Mai come nella contemporaneità ci siamo trovati in un mondo iperconnesso, dove le società e le culture coesistono fianco a fianco. Sebbene la crisi finanziaria del 2008, quella pandemica del 2020 e quella bellica tuttora in corso abbiano posto un freno al fenomeno (c’è chi già parla di post-globalizzazione o de-globalizzazione), nell’arte contemporanea il panorama è all’insegna del pluralismo e della coesistenza delle culture, pluralismo che non di rado genera ambiguità e resistenze.
Le istituzioni culturali hanno visto sempre più richieste esterne di ridiscutere i propri assetti. Movimenti come Black Lives Matter hanno contribuito a spingere la società ancora più in una direzione inclusiva che ripensi alla storia convenzionale; oggi, in ambito accademico, si parla tantissimo di decolonizzazione dei pensieri, di visione postcoloniale, e l’arte contemporanea, come al solito, costituisce un riflesso delle vicende sociali e politiche in corso a livello mondiale.
Nel 2022, il padiglione nordico della Biennale di Venezia è per la prima volta nella storia Padiglione Sámi: anziché rappresentare Svezia, Finlandia e Norvegia, il territorio che rappresenta il padiglione è quello Sapmi. Con Sapmi si fa riferimento alla terra ancestrale di una precisa popolazione, i Sámi, l’unico gruppo etnico ufficialmente riconosciuto come indigeno in Europa. Questa enorme landa non esiste ufficialmente sulle cartine, non è riconosciuta da nessuno se non da chi la abita.
Con la precisa scelta politica di trasformare il padiglione nordico in Sapmi, i confini delle nazioni rappresentate vengono messi in discussione, presentando uno stato che “non c’è”, un’idea, più che una nazione. Si tratta di un riconoscimento, seppur tardivo, dell’autodeterminazione indigena del popolo Sámi. La definizione del termine «riconóscere» per Treccani è la seguente: «Accorgersi e rendersi conto, da qualche segno o indizio, che una persona o cosa si era già conosciuta, che è quella stessa che si era conosciuta precedentemente; o, più semplicemente, rendersi conto dell’identità di una persona, di una cosa». È quindi il caso di utilizzare il termine «riconoscere» per descrivere quest’operazione, poiché la terra Sapmi e i Sámi esistono da prima che i coloni arrivassero a reclamarne il possesso; non si tratta dunque di una nuova questione.
Come molte altre situazioni analoghe, la storia di questo popolo è costituita da una recente e graduale riacquisizione di diritti sulle terre e risarcimento della cultura oppressa dai coloni. Tuttavia, anche qui, come nei casi simili, la battaglia sociale del popolo Sámi non ha ancora trovato una fine. Aperte sono ancora le problematiche in merito al diritto sull’acqua e sui territori mentre, nonostante esista un parlamento Sámi dal 1989, la popolazione non ha ancora accesso alla completa autodeterminazione. «Ho fatto un grande cartello stradale con scritto Sapmi. Ufficialmente, in Scandinavia non puoi trovare questo cartello da nessuna parte. È lo Stato a definire queste terre, dando loro diversi nomi. Finnmark in Norvegia, o Lapponia in Svezia», racconta l’artista Tomas Colbengtson, durante una lunga conversazione su Zoom. Tomas Colbengtson è un Sámi nato a Tärna, in Svezia, in una zona chiamata “South Sámi”. Nel suo lavoro indaga i temi della storia, l’evoluzione e le situazioni contemporanee delle persone indigene, attingendo alla propria cultura di riferimento. Ha creato una residenza artistica indigena e un network di artisti provenienti da Canada, Lapponia e Groenlandia. Lavora sperimentando con stampe su lastre di vetro, metallo e ghiaccio e i suoi lavori sono spesso inseriti nel paesaggio scandinavo, che diventa così una parte integrante dell’opera.
Quando gli chiedo del significato della natura che fa da sfondo onnipresente ai suoi lavori, Tomas spiega come il rapporto intrinseco con la terra sia un lascito culturale della religione tradizionale animista Sámi, proibita con la pena di morte dai coloni a partire dal XVIII secolo, quando la repressione culturale verso usi, costumi e tradizioni del popolo si inasprisce.
