«Repatriation is a much bigger issue than one limited to a discussion
of human remains and objects of sacred patrimony.
Repatriation is fundamentally about human rights».
(Killion T., 2007, p. 183)
A più di vent’anni di distanza dai primi incontri con gli alunni ecuadoriani di un istituto scolastico di un quartiere di Genova ad alta densità latino-americana, ci siamo recentemente trovati ad interrogarci nuovamente di fronte al patrimonio archeologico preispanico insieme a cittadini peruviani presenti in museo per la manifestazione di Miss Perù-Italia [1] che ci è stato proposto di ospitare. Nello stile maturato dalla apertura del museo nel 2004 [2], di accogliere le esigenze dei cittadini e metterci in ascolto di quanto accade fuori dalle nostre mura, abbiamo infatti colto l’occasione proprio per far conoscere queste collezioni alle persone peruviane che, vivendo a Genova, erano interessate a riconnettersi tramite gli oggetti alla propria terra di origine. L’intenzione era soprattutto quella di affrontare insieme il lavoro che stiamo svolgendo per rendere trasparente la loro acquisizione e cercare di intraprendere un cammino congiunto con i peruviani, adulti o in classe, che portasse tutti a comprenderne il valore ed il senso, nel rapporto con la loro presenza a Genova e con una nuova luce sulla loro provenienza.
Durante questi processi riecheggiava in me la domanda di James Clifford «Why it has seemed obvious, until recently, that non-Western objects should be preserved in European museums, even when this means that no fine specimens are visible in their country of origin?» (Clifford 1985, p. 240) [3], già ben nota ai tempi dei primi incontri con gli alunni ecuadoriani, quando i ragazzi erano così stupiti della presenza del materiale archeologico proveniente dalla propria terra che ci chiedevano se si trattasse di originali. Ormai, avendo già anche intrapreso nel 2014, grazie alla collaborazione con Consolato e Ambasciata dell’Ecuador, una vera e propria restituzione alla Repubblica dell’Ecuador di migliaia di reperti ecuadoriani esportati illegalmente, che vennero allestiti nella mostra Ecuador al Mundo. Un viaje por su Historia Ancestral come ultimo saluto prima della loro partenza per Guayaquil verso un costituendo museo con le collezioni restituite, ci sentivamo pronti ad un passaggio successivo, una volta accettato in questo caso il fatto che il prelievo dal Perù risaliva a tempi e modalità che non permettevano di pensare ad un possibile rientro a casa. Con i peruviani ci siamo quindi trovati ad ascoltare ed esplorare insieme la prima sensazione di tristezza per la loro asportazione dalla “terra ancestrale”, ma anche di rallegrarci poco dopo del fatto di poterli vedere nella propria città odierna a ricordare la propria origine a sé ed alle nuove generazioni, e di poterli mostrare a chi invece è estraneo alla grandezza delle civiltà che si sono succedute nell’antico passato del Perù.
Si è trattato di una sensazione di intimità vissuta nella relazione e nella riconnessione, che qualche giorno dopo abbiamo sperimentato ancora con due giovani visitatrici peruviane incrociate per caso durante un’altra visita, perché si attardavano con piacere di fronte alla prima installazione precolombiana del nostro intero secondo piano peruviano e non avevano alcuna intenzione di alzarsi di fronte all’arrivo di un gruppo guidato da noi appunto, con cui hanno condiviso le spiegazioni, raccontando anche del loro rapporto con questo patrimonio e delle loro visite ai musei di Lima.
La restituzione all’Ecuador del 2014 è stata vissuta come un lungo processo di contrattazioni con un governo che ha fatto calare dall’alto il rientro dei materiali senza permettere di espletare il rituale di separazione tramite i previsti laboratori e seminari che avrebbero appunto aperto una relazione con i cittadini ecuadoriani e senza poter conservare a Genova un simbolo di questo legame per i cittadini futuri in cui accogliere le loro legittime domande, come caldeggiato ed in parte condiviso nelle operazioni propedeutiche. I recenti episodi con i cittadini peruviani stanno vedendo un diverso approccio da parte di tutti noi nell’affrontare i possibili cammini percorribili, evidenziando come la restituzione non sia tanto o non si esaurisca con il trasferimento di oggetti da un posto all’altro, quanto invece un processo che genera relazioni, un rituale che genera un senso di unità dal potere trasformativo (Peers, Gustafsson Reinius, Shannon, 2017, p. 4) [4], una pratica ormai necessaria nel processo di rigenerazione dei musei che dal 1990 sta promuovendo il loro status postcoloniale attraverso programmi curatoriali condivisi, esposizioni dialogiche, uso congiunto delle collezioni e quella rivisitazione della loro inevitabile natura imperialista connotata dall’epoca della loro nascita e dalla disciplina dell’antropologia ad essi collegata fin dalle origini.
