e dedicarsi, per tutta la sua operosa e lunga vita, alle ferite e agli abissi dello smarrimento umano affido l’incipit di questo riflettere, che propone alcuni rovesciamenti di prospettiva. La fragilità come dono e grazia, non da eludere e nascondere, ma a cui dare voce e canto. Il liquido sociale, il nostro, stigmatizza comportamenti che non siano performanti e sempre rispondenti alle richieste di prestazione, e così il corpo nel suo inevitabile mutare e sfarsi viene modificato. «Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite» non è una domanda, ma un’asserzione, che il filosofo Byung-Chul Han pone a sottotitolo de La società senza dolore (2021). Assumendo un altro cambio di prospettiva rispetto a politiche, poetiche e pratiche dominanti, che espungono ogni forma di dolore, considerato in controcanto con Borgna «segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso non è compatibile con la performance» (Han, 2021). La “società palliativa e analgesica” non tollera lo strappo, il disagio, la frattura, denuda il dolore anche della sua dimensione sociale; sostituisce la narrazione e il linguaggio con la contabilità dei dati, dei numeri (quanti morti; quanti in terapia intensiva; quanti corpi sfigurati, oggi …), annullando la singolarità e l’unicità di ogni esistenza. Bandito ogni rituale di commiato, l’amorevole prendersi cura.
Ferita, frattura, abbandono, disgregazione, distacco, isolamento, perdita, solitudine, malinconia: lessico della contemporaneità
Forte è la corrispondenza tra la condizione umana e quella del patrimonio, l’una e l’altro esposti e vulnerabili [1], risonanza che si è accesa di acuta e dolorosa consapevolezza durante il periodo traumatico dell’emergenza pandemica. Il patrimonio, corpo culturale vivo e fragile, con la sua biografia, si fa luogo di incontro e di relazione, diventa risorsa per il benessere e la cura di ogni persona. ICOM Italia, all’interno del processo di elaborazione della nuova definizione di museo, ha proposto di sostituire tra le finalità istituzionali diletto con piacere e benessere. Il piacere ludico, disinteressato, alimentato dalla meraviglia si può considerare quale “grado zero” nell’attivazione dell’esperienza conoscitiva e relazionale. Si trasforma in benessere, nell’accezione più trasversale: bene-essere sociale, cognitivo, psicologico ed emotivo, a tutto tondo, dell’individuo e della collettività, soprattutto per le categorie marginalizzate e non protette. È un concetto “multidimensionale”: comprende quello “spirituale” (bisogno di armonia, equità), relazionale (autostima, la gioia dello scambio), contribuisce alla “fioritura” di ogni persona. Un corpo sempre più solido di evidenze scientifiche, sostenuto da prassi, comprova la relazione tra cultura, cura e benessere, riconoscendo il ruolo che essa svolge quale fattore fondamentale, mettendo in atto strategie volte a favorire la partecipazione, ancor di più in situazioni, come quella attuale, caratterizzate da complessità, straniamento e disagio [2]. L’artista si fa interprete e mediatore, “compassionevole” nell’accezione originaria, rabdomante di senso, non pacificatore di contrasti o conflitti, che assume l’Altro nella sua unicità (Esquirol 2021) per una diversa grammatica dell’incontro con l’essere perturbato. Ma l’«empatia non è sinonimo di buonismo. Essa pone la centralità dell’altro, è un’apertura di credito verso l’altro, da cui può nascere tutto, anche il conflitto» (Boella, in Gnoli, 2022). Esemplare in questo senso è Legarsi alla montagna di Maria Lai (Ulassai, 1981): contro la retorica del monumento ai Caduti (questa la richiesta della committenza), l’artista interpreta e restituisce il senso di una comunità attraversata anche da divisioni e conflitti, lasciando libertà di azione: solo chi vuole intrecciare e intrecciarsi si “lega”: «[…] è stato l’intero paese a ricostruire un’intera rete di relazioni legando casa a casa, porta a porta, finestra a finestra e soprattutto superando nell’evento estetico del Legarsi alla montagna rancori e inimicizie» (Menna, in Lai 2011). Essere è tessere [3], un prendersi cura insieme, oltre l’abbaglio della piacevolezza confortante del “bello”, riconoscendo negli oggetti del patrimonio tracce personali; le cicatrici sono a testimonianza delle fratture e possono generare “un’altra pelle sensibile”: ogni frammento, ogni lacerazione si trasforma, una sorta di kintsugi [4] dell’anima. Si attiva dunque un’intima prossimità, una parentela stretta e affidabile – perché solo nella relazione narrativa si fa patrimonio – un’attenzione che comporta anche l’educazione alla sensibilità. Il sapere dell’anima e l’intelligenza del cuore si esprimono [5]; e così quelli del corpo che trema e gioisce, che palpita e non teme di interrogare le ferite del suo stare al mondo. È un sapere mediatore che si relaziona con l’Altro, con le collettività saldate dal riconoscersi nella coralità delle multiple forme espressive di ogni vita. Il museo è “un modo” di vedere (Alpers, 1994), dunque dell’imperfezione, del non-dato-per-sempre, e la narrazione di ognuna, di ognuno, che sia di dolore e sofferenza, o di allegria e leggerezza deve essere accolta nella continua rinegoziazione dei significati, che origina una semantica anche affettiva.