Nonostante la maggioranza delle persone Sámi siano state convertite al cristianesimo, ad oggi esistono ancora piccole comunità che praticano lo sciamanesimo, talvolta in una sorta di sincretismo culturale con la religione imposta dai coloni.
«La Scandinavia era cattolica, e pertanto i Sámi avevano una forte connessione con la chiesa cattolica. Quando si insediò, la chiesa protestante osteggiò negativamente le altre confessioni, diventando uno strumento per il colonialismo. La chiesa svedese ha scritto un libro dal titolo Il libro bianco, dove fa ammenda per il proprio comportamento verso le persone Sámi, ma, nonostante ciò, non vi è ancora la libertà di praticare la propria religione. Le persone “più Sámi”, come gli anziani, sono grandi credenti cristiani, ma allo stesso tempo vivono una specie di dualismo con la religione animista».
Ovviamente, molti Sámi vedono nel neo-sciamanesimo una fabbricazione inautentica. Il termine con cui si indica la religione precristiana Sámi è Noaidevuohta. Noaidevuohta è descritta come “meno controversa” oggi rispetto agli anni Ottanta, anche se rappresenta ancora una fonte di ambivalenza e conflitto (Kraft, 2009).
Bisogna ricordare come non sia insolito per persone indigene avere accesso alla propria cultura d’origine solo tramite informazioni di seconda mano che restituiscono un’immagine talvolta forzata e costruita. La cultura può diventare una vera e propria gabbia e il rischio è di perpetuare l’idea di altre persone su cosa voglia dire essere indigeni (Kallio A. A. Länsman H, 2018). Come afferma anche Anders Sunna, uno degli artisti che espone alla Biennale e che ho intervistato: «Alcune delle minoranze hanno avuto accesso a informazioni sbagliate su sé stesse: si sono ritrovate a pensare “questo è come siamo” ma non era la realtà proprio perché le informazioni erano state scritte da qualcuno che aveva deciso come loro dovevano essere». Sunna, in particolare, fa riferimento alla narrazione che i coloni hanno portato avanti nella storia secondo la quale le persone Sámi sono di natura docili, miti, poco inclini alla ribellione e al conflitto. Questa idea è stata creata dall’alto e ha finito con l’influenzare la sua stessa comunità. Bisogna specificare infatti come il lavoro artistico di Anders Sunna da un lato non possa prescindere dalla sua lotta politica, dall’altro non possa esistere slegato dalla sua storia personale e famigliare.
La famiglia di Sunna perde per una politica governativa la “marchiatura a orecchio” delle renne, un’usanza che consente il riconoscimento del proprio gregge e il diritto a lavorare come allevatori. Nonostante questo, porta avanti quella che potremmo definire una vera e propria campagna di disobbedienza civile contro l’autorità, affrontando continue multe e denunce. Questo spirito ribelle e anti sistema non è però visto di buon occhio dalla comunità Sámi stessa, che critica aspramente la famiglia Sunna.
«Altre persone Sámi hanno iniziato a guardarci come se fossimo noi il problema, perché ci stavamo sollevando per i nostri diritti e stavamo combattendo per questi».
Quando Sunna ha iniziato ad approcciarsi all’arte ha detto a sé stesso che non avrebbe aspettato il permesso di nessuno e che voleva conquistarsi il proprio spazio senza bisogno dell’approvazione di qualcun altro. «Questo deriva dal mio background familiare», spiega: «Non eravamo accettati dalla società svedese, ma nemmeno dalla società Sámi, ritrovandoci così ad essere fuori da entrambe. Questo fa sì che tu non abbia nulla da perdere, e allora puoi fare tutto quel che ti pare». Per Sunna, si può essere colonizzati e di conseguenza decolonizzati da entrambe le società. Il suo essere outsider è stato un punto di forza che gli ha permesso di osservare la realtà in maniera più distaccata: «Ci sono frammenti della società Sámi che alimentano la struttura coloniale, ma non te ne rendi veramente conto finché non guardi la faccenda da fuori».