In questo senso, pertanto, rifletto su alcune esperienze intorno agli oggetti avute negli anni, a partire dalle scelte espositive fatte per il loro riallestimento nel percorso permanente ed in mostre temporanee, scelte originate dalla messa in discussione del diritto occidentale di raccontare e/o possedere il resto del mondo attraverso materiali collezionati come bottini coloniali, missionari, militari o scientifici e basate su un processo di decostruzione dell’istituzione in quanto tale, anche grazie a riconsegne, ridistribuzioni, e narrazioni quali strumenti per lenire, sanare o curare conflitti sociali e senso di appartenenza.
Restituire a chi? Riconoscere cosa?
Il primo di questi viaggi allo scopo di stabilire relazioni con chi aveva prodotto gli oggetti che mi accingevo a studiare per l’esposizione avvenne nel 1996, tra i Wayuù, nella penisola della Goajira, al confine tra Colombia e Venezuela. Ero alla ricerca di tracce e segnali che potessero rendere meno desacralizzante e reificante lo spazio in cui li stavamo relegando nel museo, ben consapevole che dietro il vetro diventavano oggetti (Hill, 1994: 18) [5], eliminando quell’unità spirituale che incarnano e costringendoli ad una staticità silente ed avulsa dalla dimensione performativa e dinamica in cui agiscono nel contesto di origine. Dal viaggio con l’antropologa visiva venezuelana Maria Eugenia Esparragoza per poter documentare questi nostri primi contatti, ancora con il nome di “Museo Etnografico”, estrapolo il racconto dalla nostra prima narrazione: «Appena incontrati, lo scenario che ci venne offerto andò molto al di là della spiegazione dei singoli oggetti e della loro funzione: le foto dei pezzi delle collezioni del museo che avevamo portato vennero presto scartate dai Wayuù – allontanando immediatamente ogni timore che ne chiedessero la restituzione, poiché fu subito chiaro che non avevano alcuna nostalgia di materiali da loro ormai da tempo abbandonati e sostituiti dalla plastica o dal metallo – : ciò che a loro premeva era trasmetterci la loro cultura vivente, la loro vita quotidiana attraverso la preparazione di un pasto, la realizzazione di un vaso, la tessitura al telaio, l’insegnamento delle danze, della musica e dei racconti ai bambini e alle bambine, la spiegazione dei motivi simbolici che spaziavano tra le tecniche e le arti dal quotidiano al rituale» (De Palma 1996) [6].
Si trattava di un viaggio che quasi serviva, più che a loro, a noi, per lenire i sensi di colpa di un saccheggio che risaliva al 1892, quando i materiali Wayuù arrivarono a Genova per le celebrazioni del quattrocentenario della “scoperta” dell’America prelevati dalle Missioni Cattoliche Americane [7], oltre che per raccogliere dati e migliorare la nostra comprensione degli oggetti e del loro contesto, ben lontani dalla consapevolezza dell’importanza di un lavoro sulla trasparenza della documentazione museale. C’era in nuce quello che esemplarmente viene sintetizzato da Vernon Williams Jr in Krmpotich e Peers con la frase: «Some people call these objects but this is our life» (Krmpotich e Peers, 2013, p. 1) [8] che ci confermava quanto nulla di ciò che noi custodiamo nei musei è stato fatto per essere visto nei musei e quanto i nostri sforzi in ogni nostra azione andavano diretti alla cura delle relazioni e dell’uomo dietro agli oggetti.
Un paio d’anni dopo, con la restituzione sotto forma di calchi all’Instituto Hondureño de Antropologia e Historia, nel 1998, di due frammenti litici in tufo vulcanico provenienti dal sito maya di Copàn, in Honduras, ci siamo ancora trovati a dichiarare la nostra non innocenza, muovendoci tra resti e saccheggi, di nuovo da parte delle Missioni Cattoliche Americane: si è trattato della restituzione di conoscenza e di integrazione di un vuoto che contribuiscono a rendere più leggibili le sculture da cui provengono i nostri due reperti oltre che rivelare le storie multiple degli oggetti e dei loro itinerari nei contesti precedenti al loro arrivo in museo. Gli originali – un teschio ed un volto del dio della pioggia all’interno di fauci feliniche digrignanti – anche in questo caso, non ci sono stati richiesti, essendo stati prelevati in epoca priva di legislazione [9], ma quanto escogitato in seno al loro progetto Copàn Mosaics Project da Barbara e William Fash del Peabody Museum of Ethnology and Anthropology (Harvard University, Cambridge, MA, che scava sul sito dal 1894) illustra un’alternativa possibile alla dibattuta questione sulla restituzione [10] e indica come la riconnessione e la relazione si rivelino comunque fecondi e sia auspicabile ogni tentativo di bilanciare lo squilibrio e la centralizzazione occidentale del potere e del sapere.
