È possibile leggere un fenomeno sociale come quello degli scontri di piazza dei primi decenni del duemila attraverso un gioco che, dalle sue premesse, cerca di liberarsi dell’etichetta di simulatore di scontri? E ancora, è possibile trasporre un’esperienza videoludica in una narrazione che volga il proprio sguardo, sia a ciò che succede sullo schermo di un computer, che a ciò che succede nelle piazze del mondo? Questo testo si propone di attraversare in modo critico un’esperienza videoludica e innescare, a partire da meccanismi di gioco che esemplificano meccanismi reali, una riflessione sull’estetica, il funzionamento e la ricezione degli scontri di piazza nei primi decenni del nuovo millennio. Non è un testo che fornisce conclusioni né risposte definitive, ma si colloca più che altro all’inizio di un percorso di ricerca sulle dinamiche di piazza intesa come luogo di protesta, le tensioni che la attraversano e le riconfigurazioni a cui è sottoposta. Va da sé che questo testo non sarà una recensione di un videogioco, né un trattato socio-antropologico; più di tutto, cercherà di essere uno spunto per delle domande, una proposta di uno sguardo trasversale che provi a scandagliare la complessità del reale mediante uno strumento, un videogioco, scelto tra molti altri a disposizione per alcune caratteristiche che mettono in luce questioni e aspetti ritenuti, da chi scrive, considerevoli di una riflessione comune.
RIOT: Civil Unrest è un gioco strategico di simulazione che colloca il giocatore al centro di scenari di scontri avvenuti nelle piazze di tutto il mondo. Ideato e sviluppato da Leonard Menchiari, la fama di RIOT è iniziata con una raccolta fondi su Indiegogo nel 2013, ed è stata poi alimentata da polemiche, dibattiti e grandi speranze che ne hanno accompagnato l’uscita nel 2018 per la casa di produzione Merge Games.
Come annunciato già dal cartello introduttivo al gioco, gli scenari e le campagne disponibili in RIOT sono la ricostruzione di scontri di piazza avvenuti nel mondo negli ultimi vent’anni: a partire dal movimento degli Indignados in Spagna, passando alle proteste francesi contro il nuovo Aeroport du Grand Ouest, fino agli scenari italiani delle proteste No Muos e No Tav. Come consigliato sempre nel cartello iniziale del gioco, RIOT non si assume il compito di raccontare nella propria complessità situazioni e contrasti che i giocatori sono invitati ad approfondire in altra sede, ma di restituire, per quanto possibile, le dinamiche di scontro intervenute in questi contrasti. Così, ogni scenario giocabile è introdotto da qualche riga di testo che aiuta a contestualizzare la protesta, fornisce una breve storia del movimento di contestazione e del clima politico e sociale che quel tipo di rivolta ha creato nel paese.
Da un punto di vista estetico, gli sviluppatori di RIOT hanno scelto uno stile pixel art che concorre a restituire l’immagine caotica e asfittica degli scontri di piazza: i manifestanti, così come le forze di polizia, non sono altro che puntini sfocati, così come i sanpietrini, i manganelli e il sangue sul selciato. Il caos è il primo elemento che permea l’esperienza di gioco; pur presentandosi a prima vista come un gioco gestionale, RIOT è in grado di riprodurre con estrema coerenza e con poca attenzione alla sua gamification l’esperienza degli scontri di piazza. Il giocatore può decidere di vestire i panni dei ribelli o delle forze dell’ordine; in entrambi i casi, i suoi obiettivi (che passano dall’occupare un’area a sgomberarla, dallo scacciare la polizia o da effettuare un gran numero di arresti) vengono perseguiti attraverso un limitato numero di scelte e di oggetti, manovrando la propria fazione dall’alto, a piccoli gruppi. In entrambi i casi, la gestione del proprio schieramento risulta complessa e caotica. Come mantenere unito un gruppo di manifestanti di fronte ai lacrimogeni che arrivano a scioglierne le fila? Come evitare di perdere terreno sotto il lancio di molotov e bombe carta che rompono le linee della polizia? La gestione di fazioni non compatte, ma frazionate in piccoli gruppi (ciascuno dei quali può assumere un determinato comportamento) simula sullo schermo la variegata e perciò sfilacciata composizione di una piazza.
Le due modalità di gioco principali di RIOT sono modalità globale e modalità missione. Quest’ultima offre al giocatore la possibilità di muoversi all’interno di scenari differenti e slegati tra loro: No Tav, Indignados, Keratea e Primavera Araba sono i possibili scenari di gioco. Per ciascuno di essi è fornita una breve narrazione dei fatti; i diversi scontri che compongono ogni scenario sono introdotti da un’animazione che cerca di ricostruire i fatti e l’ambientazione narrati.