A proposito di Ustica di Christian Boltanski
Il 27 giugno 1980 il DC-9 Itavia in volo da Bologna a Palermo viene abbattuto. 81 le vittime. La vicenda investigativa, giudiziaria e processuale è costellata da omissioni, silenzi, depistaggi e occultamenti di prove e solo la costante attenzione dell’Associazione dei Parenti delle Vittime, fondata nel 1988 da Daria Bonfietti, con il sostegno di un gruppo di intellettuali e politici sensibilizzano il Presidente della Repubblica a condurre indagini corrette e serrate per stabilire la causa dell’abbattimento. Ustica è un episodio di guerra, taciuto e mistificato. A partire dal 1987 viene effettuato il recupero del 96% delle componenti dell’aeromobile a 3.700 metri di profondità, assemblate nel 1991 e trasportate a Bologna nel Museo per la Memoria di Ustica nel 2006, inaugurato il 27 giugno del medesimo anno. I resti dell’aereo, lamiere accartocciate e parti di esso, si configurano in un impressionante relitto; lo scheletro della fusoliera, una sorta di cetaceo metallico, monumento della strage, è posto al centro degli ex magazzini sventrati e ricostruiti dell’originaria sede tranviaria di Bologna. A proposito di Ustica è l’installazione permanente di Christian Boltanski (1944-2021), artista che si è costantemente interrogato sulla relazione intima tra morte, memoria e assenza; l’intento è restituire pregnanza a un luogo fisico, affinché divenga spazio per la ritualità negata del compianto, sorta di simbolica sepoltura. 81 fonti luminose pulsano a intermittenza intensiva, come diastole e sistole, “archivi dei cuori” [6], che palpitano in ricordo delle 81 vittime. 81 gli specchi neri inghiottono il nostro riguardare; non è consentito sottrarci, ci siamo anche noi dentro il sommesso transito. 81 fonti sonore sussurrano in un sospiro collettivo; un respiro ritmico, un basso continuo diffuso che non disturba il raccoglimento, ma lo asseconda, una sorta di cassa armonica, una partitura di note quotidiane, di fragili tracce acustiche, composta da frammenti di intenzioni e desideri, semplici cose da tenere a mente, da fare … domani … «Se domani è caldissimo metto il vestito bianco». «Per otto giorni non far niente, solo dormire mangiare e riposarmi». Si compone il canto di una memoria affettiva e corale, intrecciandone i fili dispersi: sono parole di un lessico familiare, che rivelano una poetica comune, assumono una tonalità in risonanza con l’autobiografia dei passeggeri-vittime. Non deposito di una memoria inerte e risolta, esibita e pacificata grazie al pensiero e al gesto curatoriale dell’artista; non memoriale spettacolare, che dà e fa spettacolo di sé, ma memoriale-memento, che si rinnova a ogni sosta di chi si specchia nello spazio nero, cupo ma non opaco, bensì riflettente, che cadenza ogni presenza-assenza. «La potenza di questa installazione sta nel fatto che i visitatori si sentono accomunati alle persone che erano a bordo dell’aereo. Per questo ci sono specchi in cui riflettersi. Bisogna rendere questi luoghi più vivi possibile» (Boltanski, 2020). Oltre alla riparazione di una memoria lacerata, alla restituzione della verità oscenamente contraffatta, all’elaborazione di perdite affettive, l’artista si fa interprete e testimone di una doppia violazione: la giustizia biffata come una lastra, il dolore che non può trovare accoglienza e riposo, alveo di silenzio e meditazione e di rielaborazione personale, ma deve farsi denuncia civile, perseguita senza tema. Anche per questa plurima valenza traumatica, ogni azione inerente alla realizzazione del Museo per la Memoria di Ustica ha assunto un valore simbolico in una ritualità “scartata” rispetto a quella usuale. Dall’accoglienza del relitto, alla posa dei sarcofaghi contenenti gli effetti-affetti delle vittime, al disvelamento delle postazioni sonore; una collettività che si riconosce nel patrimonio comune del dolore e commemora, in una sorta di rito partecipato. «Come e forse ancor più di altri siti del trauma, il Museo per Ustica è un oggetto semiotico complesso, che intreccia diverse dimensioni di lettura: museo, luogo di memoria storica, memoriale funebre, opera d’arte, testimonianza civile e, a suo modo, politica» (Violi, 2020). Lo spazio dei vivi (noi che lo abitiamo) e lo spazio dei non-più-vivi: forse questa è l’espressione maggiormente propria; è occasione per interrogarci su quanto sovente non possediamo, nelle pieghe dell’imprecisione, le parole per indicare la funzione di un luogo. «Molte volte mi sono domandato quale definizione possa più efficacemente descrivere il Museo per la Memoria di Ustica: museo, memoriale, monumento, centro studi, spazio educativo, luogo della memoria, centro di ricerca … Probabilmente nessuna parola è completamente esaustiva ma tutte contribuiscono a indicare la natura di un museo che sfugge alle definizioni canoniche riuscendo in questo modo a rinnovarsi e a ridefinirsi ogni qual volta ce ne si avvicina» (Balbi, 2019). Nove i sarcofagi neri a corredo dei resti assemblati, protetti e custoditi: sono sacrari. «Non si possono mostrare gli oggetti rinvenuti dietro delle vetrine, anche se per me sarebbe stato ben più semplice. Ma questi oggetti sono troppo sacri, non potevo mostrarli in una vetrina. Ecco perché gli oggetti sono presenti, ma nascosti come in una tomba, in un ciborio» (Boltanski in Pirazzoli, 2013). La Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870 opera di Boltanski è il catalogo-inventario di effetti-affetti: «Storia di parole e di cose, parole come cose. Prove, testimonianze. Trovate, enumerate, registrate. Sommerse e salvate, archiviate. Archiviare: scegliere, interpretare, conservare tracce – che altrimenti si cancellano» (Sebaste, 2007). La lista è l’unica prova, traccia visibile dell’esistenza delle vittime, ma la mancata evocazione dei loro volti o dei loro nomi non li rende “in-visibili”: sono presenze. L’artista compila 16 pagine con le fotografie degli oggetti rinvenuti, ordinati per categorie, rigorosamente in bianco e nero perché il colore dà fastidio, è fuori luogo, senza alcuna didascalia a commento: un repertorio di cose ordinarie, semplici, del quotidiano. La rilevanza delle cose va oltre la soglia della loro vita d’uso; anche se gli indumenti non sono più la sindone dei corpi o i quaderni appuntati sono orfani della mano, mantengono istanza, benché accartocciati, deformi. Perché, come scrive Jorge Luis Borges, le cose «dureranno più in là del nostro oblio: non sapran mai che ce ne siamo andati» (Borges, 1971), silenziose guide, sentinelle amiche per l’altrove del dopo vita nei riti più antichi, custodi della solitudine. Sanno rievocare un tempo collettivo, un sentire preciso.