Anche se naturalmente è difficile affermare che siamo noi i migliori custodi fisici di questi reperti, la pioggia torrenziale che si è scatenata durante la cerimonia di ricongiungimento dei calchi dei frammenti, avvenuta con grande partecipazione da parte degli abitanti del villaggio, è stata vissuta da tutti come un segno di ricomposizione di un intero, di ricongiungimento di una identità frammentata e violata, da celebrare con una festa comunitaria per il ritorno del dio della pioggia Tlaloc tra i suoi fedeli [11].
Nel 2002, è stato un curatorial grant del Getty di Los Angeles a permettere il ricongiungimento successivo: la possibilità per il nostro museo di mostrare agli Hopi dell’Arizona le fotografie scattate dal Capitano D’Albertis nel suo secondo giro del mondo nel 1896 e di individuare i bambini che nel 1953 avevano fatto i disegni su richiesta di Amedeo Dalla Volta Finzi, un neuropsichiatra infantile che, assai etnocentricamente, indagava sul concetto di infinito tra le popolazioni indigene ed aveva raccolto artefatti, in seguito acquisiti per il museo dall’Associazione degli Amici. Si è trattato questa volta di un viaggio aperto ad ogni sviluppo possibile, che a partire dalla restituzione delle foto all’Hopi Tribal Council ci ha condotto tra gli altipiani rocciosi ad individuare i luoghi fotografati dal Capitano (con il divieto di fotografarli e perpetrare l’ennesimo sfruttamento della loro immagine a uso e consumo occidentale), ad incontrare i bambini del 1953 nei loro percorsi di vita dentro e fuori la riserva, e ci ha fatto entrare nelle case, nei negozi, nelle biblioteche e negli uffici, sulle tracce delle informazioni che via via raccoglievamo sull’una o sull’altra persona insieme a chi con noi stava ripercorrendo la sua vita rinnovando il ricordo di un incontro che aveva voluto dimenticare, perché sgradevole e connotato dall’ennesima intenzione di indagare sul quoziente di intelligenza- come ci venne riferito da qualcuno. Senza programmi o finzioni la cultura degli Hopi si è dispiegata innanzi a noi con una immediatezza e concretezza inaudita, rendendo chiaro a chiunque tra noi che la restituzione di questo materiale aveva un potenziale trasformativo inaspettato: oltre al fatto che le foto sarebbero diventate la più antica documentazione fotografica conservata nel loro museo sulla mesa, queste insieme ai disegni sono diventate non solo strumenti per rinfrescare la memoria «to sharpen the memory» (Edwards, 2013 p. 87) [12], ma hanno stabilito all’interno della comunità una rete di narrazioni che hanno amplificato il loro potenziale di coinvolgimento (Edwards, 2013, p. 91).
Sono le parole stesse degli Hopi a descrivere le collezioni esposte e sono stati 5 Hopi [13] ad inaugurare il museo nel 2004 per ricambiare la visita al Capitano D’Albertis, entrando fin da subito nell’area del museo appena realizzata con le loro indicazioni come se fosse un ambiente a loro familiare, dove potevano sdraiarsi e riposare tra le collezioni e le pareti in stile mattoni cotti al sole della loro architettura tradizionale. Era stata però qualche anno prima Ursula Roach [14], nella sua connessione con lo spazio ancestrale durante il restauro, a individuare dove collocare nel percorso permanente le opere del suo popolo, come raccontiamo nel video stesso che narra della nostra collaborazione in museo ed anche agli Hopi, che nel 2010 siamo andati a trovare per portare appunto il frutto del nostro lavoro insieme.
Con questa prima restituzione di foto agli Hopi in Arizona nel 2002 abbiamo inconsapevolmente dato il via ad un processo di restituzione visuale dall’archivio fotografico del Cap. d’Albertis che ci avrebbe portato molti anni dopo a restituire a comunità di piccoli borghi italiani di campagna e di montagna (dall’Alto Lazio alla Sardegna, dalla Valtellina alla Val d’Aosta) [15] la documentazione fotografica dei loro mondi ormai scomparsi, con il desiderio di riconnettere le persone alle loro storie, sperimentando quanto le fotografie siano tra gli oggetti più potenti di un museo ed abbiano un doppio potenziale: costituiscono una fonte di evidenza e documentazione per la comunità e sono un importante oggetto di negoziazione nel rapporto di collaborazione a lungo termine tra musei e comunità (Edwards, 2013, p. 83).
Con l’ingresso della voce indigena nella esposizione permanente tramite l’interpretazione delle collezioni da parte dell’artista e curatore Gerald Mac Master, Cree delle Pianure del Canada [16], una nuova occasione di trasformare l’esposizione in uno strumento per elaborare un conflitto si è fatta strada grazie all’unione della sua voce con quella dell’ideatore dell’allestimento Massimo Chiappetta (scultore e docente all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova) e della mia come curatrice: volevamo far spazio alla possibilità di denunciare il genocidio perpetrato dagli Europei nei confronti delle popolazioni indigene, invitando i visitatori a riunirsi intorno ad una vetrina circolare scavata nel pavimento, quasi invitati ad una veglia, in memoria di un bambino che al centro simboleggiava la genealogia minacciata, con donne e bambini rappresentati dai mocassini distribuiti tutt’intorno come delle presenze, su un letto di pietrisco di marmo bianco.