Pur invitando i giocatori a non affidarsi a RIOT come unica fonte di informazione storica o cronachistica, la ricostruzione degli scontri è filologica, attenta a restituire il più possibile il contesto entro cui si collocano. Non solo, RIOT lascia spazio di costruzione e narrazione ai giocatori stessi i quali, tramite la modalità editor, possono utilizzare modelli preimpostati, scenari e meccaniche di gioco per narrare altri scontri e altre manifestazioni. Per ogni scenario creato, la richiesta è quella di fornire delle informazioni di contesto tramite link a siti di approfondimento o a video online: in questo modo, RIOT si offre come un possibile archivio di manifestazioni di piazza esperibili dal giocatore.
Nella modalità missione, il giocatore decide preventivamente il clima che si respirerà durante lo scontro: se per esempio sta giocando con la fazione dei ribelli, potrà decidere se avere una piazza senza bandiere, con poche bandiere, o con molte bandiere. Potrà decidere se i suoi manifestanti si presenteranno sul luogo dello scontro in equipaggiamento base, corazzati o in assetto guerriglia; potrà intervenire sull’equipaggiamento a disposizione, decidendo di dotare il proprio schieramento di strumenti per aggregare e compattare le masse (megafoni, social network) o di oggetti per contrastare le forze dell’ordine (sassi, molotov, petardi). Ciascuna di queste scelte comporterà un determinato numero di manifestanti presenti in piazza: una piazza in assetto pacifico raccoglierà una maggiore partecipazione di una piazza con intenzioni di guerriglia.
La modalità globale, invece, crea una forte connessione tra i diversi scenari di piazza collocati sulla mappa del mondo: la prima scelta che il giocatore si troverà a fare è la fazione con cui affrontare il gioco. Se sceglierà di giocare con i ribelli, l’intera esperienza di gioco sarà orientata a portare alla vittoria i diversi gruppi di manifestanti collocati nei diversi scenari di gioco. Il meccanismo di vittoria diventa un grande spunto per un ragionamento sulle dinamiche di piazza, e sull’utilizzo della violenza come elemento determinante per la vittoria o la sconfitta dei manifestanti: la vittoria in RIOT infatti si ottiene tramite il bilanciamento di due risultati distinti, il risultato militare e il risultato politico. Mentre il risultato militare tiene conto solo dei successi ottenuti a livello di avanzamento delle forze, occupazione di un territorio, rapidità nella sconfitta della fazione avversaria, il risultato politico è influenzato dalla percezione dell’opinione pubblica rispetto alla piazza. L’uccisione di un manifestante o di un agente di polizia, la creazione di scompiglio, l’impiego eccessivo di violenza dall’una e dall’altra parte diventano motivo di penalità alla voce “risultato politico”. Questo meccanismo di bilanciamento tra i due parametri ha come conseguenza la possibilità di ottenere una vittoria politica a fronte di una sconfitta militare: il che vale a dire che, in una situazione in cui il giocatore valuti che le forze avversarie siano in netto vantaggio rispetto alle proprie, ecco che potrà adottare una strategia di gioco il cui unico obiettivo è quello di dimostrarsi indifesi di fronte alla violenza dell’altra fazione. In uno scenario in cui i ribelli siano pochi, divisi, poco armati e le forze di polizia siano invece corazzate e violente, la scelta giusta per ottenere una vittoria potrebbe essere quella di schierare i propri manifestanti in assetto pacifico, facendo loro formare una linea di persone a mani alzate, o meglio ancora sedute a terra, con i palmi rivolti verso gli agenti che abbassano i propri manganelli su persone indifese. Sarebbe opportuno, inoltre, provocare la reazione violenta della polizia, magari con l’intervento di un gruppo isolato di manifestanti facinorosi che, dopo aver creato scompiglio e causato le cariche delle forze armate, si dileguino lasciando campo libero alla violenza.
Nella modalità globale di gioco ottenere una vittoria politica è molto più importante di ottenere quella che viene definita vittoria sanguinaria (una vittoria ottenuta cioè con la sola forza e violenza): questo perché, nell’affrontare gli scenari successivi (che diventano più complessi e articolati, chiedendo al giocatore di cambiare la propria strategia per ogni situazione specifica) un parametro che si rivela fondamentale per la vittoria della propria fazione è lo schieramento dell’opinione pubblica. Se gli scenari precedenti sono stati affrontati con oculatezza, tramite un impiego bilanciato della violenza, sarà più semplice affrontare i livelli successivi perché la fazione con cui si gioca godrà del favore dell’opinione pubblica; se invece ci si sarà mostrati spietati, sanguinari, il peso dell’opinione pubblica contraria contribuirà a ridurre le possibilità di successo.
La forte connessione tra la riuscita di un movimento di piazza e l’opinione pubblica è il nodo più interessante affrontato dall’esperienza di gioco di RIOT. Controllare una fazione, occupare una piazza, distruggere un obiettivo diventano movimenti singoli di una più complessa coreografia della violenza, di cui il giocatore è responsabile. Coreografare la violenza significa riuscire a capire come dosarla, quanta mostrarne, quanta provocarne e anche quanta subirne. Nella modalità di gioco missione è possibile consultare i quotidiani usciti a seguito delle azioni di piazza, e constatare come i media costruiscano una narrazione dello scontro di piazza che tenta sempre di polarizzarsi sulle figure di vittime e carnefici: riuscire a manovrare il gioco in modo da risultare vincitori ma anche potenziali vittime (indifesi, pacifici, innocui) equivale ad assicurarsi il favore degli spettatori, di coloro che non partecipano alla piazza ma la osservano.