La memoria di giovani cittadine e cittadini che l’appartenenza anagrafica ha protetto dall’essere testimoni (benché silenti) della strage, non richiede di essere riparata, ma di essere costantemente alimentata dalla conoscenza e dal perpetuo rimembrare, unico baluardo contro la cancellazione della nostra coscienza. Dalla fine degli anni Novanta l’Associazione Parenti delle Vittime ha dato vita ad “Attorno al Museo” [7], sempre più animato da spettacoli, pièces teatrali, readings, interventi di artisti (Mochi Sismondi, 2021) e con il festival “Arte memoria viva” «l’arte diviene il mezzo per rendere viva la memoria, collegarla al presente, e non solo alla rievocazione del passato, superando la visione di un museo come archivio statico dell’accaduto» (Violi, 2020). «Abbiamo sempre voluto, in questi lunghi anni di battaglia per la verità sulla strage di Ustica, farci accompagnare da tante e ben diverse espressioni artistiche, per fare memoria, per ricordare sempre a tutti che l’abbattimento di un aereo civile in tempo di pace nel 1980, è ancora senza responsabili» (Bonfietti, 2016).
In museo si recita a soggetto, vicenda in quattro atti
Atto I. Protasi, presentazione dell’argomento
Questo progetto è nato nel marzo 2020: con Filippo Vanoncini, mediatore umanistico del Centro di Giustizia riparativa della Caritas Bergamasca, avremmo dovuto progettare la partecipazione della GAMeC alla Summer School “La giustizia dell’incontro”, prevista a luglio a Bergamo, ma già a marzo le evidenze quotidiane non lasciavano alcun orizzonte di praticabilità; un orizzonte però, in qualche modo, noi non volevamo escluderlo dalla nostra speranza. In una città trasformata in una necropoli, percorsa dal continuo latrato delle sirene, nella conta dei morti, anche se silenziosa, si stava affermando la necessità stringente che qualcuno si facesse carico di quei dolori, in un contesto collettivo in cui si stavano sgretolando legami di parentela, di prossimità, di reciproco prendersi cura tra le persone, di staffetta tra generazioni. Il museo e la mediazione umanistica potevano, anzi, dovevano fare qualcosa. Non sto parlando dell’imperativo morale, ma della funzione a cui le nostre realtà di appartenenza erano chiamate. Il museo, infatti, secondo la definizione di ICOM, prima ancora che custode e attivatore di opere, è «al servizio della società e del suo sviluppo», mentre la mediazione umanistica promuove una grande lezione, quella di «scoprire che la crisi […] obbliga a un lavoro di verità su sé stessi e a cercare una nuova visione del mondo per poterla cambiare» (Morineau, 2018, 14) [8]. Le mediatrici e i mediatori umanistici, quindi, avrebbero potuto farsi carico, con sensibilità e competenza, della rielaborazione dei lutti, dello smarrimento davanti alla morte dei familiari, così come dei vissuti di coloro che, nelle strutture sanitarie, o nelle RSA, avevano condiviso gli ultimi respiri di queste persone. Tutto ciò doveva avvenire nel museo, coinvolgendo anche Camilla Marinoni, educatrice museale e artista. Il luogo è il messaggio, verrebbe da dire. Uscendo dalle case private, ma senza entrare negli ambienti di cura sanitaria, serviva uno spazio accogliente, deputato al dialogo tra opere e persone, dove si sta bene, associato a momenti di crescita, dedicati a sé e, soprattutto, un luogo che senza le persone perde significato e tace, come una conchiglia vuota. Sì, perché se le opere possono esistere senza i musei (si pensi alle Piramidi, alle grandi chiese, alla Valle dei Templi, esposte allo sguardo dei visitatori senza la mediazione di un edificio), i musei si attivano solo al passo di chi li percorre, e la pandemia aveva impedito ogni fruizione, spingendoci a pensare strategie che privilegiassero la tenuta di quei legami anche in relazione al territorio, sempre alla base di qualsiasi progettazione culturale.