Per Tomas Colbengtson le divergenze interne nella comunità indigena sono causate dalla pressione esterna. «Quando sei un piccolo gruppo di persone che riceve minacce dall’esterno e non hai il potere di resistere, molti sentimenti negativi convergono sul tuo stesso gruppo. Ci sono grandi divergenze tra i Sámi del Nord e i Sámi del Sud, perché i Sámi del Nord hanno più dominio, e la lingua è rimasta più intatta».
Nonostante le problematiche interne alla comunità, è indubbio che la restaurazione della cultura Sámi sia passata massicciamente attraverso il lavoro degli artisti e delle artiste.
Si tratta di un processo che ha inizio negli anni Cinquanta. L’obiettivo è fin dall’inizio quello di creare un’identità Sámi come concetto di persone distinte dai coloni, vissute nelle terre Sapmi ben prima di chiunque altro. Inizialmente le voci dei Sámi fanno fatica ad inserirsi nel panorama culturale e a farsi valere, finché negli anni Ottanta e Novanta questa battaglia trova il suo turning point. In questi decenni vengono creati dei simboli fondamentali per l’identità culturale Sámi: una mappa del territorio Sapmi, una bandiera e, grazie a un lavoro di attivismo intenso, una nuova identità ricostruita tramite il sistema scolastico, accompagnata da pubblicazioni in linguaggio nativo e un programma di alta educazione di artigianato tradizionale. Il parlamento Sámi viene infine costituito nel 1989, a Karasjiok (Ruokonen, Elridge, 2017).
Prima di arrivare a questo traguardo, tuttavia, i Sámi sono stati studiati, essenzializzati e colonizzati come tipicamente accade alle popolazioni indigene. Il museo, ovviamente, ha costituito nel tempo il veicolo con cui modellare la costruzione e definizione dell’Altro.
«Gli artisti Sámi hanno promosso una maggiore consapevolezza degli attivisti indigeni,» afferma Colbengtson, e anche Anders Sunna sembra condividere la stessa fede sociale nell’arte: «Se guardi ai paesi non democratici, le prime persone che arrestano sono gli artisti, i musicisti, gli scrittori, persone che lavorano in ambito culturale. Questo succede perché essi sanno cogliere i sentimenti più velocemente e possono cambiare le menti delle persone e veicolare informazioni rapidamente».
Bisogna specificare, tuttavia, come un tempo il panorama artistico contemporaneo non fosse accessibile alle persone indigene, come spiega Colbengtson: «Se facciamo un salto indietro a trent’anni fa, molti artisti Sámi dovevano spacciarsi per svedesi o europei occidentali solo per vivere del loro lavoro, altrimenti venivano considerati artisti esotici».
La lettura dell’arte Sámi è stata comunemente inquadrata in un contesto di “non occidentalità” o di “occidentalità non occidentale”. Come l’arte delle donne, a lungo esclusa dal circuito ufficiale della storia dell’arte, prima di essere integrata ha dovuto sottoporsi a processi di decostruzione, così è stato per gli artisti indigeni; gli stessi ricercatori e studiosi indigeni hanno puntualizzato come questi artisti abbiano dovuto affrontare il medesimo doppio processo di esclusione e inclusione. Nel caso Sámi, uno dei problemi più grandi affrontati è stata ed è la mancanza di letteratura.
Fino agli anni Settanta, le ricerche sulla cultura Sámi sono state essenzialmente di natura etnografica e linguistica. I testi scritti su di loro sono di conseguenza frutto di questi sguardi che inquadrano l’arte Sámi come primitiva, esotica, ibridata tra tradizione e modernità (Horsberg Hansen, 2014).
Negli ultimi decenni, invece, si è assistito ad un graduale processo di integrazione di altri punti di vista, includendo le voci dell’”Altro” colonizzato, stereotipato, essenzializzato e studiato dall’Occidente. Tutto ciò ha portato a una ridefinizione del concetto di memoria collettiva.
Oggi, come conseguenza di questo rinnovato atteggiamento, si stanno imponendo nuove modalità di leggere la storia: come le collezioni del museo, anche una parte della storia tradizionale viene messa in discussione.