Qualche anno dopo (2010), con la donazione degli scatti della serie Sacred Sites of the Lakota Indians in the Black Hills del fotografo nordamericano Douglas Beasley, il rispetto verso quelle stesse popolazioni è stato esplicitato tramite le immagini di un paesaggio che ha ospitato le battaglie più cruente della guerra tra le popolazioni First Nations e gli Americani, un paesaggio sacro perché è stato ricevuto dagli antenati e che li rappresenta, senza però esibirli secondo gli stereotipi da noi romanticamente costruiti e perpetrati per decenni a nostro uso e consumo.
Ancora grazie al design dell’allestimento permanente, l’installazione dedicata al Mesoamerica, che tramite una decina di busti calcati su corpi di ragazzi ecuadoriani che circondano il visitatore in una vetrina ottagonale, insinua un forte disagio per l’assenza del loro volto o addirittura del capo, ribaltando la consueta dinamica dello sguardo appropriatore di chi visita un museo, trasformato in oggetto di osservazione. Qui i calchi stessi agiscono come tracce di corpi violati in nome della scienza, dell’antropologia e della conquista (Grechi, 2021: 175) [17] e questo disagio mira a segnalare lo squilibrio di potere a cui esponiamo il resto del mondo con il nostro comportamento cannibale.
La prima mostra temporanea del museo nel 2004 – Boe Nure Imi. Io sono Bororo. Un popolo indigeno del Brasile tra riti e futébol – ha costituito una tappa di un processo iniziato cinque anni prima nella riserva salesiana Bororo di Meruri in Mato Grosso, come primo tentativo di una antropologa museale italiana come me e di Aivone Carvalho, allora dottoranda brasiliana in semiotica della cultura, di mettere in contatto le storiche collezioni etnografiche salesiane Bororo risalenti al primo ‘900 con i discendenti di quei Bororo dove ancora i salesiani avevano la loro missione. Le decine di ornamenti in piume, collane in conchiglie e semi, utensili in fibra, frecce e strumenti musicali conservati nei depositi del Museo Etnologico Missionario di Colle Don Bosco (AT) rimasti muti nei cassetti dopo che noi stesse avevamo assolto al compito di conservarli assegnando accurati lavori di restauro, dovevano poter comunicare ai discendenti di chi li aveva prodotti, sebbene non fosse stato contemplato né al momento della loro raccolta, né nei decenni successivi, quando questo patrimonio è diventata una tra le più ricche e stupefacenti collezioni di un museo costruito con quanto prelevato dalla terra di missione come strategia di deculturazione in loco e di documentazione di un popolo ritenuto in estinzione in Italia.
Questo contatto ha prodotto nella scuola della riserva la rivelazione del significato degli oggetti da parte delle nuove generazioni alla presenza degli anziani, ha prodotto la realizzazione di oggetti “su imitazione” di quelli del MEM, ha prodotto la ripresa della pratica di rituali che sembravano sopiti nel tempo e nell’oblio in cui gli oggetti erano protagonisti, ha prodotto il recupero delle conoscenze tecnologiche e delle pratiche spirituali connesse alla creazione degli oggetti. Ed infine, ha spinto i Salesiani ad una compensazione, una volta presa coscienza del vuoto prodotto dall’asportazione degli oggetti e della necessità di colmarlo: la creazione di un Centro di Cultura in cui raccogliere i nuovi oggetti realizzati, cui attingere durante i rituali, dove conservarli quando non in uso, dove custodirli secondo le divisioni claniche, dove esibirli al gruppo e a sé per la propria autodefinizione e affermazione. Al centro di questo spazio hanno trovato alloggio alcuni oggetti bororo che erano arrivati da Meruri stesso in Italia per l’esposizione missionaria del 1925 ed erano diventati parte del MEM: con una operazione di restituzione, sono stati prelevati dal museo italiano e consegnati alla gente cui erano stati tolti, come punto di partenza di questo nuovo scambio, di una consapevolezza nuova, di una giusta compensazione, seppur simbolica, di passate relazioni sbilanciate, una vera e propria restituzione di manufatti e di saperi ed un tentativo di risarcimento verso i Bororo da parte dei Salesiani. Siamo arrivati all’ultima tappa di questo processo quando i Bororo, secondo il costume del “mori”, della compensazione, dinnanzi alla “generosità” torinese di Missioni Don Bosco che ha finanziato il Centro, hanno accettato di partecipare alla mostra genovese, hanno iniziato a lavorare alla realizzazione degli oggetti, si sono mobilitati per farsi conoscere con orgoglio e coscienza al di fuori del loro paese, affermando con sempre maggior forza e chiarezza “Io sono Bororo”. Boe Nure Imi”.