RIOT ricostruisce una certa dinamica di piazza e conseguentemente una certa estetica della piazza: le scritte sui muri, le bandiere portate in braccio dai manifestanti, i loro vestiti, i cori intonati dai cortei restituiscono l’immagine di una piazza abitata dal conflitto e ne costituiscono, allo stesso tempo, gli archetipi. È proprio nel lavoro di mettere a nudo gli archetipi che RIOT, pur non dedicandosi a esaurire l’eterogeneità dei movimenti di protesta, è in grado di esemplificarne le dinamiche. Decodificando i movimenti naturali di azione e reazione di un gruppo che protesta, l’estetica, l’umore, giocare agli scontri diventa fare gli scontri, un po’ come – con tutte le differenze e le semplificazioni del caso – giocare ai cow-boys e agli indiani.
A questo punto dell’esperienza videoludica vissuta tramite RIOT possiamo provare a rivolgere lo sguardo all’esterno, consapevoli delle piazze reali che il videogioco racconta e della narrazione che di quelle piazze viene fornita dai media. La costruzione della narrazione delle piazze è necessariamente manichea, e vede contrapporsi un buon modo di portare avanti delle istanze a un cattivo modo di farlo: il “buon modo” è il modo della piazza pacificata, mentre il “cattivo” è quello che si rifa alla stessa estetica del conflitto che il giocatore esperisce in RIOT. Rifacendoci al concetto di decoro esplorato da Tamara Pitch nel suo saggio Contro il decoro, è facile individuare nella percezione degli scontri una paura della violenza, del conflitto, e un tentativo da parte della narrazione comune di sanzionare quel tipo di comportamento, squalificando in toto qualsiasi tipo di richiesta e istanza avanzata da una piazza che non venga ritenuta dalla pubblica opinione decorosa.
Il 10 novembre 2018 più di 30 mila persone si sono riversate in Piazza Castello a favore della costruzione del Tav. Questa manifestazione, sin dalle sue premesse, si è dichiarata a-partitica, priva di bandiere e colori (o meglio: dotata di un colore alternativo, l’arancione) e soprattutto positiva: la narrazione che i manifestanti e solo successivamente i media hanno creato è quella di una piazza a favore di qualcosa, una piazza che lotta in modo pro-attivo, che propone e non distrugge, lasciando intatto il decoro della città. Una piazza educata, che non alza i toni, che non sventola bandiere e che non intona cori, ma che al massimo canta brani di un canzoniere nazional popolare condiviso.
Alla grande manifestazione Pro Tav è seguita, nel pomeriggio dell’8 dicembre, una grande manifestazione No Tav, che ha sfilato per le strade di Torino e si è radunata nella stessa piazza. Il confronto tra le due manifestazioni, al di là degli schieramenti politici, diventa un confronto tra due modi di costruire la piazza: pur non essendo violenta in sé, la manifestazione No Tav è rimasta vicina alla propria estetica, fatta di bandiere, colori (il rosso dei fazzoletti bianchi e rossi), cori, associati direttamente a un certo tipo di piazza, una piazza appunto non decorosa. È esattamente la rivendicazione di una piazza arrabbiata che, nei giorni precedenti alla manifestazione, ha spinto i media e una parte dell’opinione pubblica a costruire intorno al raduno di manifestanti un di clima di angoscia, che preventivava una qualche tipo di devastazione, una possibile ferita nel cuore del centro della città.
Il risultato principale dell’esperienza videoludica veicolata da RIOT è quello di riuscire, tramite una semplificazione delle sue dinamiche, a decostruire la visione manichea della piazza, la divisione tra buoni e cattivi, pacifici e violenti, così difficile da decostruire nella realtà. Le piazze di RIOT sono delle piazze non pacificate, delle piazze che (già dal titolo del videogioco) si presentano come territorio di disordine. In queste piazze ci si confronta con lo scontro e le sue conseguenze. Si decide di abitare il conflitto, di problematizzarlo: fare i conti con la rabbia, e soprattutto con la violenza, trattare il suo impiego e l’astensione da essa, considerandolo come uno degli elementi cardine della protesta.
Bibliografia
Butler J., L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo, Milano 2017.
Pitch T., Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Editori Laterza, Roma 2013.
Gabriella Dal Lago (Torino, 1992) è laureata in Letteratura italiana presso l’Università di Torino, diplomata in Storytelling and Performing Arts presso la Scuola Holden e ha seguito Campo, corso per curatori. Per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo porta l’arte contemporanea nelle scuole primarie e secondarie con il progetto I speak contemporary. Membro fondatore del collettivo curatoriale CampoBase, ha scritto un po’ di tutto: racconti, saggi, testi per mostre, libri di testo e videogiochi.