Atto II. Epitasi, il nodo della tensione
Con queste premesse mediatrici e mediatori umanistici del Centro di Giustizia riparativa della Caritas Bergamasca e i Servizi Educativi della GAMeC, entrambi legati al tema della collettività e della memoria, con il sostegno dell’Assessorato all’educazione alla cittadinanza, pace, legalità e trasparenza, hanno costruito un percorso che attraversasse in modo comunitario questa memoria tragica, affinché un gesto creativo collettivo, scaturito da un ascolto profondo, creasse le condizioni per costruire un nuovo futuro. «La mediazione è paradossale: ci propone di incontrare ciò che fa male, quel male che turba, allo scopo di trasformarlo in una nuova forza vitale» (Morineau, 2018, 34). Il titolo del percorso, Non recidere, forbice quel volto. Laboratorio di elaborazione del dolore e memoria generativa, si deve a Montale, poeta che ha sempre fatto della memoria e dei suoi sentieri un tema fondante. Tre gli incontri, in due sono nati i “cerchi di parola”: nel silenzio, ha preso vita l’offerta di uno spazio e di un tempo per pronunciare ciò che strazia e fa fatica a esprimersi, che chiede giustizia o espone ferite insanabili. Lì abita l’ascolto, lì le altre persone si fanno specchio di chi, di volta in volta, prende la parola, riportando cosa ne hanno tratto e quale, in un certo modo, è il dono portato dai pensieri espressi, spesso a stento. Mediatrici e mediatori umanistici, che hanno condotto questi incontri, li hanno chiamati «oasi di fraternità per resistere alla crudeltà del mondo» [9]. Nel terzo appuntamento, il testimone di questa staffetta della speranza è passato alla pratica artistica: l’arte ha sempre, nelle sue corde, il potere di attivare spazi di riflessione, e quindi di rigenerazione, nasce sin dalle origini come liturgia della collettività. Camilla Marinoni, che ha condotto questi laboratori, ha costruito un’attività dall’alto valore non solo simbolico, ma anche sensoriale. Le finalità sono state condivise con la prima parte del percorso: l’elaborato doveva non solo rappresentare l’angoscia vissuta, ma raccogliere anche i semi di possibili nuovi sguardi verso il futuro. Camilla Marinoni, infatti, aveva raccolto il pensiero di Hannah Arendt, secondo la quale gli uomini «non sono nati per morire, ma per incominciare» (Arendt, 2017) [10]. Da lì la scelta del Compianto su Cristo morto, dipinto da Andrea Previtali nel 1525, nella chiesa di sant’Andrea a Bergamo: un racconto visivo di sguardi, mani, corpi, contatti e legami nati da un dolore condiviso. I materiali utilizzati – olio, vino, pastello a olio, filo di cotone e garza – profumavano di rimandi. L’olio alludeva e ai balsami usati per profumare il corpo dei defunti; la garza si legava alla delicatezza perché, esprimendo un gesto di cura, velava, senza nasconderle, parole e memorie, che sarebbero emerse come cicatrici. Il vino raccontava il tempo, perché l’essere sensibile alla luce lo trasforma, così come anche noi vediamo i nostri ricordi cambiare, le memorie affondare o riemergere, consentendoci di rialzarci dopo i traumi subiti. Il vino, quindi, ha dato vita allo sfondo, su cui si sarebbe stagliata una silhouette di Cristo, ritagliata dall’immagine del Compianto, che con il pennello è stata cosparsa poi con l’olio; questo, rendendo la sagoma traslucida, ha suggerito nuovi sguardi, dalla morte alla luce.
Atto III. Catastasi, l’evolversi dell’azione
I laboratori, otto in totale, di tre incontri ciascuno, due a cura delle mediatrici e dei mediatori umanistici Filippo Vanoncini, Giulio Russi, Anna Cattaneo, uno a cura di Camilla Marinoni, si sono snodati tra il luglio 2020, non appena è stato possibile l’incontro negli spazi del museo, e il maggio 2021, coinvolgendo in totale 120 persone, giovani e anziane, segnate da lutti, o personale sanitario, operatrici e operatori in RSA e in strutture ospedaliere. Unica eccezione rispetto ai destinatari prefissati è stata una classe dell’Istituto professionale “Caniana”: la docente ci ha chiesto di declinare il nostro laboratorio per le alunne, in quanto la pandemia aveva provocato molta sofferenza, che non trovava modalità di esprimersi, trovare ascolto e condivisione. Il senso, però, di tutto ciò non sta in un’operazione conclusa, bensì nell’essersi avviato un processo che, certamente, aveva radici pregresse [11], ma che in questa occasione ha trovato un binario privilegiato su cui indirizzare la sua corsa; quindi, il compimento dei laboratori non è stata la fine, ma l’inizio di un viaggio emozionante. Non potevano andare disperse le voci che con così tanta verità [12] avevano partecipato ai cerchi di parola, ed è per questo che abbiamo raccolto le testimonianze pervenute spontaneamente, per accendere una luce di ricostruzione. La pubblicazione GAMeC e Collettività, edita nel 2021, è stata quindi distribuita al pubblico, e a chi aveva partecipato ai laboratori, entrando in una fioritura di iniziative e di attenzioni che l’hanno assunta ad esempio di come i musei potessero diventare luoghi della relazione tra arte e cura, benessere, ricostruzione. L’attività, infatti, presentata al pubblico il 23 settembre 2020 in occasione di “ARTLAB Bergamo” [13], ha ricevuto numerosi riscontri sulla stampa e su riviste di valore scientifico (Cimoli, 2020) [14], ed è stata illustrata “fuori programma” come potenziale esempio virtuoso nell’ambito della Summer School, promossa ai primi di luglio 2021 dall’Università degli Studi di Bergamo e dall’Ufficio Giustizia riparativa della Caritas di Bergamo. Un viaggio come questo prende forma attraverso le sue mete, e lo step successivo, sollecitato anche da Filippo Vanoncini, Giulio Russi, Anna Cattaneo, è stata la proposta di reincontrarsi in museo con chi aveva preso parte ai laboratori, nell’ambito della mostra “Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione”, a cura di Anna Daneri e Lorenzo Giusti; un’esposizione che poneva al centro i passaggi di stato della materia, e certamente poteva essere sede di riflessione su come stavamo, a distanza di un anno, nel febbraio 2022. Riguardarci in volto, riprendere contatto, con la piena consapevolezza che il tempo dedicato a quel dolore era avvenuto nell’ottica dell’emergenza, ma che il servizio della mediazione era ancora lì, saldo come un paracarro, silenzioso ma sempre presente e disponibile a ricreare, in museo, nuove occasioni di dialogo. Il percorso tra le sale era stato studiato, selezionando con attenzione proprio le opere che si prestavano senza alcuna forzatura a essere metafore della possibilità di operare dei cambiamenti, da Viandanti di Namsal Siedleki a Muscle memory di Nina Canell [15]. Ora, a un anno dalla conclusione, mi trovo a raccogliere, con la distanza dello sguardo, le parole di una giornalista, Fabiana Tinaglia, che aveva partecipato ai laboratori.