I Bororo, dunque, hanno intrapreso un dialogo attivo con il mondo esterno ed hanno incorporato la partecipazione alla mostra all’interno del percorso del Centro de Cultura e delle loro dinamiche tradizionali [18], in una relazione di collaborazione in cui pian piano nel mese del loro soggiorno in Italia noi abbiamo ceduto la barra del comando, prendendo il mare con loro e condividendo la loro visione della vita e della morte, ascoltando a bocca aperta i loro racconti al rientro dalla visita da loro decisa a Claude Levi-Strauss a Parigi e integrando le loro informazioni sul significato degli oggetti nelle nostre schede (De Palma, 2004, 2007, 2010) [19].
Negli anni successivi, abbiamo concentrato la nostra attenzione a collaborazioni nel contesto genovese. Con la performance Sirene/Mermaids alla presenza di rifugiati e famiglie immigrate appena arrivate a Genova, nel 2017, la performer e musicista Federica Loredan ha deciso di indagare sulla condizione di chi resta “incagliato”, chiuso, perso nel viaggio, concretamente o in senso lato, e di portarne in scena la voce, attraverso una poetica nuova, che si appoggia ad una danza di impatto e fortemente iconica come l’hip hop e ad una tecnica antichissima come il Body percussion, amplificata dall’uso di un costume sonoro: una immensa gonna-rete da pesca ricoperta di chiavi, monete ed altri oggetti fortemente simbolici.
Sputata fuori dal mare, la danzatrice si cimenta in una trasformazione dal valore catartico per lei stessa e lo spettatore, ma soprattutto per i migranti che abbiamo invitato in occasioni speciali in quel periodo, cercando di lenire con l’accoglienza, la condivisione e la musica la violazione di confini politici ed economici e lo strappo conseguente [20].
Sono stati anni di coinvolgimento delle comunità africane e latinoamericane cittadine in mostre ed eventi, tramite proiezioni, sfilate, danze e performance, ma è stato nel 2018, quando un gruppo di maliani dalla Brianza è spontaneamente venuto a vedere la mostra FOROBA YELEN Notti di luce in Mali [21] che abbiamo compreso che la lampada al centro della mostra, premiata dalla Città di Barcellona, pubblicata dal MoMA ed esposta alla Biosfera di Montreal come modello di integrazione tra tecnologia, cultura e natura, aveva ottenuto il massimo riconoscimento e raggiunto la massima utilità: quando cioè, meravigliati ed affascinati dalla loro scoperta, i ragazzi ne hanno scattato immagini da inviare alle proprie madri al villaggio insieme al manuale di auto fabbricazione che l’inventore ha donato agli abitanti.
Le immagini dei villaggi dove si è diffusa la lampada grazie alla gestione in mano alle cooperative locali femminili, hanno così ribaltato concetti come cooperazione, comunità e design, venendo rivisitati in una nuova prospettiva e trasformando, attraverso il lavoro dei fabbri e di coloro che nel villaggio riparano radio, TV e biciclette, l’individuo in collettività.
È stata la proposta di partecipazione da parte della ricercatrice italiana a Sydney Monica Galassi al suo progetto Archivi Aborigeni in Italia. Uno spazio per Collaborazioni reciproche (v. oltre) a trasformare nel 2020 la nostra mostra COLAZIONE A MELBOURNE E PRANZO A YOKOHAMA. L’albo di viaggio di Enrico Alberto D’Albertis e le fotografie australiane di John William Lindt da una “semplice” rievocazione del primo giro del mondo del Cap. D’Albertis nel 1877-78 attraverso collezioni etnografiche, foto e ricordi allestiti tra trofei coloniali, album di viaggio e camere delle meraviglie, nella possibilità di fare un salto nel tempo e guardare con una lente attenta al presente alle testimonianze fotografiche del nostro archivio, rivisitandole interrogandoci sul loro ruolo di allora e di oggi per noi e per le persone aborigene fotografate. La collaborazione con lo storico della fotografia australiano Kenneth Orchard, da anni impegnato con la Grafton Regional Gallery ed il comitato di Aboriginal elders della Clarence River Valley nell’identificazione delle persone e dei luoghi delle foto delle loro collezioni scattate da J.W. Lindt nella stessa zona di provenienza delle nostre, ci ha non solo permesso di contestualizzare il periodo, le relazioni e le storie dietro ad ogni foto e singola raccolta, ma soprattutto ci ha immesso in un lavoro di riconnessioni in cui è risultato evidente quanto le foto siano attive e dinamiche, entità viventi ed interlocutrici in grado di raccontare molte storie a seconda del punto di vista, come dichiara il frutto delle loro ricerche (Gaham, Orchard, & The Lindt Research Group, 2017) [22].