A proposito del processo di rilettura e ridefinizione del passato storico collettivo dei Sámi, Anders Sunna risponde che si è trattato di un’omissione, o di una narrazione parziale. «Non si è voluto raccontare la vera storia. Devi ricordarti che la maggior parte della storia è raccontata dagli altri, da chi ne esce vincitore: dallo Stato, o da chi detiene il potere, quasi mai dalla piccola minoranza. C’è molto di non-scritto nei libri di storia».
Le proteste del movimento Black Lives Matter, centrate sulla necessità di incorporare punti di vista non-occidentali, hanno avuto grande eco e risonanza nel panorama culturale. In generale, si può affermare che negli ultimi decenni si è assistito ad una forte politicizzazione del sistema artistico. Le modalità gestionali di musei, gallerie, biennali e università sono state rimesse in discussione, spesso con vere e proprie azioni di sabotaggio. Le proteste dal basso non rappresentano nulla di nuovo né di inaspettato. Ciò che invece è esploso ultimamente ma è in gestazione da decenni è il processo di decolonizzazione non solo dei musei ma dello stesso patrimonio (Guermandi, 2021). Con il termine “decolonizzazione” si definisce una pratica che va oltre il campo dell’arte e che concerne invece nuove forme di diffusione del sapere. Il Collettivo MTL, ad esempio, definisce la decolonizzazione come una guida ad una disobbedienza epistemica, una costante pratica di messa in discussione e ricostruzione dei saperi. Lo stesso collettivo evidenzia come il termine sia diventato una sorta di trend negli ambienti intellettuali, una «pratica di multiculturalismo che opera bene all’interno della comfort zone delle istituzioni stabilite». Il Collettivo sottolinea inoltre che la decolonizzazione non si limita a promuovere una visione del mondo in nome di una “tolleranza liberale”, ma porta avanti un “processo combattivo” il cui orizzonte finale rappresenta «un nuovo modo di essere in questo mondo, uno che sia più conciliante con la nostra esistenza collettiva» (MTL Collective, 2018).
In effetti, esiste una certa pratica di multiculturalismo “soft” tradotta come “tolleranza liberale”. Lo stesso Clifford mette in guardia in merito all’invenzione delle identità multiple come un prodotto del tardo capitalismo. Il capitalismo e la globalizzazione sono sistemi che in realtà incoraggiano la coesistenza delle differenze, purché queste non siano in alcun modo una minaccia al sistema politico o economico dominante. Nell’attuale clima postmoderno, le comunità locali sono incoraggiate a ricostituire sé stesse in una tipologia che Clifford definisce “shopping globale delle identità” (Clifford, 2013).
Il panorama artistico contemporaneo, riflesso delle vicende politiche e sociali, non si sottrae a questa logica. Ad esempio, nelle sue considerazioni a riguardo, Meneguzzo afferma che «l’autentico motivo per cui spesso si guardano con favore – e si comprano – artisti provenienti dal “nuovo mondo” sia una sorta di cattiva coscienza dell’occidente, mescolata a una buona dose di esotismo mascherato da un senso di accoglienza e disponibilità per chi voglia adottare il sistema occidentale di interpretazione del mondo» (Meneguzzo, 2012).
Sunna stesso non pensa che il rinnovato interesse verso le questioni indigene del mondo dell’arte mainstream sia del tutto cristallino: «Sì, è vero che c’è più interesse, ma è anche vero che le persone cercano di trarne un profitto».
Anche il mondo dell’arte non si sottrae a precise scelte geopolitiche e la Biennale di Venezia rispetta questa logica.
Le biennali, in generale, costituiscono per eccellenza i “ponti” che avvicinano luoghi lontani tramite la globalizzazione dell’arte. La prima edizione veneziana nasce sul finire del diciannovesimo secolo con i vari padiglioni nazionali per rappresentare la scena artistica globale e mettere in evidenza quella nazionale. Queste manifestazioni artistiche si inscrivono nella storia delle comunità che le organizzano dato che molte di esse sono state concepite per celebrare precisi momenti storici: la Biennale di Venezia, per esempio, è stata ideata per festeggiare le nozze di Umberto e Margherita di Savoia, quella di São Paulo viene istituita per celebrare i cento anni della creazione della città, quella di Alessandria d’Egitto è inaugurata in occasione del terzo anniversario della rivoluzione nazionalista, e così via (Vittoria e Martini, 2011).