Credo che contenga un vissuto, che non posso parafrasare: «I tre giorni di laboratorio sono stati intensi e salvifici, in un momento in cui la fatica è stata tanta, la solitudine di una famiglia dissolta, e il dolore immenso. Le tre mezze giornate mi hanno messo davanti al lutto in maniera completamente diversa: nella prima ho iniziato a percepire che dovevo far uscire la perdita dalla mia anima. Non sono riuscita a fare o dire quasi nulla, ma ho forse pianto per la prima volta mia madre e sono uscita con dei confini più distinti sul dolore, sul vuoto e su una ripartenza che doveva avviarsi dalla memoria. Il secondo incontro è stato più cognitivo. Distaccato, razionale e definito. Ho messo nero su bianco quel senso di mancanza, l’ho condivisa con i compagni di viaggio che ho amato molto. Il terzo incontro l’ho preso con più leggerezza pensando che fosse conciliatorio, ma ancora oggi mi rendo conto che non sono riuscita a conciliarmi con una perdita che purtroppo ha avuto risvolti pesanti nel presente. È stato alla fine l’incontro più doloroso e devastante emotivamente: ho toccato con mano la morte, l’ho ricreata su quel foglio, l’ho rivissuta nei secondi in cui mia madre mi è morta in braccio. Le mani in quella Pietà sono diventate le mani di mia madre. È stato dolorosissimo, scioccante perché non lo avevo previsto e forse è stato ancora più pesante per il fatto che nel gruppo non c’erano i miei compagni di viaggio (la colpa era stata mia, avevo recuperato perché ero partita per la Toscana). È una salvezza ogni volta che penso a quei momenti. Alla spiaggia ricreata dove ho trovato impigliati i ricordi, alle mani che ancora vedo tra le mie, alle parole su quel foglio bianco che ho scritto insieme alle persone che ho ascoltato, parola per parola, nel secondo incontro: ricordare i sogni per condividere con il cuore la bellezza del cammino. Ecco, sono in cammino».
Atto IV. Catastrofe, lo scioglimento dei nodi
Si potrebbe pensare, a questo punto, che tra il mondo della mediazione del patrimonio e quello della mediazione umanistica ci possa essere una collaborazione, ma in realtà c’è molto di più: esiste una concreta affinità di pensieri, di interpretazioni della società e del suo manifestarsi, di risposta al transumanesimo inteso come desiderio dell’essere umano di ergersi senza alcun limite o riferimento. Quando la Morineau si chiede qual è il ruolo della mediazione umanistica scrive: «Come può contribuire a identificare il senso della vita umana nel cuore della rivoluzione antropologica e sociale che stiamo vivendo? In quale modo può educarci a diventare cittadini corresponsabili del mondo che verrà? Quale può essere la sua partecipazione alla creazione di un nuovo umanesimo?» (Morineau, 2018, 34). Leggendo queste righe non si può non sobbalzare, non pensare che anche la mediazione del patrimonio si pone costantemente gli stessi interrogativi e gli stessi obiettivi. Chi lavora nell’educazione al patrimonio culturale sta lì, in mezzo, tra opere e persone per attivare un processo, solo se ci si spoglia della propria tendenza all’autoreferenzialità, se non ci si pone come arbitri di valutazione, giudici del punto di vista, rendendosi conto che serve uno spazio vuoto che ci ospiti, noi e gli altri, che è necessario un tempo lungo, perché l’ascolto sia generoso. Vorrei riportare alcune linee guida fondamentali per mediatrici e mediatori umanistici, invitando chi legge a pensare quanto siano un’ottima base per attivare dialoghi intorno alle opere.
« – I mediatori non hanno nulla da comprendere: come sarebbe possibile comprendere l’altro se non comprendo nemmeno me stesso
– Astenersi dai giudizi, visto che io stesso non comprendo.
– Lasciarsi alle spalle la propria superiorità: “io so…” per arrivare a “io non so”.
– Rinunciare all’accumulo di sapere per accogliere il vuoto interiore che diviene il ricettacolo di ciò che i medianti esprimono al di là delle parole.