Gli scatti di staged photography, costruiti appunto in studio da Lindt stesso, che ritrae aborigeni australiani “addomesticati” e debitamente “vestiti” per esaudire le aspettative e costruire le narrative occidentali, sono diventate quindi in mostra uno strumento per suggerire un pensiero critico sulle collezioni storiche provenienti da epoche coloniali e segnalare le relazioni di potere deducibili tra fotografo europeo e la persona Aborigena fotografata di un’epoca in cui collezionare, controllare ed analizzare le fotografie è stato sempre gestito da obiettivi ed interpretazioni occidentali.
Oltre alla visione del trionfante mondo occidentale narrato attraverso i racconti del Cap. D’Albertis, emergono dunque altre storie delle persone e dei luoghi grazie allo spazio dato a diverse prospettive e realtà parallele, che ha culminato con la piattaforma co-partecipata di Archivi Aborigeni in Italia, il video e il testo della consulente Aborigena Marika Duczynski (v.oltre), e domande incalzanti come le seguenti, che intervallavano i ritratti di Lindt: Cosa suggeriscono il paesaggio estraniante, l’idealizzazione della cultura tradizionale Aborigena, la romantica malinconia degli sguardi degli Aborigeni trattati come esemplari scientifici in via di estinzione? Quale poteva essere la percezione delle persone Aborigene collocate in questo set così artificialmente costruito in studio, con lo sfondo dipinto, piante e rocce finte ed oggetti “tradizionali” consegnati per l’occasione? Come ti sentiresti all’interno di un simile set fotografico? Se ci fossi tu in una simile fotografia costruita, come credi verresti esotizzato/stereotipato?
Questa esposizione ha permesso quindi di fondere le due anime del museo, sanando il gap tra la dimora esoticheggiante occidentale e il percorso tematico in dialogo con le popolazioni indigene, diventando però passaggio obbligato verso l’esposizione permanente quando, alla sua conclusione, l’area dedicata agli Aborigeni australiani ha incorporato, oltre alle video-interviste di Monica Galassi e Marika Duczynski, il land acknowledgement che riconosce che i diritti sulle terre degli Aborigeni Australiani non sono mai stati ceduti, neanche dopo la colonizzazione e attraverso il violento processo di invasione ed espropriazione, come atto di rispetto verso i primi abitanti che per millenni si sono presi cura dei territori ancestrali.
Questo in fondo è il nocciolo della questione (Taiaiake, 2017) [23]: it’s all about the land, la terra, non come proprietà, ma ricevuta dagli antenati insieme ad ogni conoscenza, sapere e conseguente modalità di sopravvivenza in termini materiali e spirituali, l’espropriazione della quale rende ogni riconciliazione una ricolonizzazione e la restituzione della quale sola rappresenta una authentic land-based indigeneity (op.cit.: 12). «The voices of our ancestors continue to call out to us, telling us that it is all about the land: always has been and always will be… get it back, go back to it. We have fought for the land and for our connection to it. For five hundred years, it is this struggle to restore the living relationship between our ancestors, our land and ourselves that has defined us as Indigenous people, and it is this struggle that has ensured our survival in the face of ignorance and violence» (op.cit.:11).
Ma questo, in una giornata di buon auspicio in cui giunge la notizia che oltre 1130 opere del Benin verranno restituite alla Nigeria dalla Germania, è il tema di un altro articolo.
Note
[1] Con il titolo “Il richiamo della bellezza: radici, talenti, culture. MISS WORLD PERU’ ITALIA EUROPA: BELLEZZA CON PROPÓSITO” Castello D’Albertis Museo delle culture del mondo di Genova ha per la prima volta ospitato il concorso, proponendo ai partecipanti di incontrarsi di fronte alle collezioni indigene americane con le seguenti parole: Conosci le tue radici? Cosa lega Genova al Perù? Quante storie si nascondono dietro a un oggetto? Con questa attività vogliamo dialogare con le famiglie di origine peruviana attraverso le numerose opere di epoca preispanica del museo, raccolte nel secolo scorso da diversi personaggi su cui il museo sta facendo ricerche per rendere trasparente la loro provenienza e acquisizione. Scopriremo insieme perché nei musei europei puoi trovare reperti di epoca precolombiana e ci domanderemo che ruolo possono svolgere nel ricordare la propria terra d’origine o nello svelare a chi è nato qui un mondo lontano. Il nostro sguardo si poserà anche sulle installazioni progettate grazie al dialogo con le popolazioni indigene americane di Honduras Maya, Arizona, Canada e Stati Uniti.
[2] Vedi e De Palma M.C., a cura di, Castello D’Albertis Museo delle culture del mondo. Guida alla visita, Silvana Editoriale, Milano, 2019.
[3] Clifford, J., “Objects and Selves. An Afterword”, in W.G. Stocking Jr, a cura di, Objects and Others. Essays on Museums and Material Culture, The University of Wisconsin Press, Madison, 1985, pp.236-246.
[4] Peers L., Gustafsson Reinius L., Shannon J., Repatriation and Ritual, Repatriation as Ritual, in Museum Worlds: Advances in Research 5, Berghahn Books, 2017, pp.1-8.
[5] Hill T. “A backward glimpse through the museum door”, in T. Hill e Richard W. Hill Sr., a cura di, Creation’s Journey, Native American Identity and Belief, National Museum of the American Indian, Smithsonian Institution Press, Washington, 1994, pp.14-19. Si veda anche: De Palma M.C., “Dietro il vetro diventano oggetti”, in Petrucci Cottini V. e Curatola M., a cura di, Tradizione e Sincretismo. Saggi in onore di Ernesta Cerulli. Siena, 1998, pp. 297-314.
[6] De Palma M.C., Il Museo Etnografico Castello D’Albertis tra i Wayuù del Venezuela, ovvero i musei della comunità, in Bollettino dei Musei Civici Genovesi, anno XVIII, nn. 52-54, 1996, pp.185-192.
[7] Esposizione delle Missioni Cattoliche Americane, Catalogo con Illustrazioni e Note, Dardanoni Editore, Genova, 1892, pp.70-91. Si legga a p. 8: “L’Esposizione è destinata a dimostrare lo stato morale e materiale delle popolazioni selvagge ed idolatre dell’America, l’antico stato delle regioni ora rigenerate dalla fede e rese civili, e la salutare efficacia delle Missioni”.
[8] Krmpotich C., Peers L., Haida Material Heritage and Changing Museum Practice. This is Our Life. UBC Press, Vancouver and Toronto, 2013.
[9] La Convenzione UNESCO che detta le misure per impedire ogni illecita esportazione, importazione e trasferimento di proprietà di bene culturale risale al 1970 ed è alla base dei rapporti internazionali di lotta al traffico illecito. Ratificata dall’Italia nel 1978, definisce (art. 2) il traffico illecito come una delle cause maggiori di impoverimento del patrimonio culturale degli stati, vedendo nella cooperazione internazionale un valido mezzo per la protezione di tutti i beni nazionali.
[10] La collaborazione per la restituzione, durata dal 1993 al 1998 e conclusasi con la realizzazione dei positivi a Copán all’interno del Laboratorio dell’Instituto e la loro giustapposizione durante il corso estivo “Fields Methods in Maya Archaeology at the Harvard Field School at Copán”, è rientrata nel progetto di ricomposizione dei frammenti del sito diretto dall’Università statunitense, che dalla sua scoperta del sito a fine secolo scorso ha per decenni acquisito il diritto di spedire ad Harvard il 50% dei reperti scavati, dopo averne effettuato la copia con calchi da posizionare al posto dei reperti originali mandati fuori dal paese. Questa pratica, non più in auge da diverso tempo, ci interroga comunque sul dietro le quinte della formazione dei musei occidentali e sulle relazioni di potere e di denaro sottostanti. Per questo si veda nello specifico Hinsley C.M., From Shell-heaps to stelae, Early Anthropology at the Peabody Museum, in Stocking G.W. Jr, a cura di, Objects and Others, Essays on Museums and Material Culture, The University of Wisconsin Press, Madison, 1985, pp. 49-74.
[11] De Palma M.C., Da Copán a Genova e ritorno: l’incredibile storia di due sculture maya, Kermes Notizie e Informazioni, supplemento al n. 34 di Kermes La rivista del restauro, Firenze, 1998, pp. 6-10.
[12] Edwards E., Introduction, Talking Visual Histories, in Peers L. e Brown A., a cura di, Museums and Source Communities: a Routledge Reader, Londra, 2003, 83-99.
[13] Gli scultori e musicisti Alph Secakuku, Sacerdote della Società dei Serpenti con sua moglie Alfreda e la figlia Tara, insieme a Clark Tenakhongva con sua figlia hanno accompagnato l’apertura del museo incontrando per un mese il pubblico a Genova. Ringrazio il supporto generosamente concesso dal 2002 dallo studioso Antonio Ferretti in questa operazione.
[14] Ursula Roach, su invito di Cesare Marino – Smithsonian Institution – per interessamento di Claudio Ceotto e con la partecipazione di Flavia e Sandra Busatta, fu testimone della donazione della collezione Dalla Volta da parte degli Amici del museo. Ancora adesso sento la responsabilità per l’espressione terrorizzata sul suo volto, quando, nel deposito del museo dove avevo preparato le collezioni Hopi da mostrarle, mi fece immediatamente nascondere una figura umana nel timore di aver violato le regole del suo popolo che precludevano determinati oggetti dalla vista generica delle donne. Si trattava di una katsina doll che in seguito in Hopiland si rivelò essere uno spirito non più danzato da tanto tempo, ragione per cui lei stessa non lo riconobbe e a causa del quale un museo occidentale si era intromesso nelle regole di evitazione sociale e di genere di una cultura millenaria.