– Abbandonare le pretese della mia volontà di gestire, indurre, interferire nell’intimità dei medianti.
– Diventare semplice specchio/ricettacolo di uno spazio interiore che riceve un’immagine e la rinvia esattamente come l’ha ricevuta. Tuttavia, quest’immagine va spesso al di là della percezione e della consapevolezza del mediante stesso, oltrepassa il piano cognitivo e si situa in risonanza con un vissuto profondo molto spesso ignorato dalle stesse parti» (Morineau, 2018, 121-122).
È come se mediazione umanistica e l’educazione al patrimonio si ergessero formulando una risposta al quesito cruciale posto da Miguel Benasayag: «Che tipo di società è quella che non attribuisce alcun valore alla scultura della vita, che è scultura dei corpi, della memoria dei corpi, dell’esperienza, delle ferite, delle “potenze”?» (Benasayag, 2019, 19). Si esiste, non si funziona, la vita non è una partita doppia, la dimensione del presente e del futuro si snodano in tempi non lineari, e bisogna dare loro ascolto. Dovremmo allora credere che sia possibile rendere istituzionale e diffondere questa modalità di “lavoro” dei musei, del loro coltivare l’esistenza delle persone? Che un museo possa diventare luogo di un processo così complesso e delicato come la mediazione? Credo di sì, secondo una pratica di cui ho potuto verificare validità e potenzialità. Il museo deve fare accoglienza creando, grazie alla mediazione museale, il primo gradino del percorso che consentirà di abitare uno spazio importante, di senso, di benessere. Chi media tra opere e persone formerà mediatrici e mediatori umanistici e di giustizia a conoscere le sfumature dell’opera prescelta, a comprenderne la forza, ad attivare collegamenti capaci di fare leva e di costruire significati insieme ai gruppi che saranno poi coinvolti. Questo avverrà di fronte a opere scelte con cura, relè capaci di spingere persone di qualsiasi età a interrogarsi, a vedere tutto sotto aspetti diversi, a riconsiderare sé e il mondo, a fare esercizio di pensiero complesso. A questo punto, però, è necessaria una condizione: questo può accadere dove ci sono collezioni permanenti, o abbastanza stabili nel tempo: formare è sempre un processo lungo, e mettere a fuoco un luogo come sede di mediazioni significa poterlo ritenere affidabile e presente nel tempo; come la parola monumento ha nelle sue vene “monere” e “manere”, rimanere a disposizione degli sguardi e trasmettere significati forti, altrettanto luoghi e opere dovranno essere porti sicuri, dare continuità. Due esempi, quindi, sono possibili, di due sedi tra di loro diverse, uno è una chiesa e uno è un museo, e già da subito aiutano a comprendere che nessuna attivazione di ospitalità prescinde dal contesto: nel primo caso sarà utile condividere come interrompere, per un periodo prefissato, il flusso del pubblico, per farne un luogo di dialogo protetto, mentre nel secondo caso servirà concordare con la parrocchia di riferimento quali modalità consentiranno di confrontarsi con le immagini in essa conservate. Mi riferisco al Museo del Cenacolo Vinciano, a Milano, e alla chiesa San Giovanni XXIII, legata all’ospedale di Bergamo. Partiamo dal Cenacolo [16]. Ha trent’anni Leonardo, e nel refettorio di Santa Maria delle Grazie lascia un’opera senza pari. Dipinto con lentezza, scartando la tecnica dell’affresco, il Cenacolo porta l’artista a sperimentare materiali che si sarebbero deteriorati con velocità, ma ora, sopravvissuto al bombardamento del 1943, ripristinato dall’ultimo restauro nelle sue parti originali, esso continua a affrontare tematiche di fragilità e possibilità. Creato in un refettorio, luogo di convivialità e condivisione, per fare da memoriale, nella vulnerabilità della tecnica mostra allo sguardo attento il tratteggio delicato del restauro che, come una cicatrice, ha ricucito le mancanze. Il Cristo con le braccia aperte è in dialogo con il Cristo Crocifisso del Montorfano nella parete di fronte: sono due momenti della stessa storia che l’arte annoda, creando significati; qui e nel suo essere isolato tra gli apostoli Gesù rivendica un’umanità epica: non la celebrazione dell’eucaristia, ma la solitudine davanti a un dolore e a una fine inevitabile. Poi, soffermando lo sguardo, si vede che è vero, gli apostoli si sono scostati, ma è come se nella polifonia delle loro espressioni, tra sgomento, inquietudine, sconforto e incredulità, stessero creando un argine di contenimento alla deflagrazione data dalle parole di Cristo. Come dice la Morineau hanno accolto il vuoto interiore e si sono fatti risonanza. Anche Giuda, seduto insieme agli altri dalla parte di Cristo, e non da solo, dalla nostra, è risarcito dello stigma della predestinazione. Infatti, non condividendo l’idea di un uomo vincolato a tradire per rendere possibile la morte e la resurrezione di Cristo, i domenicani lo ritenevano un apostolo al bivio, dotato di libero arbitrio, sospendendo la sua aprioristica condanna. Così, intrecciando storie, creando specchi, contenendo il dolore, medicando lacune, l’arte ha generato in questa parete viva non un muro ma un nuovo orizzonte di senso. Andrea Mastrovito era un “giovane” artista, già noto ma non annoverato nella schiera dei grandi maestri; fu scelto con coraggio e stima dall’architetto Pippo Traversi, impegnato nel progetto del nuovo ospedale di Bergamo, per la decorazione della chiesa ad esso collegata. Fu in quell’occasione che don Maurizio Gervasoni, all’epoca vicario per la Pastorale, gli diede indicazioni precise su cosa ci si aspettava dall’abside, luogo di convergenza degli sguardi, in uno spazio liturgicamente direzionato. Era necessario che desse serenità e dolcezza, così disse, e l’artista doveva sempre averlo in mente. Nella prima maquette il fondale della Crocifissione prevedeva lastre spezzate di vetro, bellissime esteticamente, ma Mastrovito scelse di scartare quella soluzione: ferivano anche solo con lo sguardo. Così lo sfondo si trasformò in un paesaggio dolce, con alberi e luce.
E poi, il Cristo: non una figura dolente, in agonia, ma senza piaghe, con uno sguardo di vittoria, e non di rivalsa, che dicesse “io ce la posso fare”. C’è già così tanta sofferenza in ospedale, serviva un’immagine che lenisse il dolore e aiutasse la ripresa, magari desse anche speranza. Infine, si arriva a quello che Mastrovito chiama «il cuore nero della composizione», il gruppo dell’Addolorata, che forma proprio la sede del battito dell’abside: lì la carezza di Papa Giovanni XXIII, così cara ai bergamaschi, continua nel braccio della Maddalena, che a sua volta quasi sfiora il braccio di Maria di Cleofa; è quest’ultima a chiudere il cerchio, contenendo il corpo della Madonna affranta. Qui pulsa il mondo degli affetti dell’artista, che conosce bene il dolore, e che ha visto sua madre, sin da quando era ragazzino, dedicarsi al padre infermo e ricoverato. La madre si prende cura, racconta Mastrovito, e la madre ha fatto da madre anche al padre, insegnando all’artista come il dolore deve essere trattato, per quel poco o tanto che si può fare. Così è lei ad assumere i tratti di Maria di Cleofa, mentre il gruppo della Madonna e della Maddalena ritrae persone legate all’artista, colpite da un lutto tremendo, poco prima della costruzione della chiesa. In questo modo il loro strazio, che è stato dolore anche dell’artista, si incarna nelle immagini, ma al tempo stesso, tramite questo lascito di carezze e contatti, esprime la cura, cerca una risposta, ricompone la frattura, prende in mano la sofferenza, non lascia che diventi immensa perché la ospita e la accoglie, facendosene carico.
Due immagini, ma moltissime sono le potenziali altre, dalla Cappella Espiatoria di Monza al meno esplicito pianoforte riverniciato Steinway and Sons di Bertrand Lavier, conservato a Rivoli. L’artista, che aveva affermato che «è il linguaggio a determinare il reale e non viceversa», potrebbe aprire la porta a tutte quelle narrazioni, a tutte quelle parole che, trovando corpo e fiato, riescono a fare affrontare realtà invivibili per sé e indicibili all’altro. «La nostra società, ossessionata da una visione capitalistica – capitale tempo, capitale salute, capitale utilizzabilità…, è cieca di fronte a qualunque forma di ricchezza non contabile e intensiva» (Benasayag 2009, 37), ma la relazione che un museo mediato può creare rivendica la priorità proprio di queste ricchezze, non contabili, esperienziali, senza prezzo. Per questo in museo si recita a soggetto, perché si rivendica il diritto ai sentimenti, all’essere sé stessi, con vulnerabilità e inaspettate risorse. Non si tratta di adattare i musei a qualcosa che non è nelle loro corde, o di trovare una location per un servizio fotografico, ma di riconoscere, con uno sguardo che vede nell’arte il teatro dell’umano sentire, che il museo non è solo, come diceva Goodman, un’istituzione per la prevenzione della cecità. Il museo è anche una stanza tutta per sé e per gli altri, un dispositivo capace di prevenire l’autoesclusione dalla società, l’isolamento nel dolore, la sordità del mondo alle vite di ciascuno, di dare voce e spazio a un “patrimonio di storie” che mette in dialogo i vissuti delle persone e di ogni testimonianza del patrimonio culturale [17].
Note
[1] Riparare i viventi è il titolo del romanzo di Maylis De Kerangal (Feltrinelli, Milano 2013); Silvia Mascheroni è l’autrice fino a A proposito di Ustica di Christian Boltanski compreso; i capitoli successivi sono di Giovanna Brambilla. “Vulnerabili beni”, ideato e condotto da Lucia Cella (Area funzionale Educazione e Ricerca, Unità di missione strategica per la tutela e la promozione dei beni e delle attività culturali della Provincia autonoma di Trento), è un progetto sonoro, “per sole voci”, declinato sui temi della fragilità e della cura. È stato presentato nella seconda sessione del seminario Il potere dell’educazione, in occasione dell’International Museum Day ICOM 2022; la registrazione del seminario è disponibile a questo link: https://www.icom-italia.org/imd22-il-potere-delleducazione/
[2] L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha presentato nel novembre 2019 la prima scoping review, fornendo riflessioni, indicatori ed esiti inerenti questo settore di ricerca; si tratta di uno dei risultati del progetto “Contesti Culturali per la Salute e il Benessere” (Cultural Contexts of Health and Wellness – CCH) promosso e sostenuto dall’Ufficio Regionale Europa dell’OMS. In Italia, il Cultural Welfare Center è fortemente impegnato in diversi e significativi ambiti di intervento: sensibilizzazione, formazione e aggiornamento; promozione e diffusione di buone prassi; costante relazione a livello internazionale (www.culturalwelfare.center).