[15] Ne sono una dimostrazione le mostre sorte in seno alle rispettive comunità e le rispettive pubblicazioni: Enrico Alberto D’Albertis tra Anticoli e Fiuggi. Foto e documenti dal Castello D’Albertis Museo delle culture del mondo-Genova, Comune di Fiuggi, 2018; Punzo A., De Palma M.C., a cura di, L’esploratore ritrovato nella Sardegna di fine ‘800, Fondazione Barumini, 2019; L’Alta Valtellina nelle fotografie di un girovago pintor di meridiane, l’archivio fotografico del capitano E.A. D’Albertis (1894-1901), Centro Studi Alta Valtellina, Bormio, 2019.
[16] All’epoca Assistente al Direttore al Museum of the American Indian di Wahington Smithsonian Institution ed ora docente di Indigenous Visual Culture and Critical Curatorial Studies all’ Ontario College of Art and Design (OCAD) a Toronto.
[17] Grechi G., Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Mimesis, Milano.
[18] Leonida Maria Akiri Kurireùdo, Agostinho Eibajiwu, Gerson Mario Enogoreu, Ailton Meri Ekureu, Kleber Rodrigues Meritororeu sono i 5 Bororo che accompagnarono le loro opere a Genova, come curatrice del Centro la prima ed insegnanti nella scuola della Riserva gli altri.
[19] De Palma, M.C., “E’ un miracolo che ci parlino ancora”, in De Palma M.C., Boe nure imi. Io sono Bororo. Un popolo indigeno del Brasile tra riti e futebol/Boe nure imi, Catalogo della omonima mostra, Genova Castello D’Albertis. Silvana Editoriale, Milano, 2004, pp 16-27; De Palma M.C., “Io sono Bororo. Un popolo indigeno del Brasile tra riti e futebol. Appunti dialogici per una mostra dialogica”, in Thule Rivista italiana di studi americanistici, n.16-17, 2004, pp. 255-273; De Palma M.C., “Dal Brasile alla Liguria: oggetti, uomini, musei”, in Surdich,F. Vangelista C., a cura di, Dalla Liguria alle Americhe. Viaggi, relazioni, culture, Atti del Convegno, Savignone, 17-18 novembre 2005, Genova, 2007, pp. 49-60; De Palma M.C., “Sono ancora Bororo? Un popolo indigeno del Brasile tra il 1935 e il 2004”, in Faldini L., Pili E., Claude Levi-Strauss: letture e commenti, Atti del Convegno, Genova, 21-22 gennaio 2010, CISU, Genova, 2013, pp. 265-271.
[20] Importante riportare la ‘nota di intenzione’ dell’artista: “Riguardo alla tematica ci tengo a precisare che non è mia intenzione sfruttare un dramma dei nostri giorni per farne uno spettacolo o avere la presunzione di raccontare esperienze che non mi hanno toccato da vicino.
(Io e le altre “sirene” in scena con me) Intendiamo invece mantenere un’onestà intellettuale, essere sincere con noi stesse e con il pubblico. Raccontare di una condizione che ci tocca emotivamente, perché le nostre vite si sono intrecciate con chi vive con la paura di uscire, nel limbo di una vita non vissuta, con chi è stato sradicato dalla sua terra e si è perso senza più riconoscere riferimenti, con chi ha fatto della follia una strategia di sopravvivenza alienandosi dalla realtà o semplicemente perché le nostre vite sono ANCHE questo”.
[21] Foroba Yelen (=luce collettiva) è il nome con cui gli abitanti di un villaggio del Mali hanno battezzato il lampioncino portatile che l’architetto Matteo Ferroni ha creato per trasformare l’ombra dell’albero in luce, grazie al quale svolgere le intense attività collettive notturne, nel cortile del veterinario, negli orti comunitari delle donne, nelle sale per lo scrutinio elettorale o nella “bottega” all’aperto del macellaio, componendo un nuovo strumento di luce replicabile dagli artigiani locali.
[22] Gaham K., Orchard K & The Lindt Research Group, Photographs are never still. The J.W. Lindt Collection, Grafton Regional Gallery, 2017.
[23] McFarlane, P., Schabus N., Whose land is it anyway? A manual for decolonization, Federation of Post-Secondary Educators of BC, 2017:
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Maria Camilla De Palma, Antropologa museale, direttrice dal 1991 di Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo di Genova, ha realizzato mostre, laboratori, progetti ed eventi in dialogo con le popolazioni indigene di Africa, America ed Oceania, così come con le comunità di cittadini immigrati, artisti, performer, musicisti. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla rappresentazione delle culture in museo e sul ruolo del patrimonio in chiave interculturale e decoloniale.