[3] È l’ultima azione collettiva realizzata da Maria Lai ad Aggius (Sassari).
[4] Quest’arte giapponese letteralmente oro (“kin”) e riunire, riparare, ricongiunzione (“tsugi”) comporta l’uso di un metallo prezioso per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica frantumato, valorizzando i margini delle fratture.
[5] Tra le studiose contemporanee che hanno dedicato e dedicano la loro ricerca in questo ambito, segnalo: Laura Boella, Roberta De Monticelli, Luigina Mortari e Maria Zambrano; cfr. Bibliografia.
[6] Les Archives du coeur è il progetto a cui Christian Boltanski si è dedicato a partire dal 2005: riunire in unico luogo le registrazioni sonore dei battiti del cuore dell’umanità, acquisite in occasione di diverse personali; è stato aperto al pubblico nel 2010 nell’isola giapponese di Teshima all’interno della Naoshima Fukutake Art Museum Foundation.
[7] www.attornoalmuseo.it
[8] Come precisa l’autrice, la parola “verità” va intesa nel senso ebraico di emet, che indica non la certezza, ma la frattura, ciò che interpella e spinge a porsi delle domande.
[9] La citazione è stata riportata dalla mediatrice umanistica Anna Cattaneo, che ha citato una definizione data da uno dei partecipanti durante gli incontri. Ritengo doveroso sottolineare che mediatrici e mediatori del Centro di Giustizia Riparativa della Caritas Diocesana Bergamasca hanno operato e operano sempre con assoluta gratuità.
[10] La testimonianza di Camilla Marinoni, che spiega la suggestione data dalla Arendt, è in GAMeC e Collettività, Bergamo, 2021, p. 4.
[11] La prima collaborazione con i mediatori umanistici della Caritas Bergamasca risale alla partecipazione di chi scrive a un incontro sulla relazione tra arte e giustizia presso la Biblioteca Tiraboschi, nel maggio 2018, nell’ambito del Bergamo Festival “Fare la Pace”.
[12] Faccio qui riferimento allo stesso utilizzo di “verità” esplicitato dalla Morineau, ovvero di frattura e di domande.
[13] “ARTLAB-Bergamo, Il Cantiere di Immaginazione Sociale”, 23 settembre 2020, focus su: “Lezioni apprese. Cultura, benessere e coesione sociale. Nuovi divari culturali e diseguaglianze. Quali scenari possibili per alleanze generative?”, a cura del Cultural Welfare Center di Torino.
[14] Nello specifico si rimanda a p. 256 del testo di Anna Chiara Cimoli.
[15] Nella prima opera in una vasca galvanica due sagome, ispirate a statue votive del i secolo a.C., ma realizzate con le monete d’argento gettate nella Fontana di Trevi per esprimere desideri, sono legate a un processo di cessione della materia tramite un circuito elettrico che passa da anodo e catodo. Contro il dono come contratto sociale, che racconta obblighi, quest’opera intende il dono come gratuità, insegnando una pratica di prossimità e di relazione con gli altri che esclude la dinamica del profitto o il vincolo della restituzione. In Muscle Memory quintali di conchiglie formano un tappeto fragile; camminandoci sopra si sentono le valve rompersi sotto il nostro peso. Tutto si trasforma ma, spesso, la trasformazione implica irrimediabilmente la perdita di qualcosa. A volte non pensiamo a quanto le nostre azioni quotidiane possano lasciare segni.
[16] Per attivare questa esperienza sarà necessario uno sponsor che copra i mancati introiti dei visitatori nel tempo riservato all’incontro; un confronto con Emanuela Daffra, da sempre attenta allo stretto legame tra cultura e salute, Direttrice della Direzione Regionale Musei Lombardia, ha aperto la strada alla reale possibilità di attivare questa sperimentazione.
[17] “Patrimonio di Storie” è il gruppo di lavoro costituito da Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada che realizza progetti di conoscenza, elaborazione e mediazione del patrimonio culturale con l’utilizzo del metodo narrativo in chiave autobiografica; www.patrimoniodistorie.it.
Bibliografia
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Silvia Mascheroni è ricercatrice, formatrice e progettista nell’ambito della storia dell’arte contemporanea e dell’educazione al patrimonio culturale. È docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Master “Servizi educativi del patrimonio artistico, dei musei di storia e di arti visive” e presso la Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici dell’Università di Pisa; è anche coordinatrice del Gruppo di lavoro “Musei-scuole-territorio e professionalità” ICOM Italia. È responsabile con Simona Bodo di “Patrimonio e Intercultura” (www.patrimonioeintercultura.ismu.org); con Simona Bodo e Mariagrazia Panigada è co-fondatrice del Gruppo di lavoro “Patrimonio di Storie” (www.patrimoniodistorie.it).
Giovanna Brambilla, storica dell’arte, è la Responsabile dei Servizi Educativi della GAMeC di Bergamo; si occupa del rapporto tra museo e pubblici, con una particolare attenzione alle tematiche dell’accesso e dell’inclusione. È docente al Master “Economia e Management dei Beni Culturali” della Business School de “Il Sole24Ore”; al Master “Servizi Educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive”, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Iconologia all’Accademia di Belle Arti di Siracusa. È membro della Commissione Diocesana Arte Sacra di Bergamo; tra i suoi interessi di ricerca ci sono gli intrecci tra arte e società, letti attraverso le immagini.