Un problema che si ripresenta puntualmente a proposito delle biennali è il sistema della rappresentanza nazionale. Così facendo si costringono gli artisti a rientrare in categorie standardizzate, generando una sorta di “neoesoticizzazione” (Pinto, 2012).
L’idea di rappresentanza nazionale è infatti un concetto di stampo ottocentesco inaugurato dai Giardini di Venezia e andato poi modificandosi negli anni. Molti artisti contemporanei hanno rinunciato alla rappresentanza nazionale poiché il loro lavoro dipende sempre più da un sistema transnazionale. La stessa edizione veneziana, ad esempio, durante lo scoppio dei movimenti studenteschi del Sessantotto, è stata coinvolta da questa problematica, a partire dalla messa in discussione della larghezza eccessiva del padiglione italiano che impediva ogni tentativo di innovazione dell’intera esposizione (Vittoria e Martini, 2011).
«Le prime edizioni della Biennale si basavano su un’idea romantica di confine. Ogni artista veniva etichettato come tale in base alla nazione di appartenenza: artista francese, artista tedesco, artista svedese» ̶ racconta Sunna ̶ «Se penso a me, posso affermare di non essere considerato un artista in Svezia, ma un artista Sámi. In qualche modo questa idea di etichetta emerge anche nel mio caso».
Sunna prosegue affermando come la creazione del padiglione Sámi sia già un modo per superare i confini transnazionali. «Forse» – conclude – «in futuro i confini non esisteranno più. Gli artisti scelti dai padiglioni non dovranno necessariamente provenire da quella nazione, ma saranno scelti per qualcos’altro».
Tomas Colbengtson è ancora più scettico riguardo i padiglioni nazionali e il concetto di nazione. «Ho sempre detto che le persone Sámi sono esistite in piccoli villaggi da prima di Sapmi, da prima che la Svezia stessa esistesse. È stata creata intorno all’anno mille. Persino i romani ci arrivarono. Sapmi continuerà ad esistere anche quando la Svezia cesserà di farlo. Riguardo ai padiglioni nazionali non saprei, suonano come concetti troppo astratti per me».
Trasformando il padiglione nordico della Biennale di Venezia in padiglione Sámi, definendo Sapmi una terra che “non esiste”, ma esiste solo nelle menti delle persone – si assiste ad un sovvertimento dei confini nazionali tradizionali in virtù di un luogo “mentale”, “ideale”, non giuridicamente riconosciuto.
Liisa-Ravna Finborg, la co-curatrice del padiglione, ritiene tutto ciò significativo perché le storie delle persone indigene nella Biennale sono spesso state raccontate da una prospettiva esterna. «Ora stiamo andando noi e non stiamo decolonizzando bensì indigenizzando, anteponendo le nostre storie, evidenziando ciò che rende le nostre comunità indigene e condividendo questo con il mondo» (Johnson R., 2022).
«La partecipazione alla Biennale di Venezia ci permette di raccontare la nostra storia: una storia che non puoi leggere sui libri di scuola perché non esiste» ̶ racconta Colbengtson ̶ «allo stesso tempo, però, sono state ancora una volta forze esterne a scegliere quale artista fosse “più Sámi”. Viviamo in un mondo globalizzato e siamo prodotti del contemporaneo: per cui penso che ci possano essere molte generalizzazioni dell’arte Sámi con questa biennale, ma anche nuovi input visivi. Basta guardare l’arte aborigena australiana. Molti artisti visuali australiani indigeni sono più contemporanei dei contemporanei».
Colbengtson conclude il suo discorso con una frase semplice che racchiude molti perché. Perché arte, perché decolonizzazione, perché è importante tutto questo.
«Qual è lo scopo principale dell’arte? Per me è quello di rendere il mondo un posto migliore e più egualitario».
Per quanto la parola “egualitario” sia stata sfruttata e logorata, è veramente verso una effettiva idea di uguaglianza che le istituzioni culturali devono tendere. Uguaglianza da intendersi come predisposizione per un confronto alla pari, ad un’apertura vera, a nuovi punti di vista e input culturali nella ricerca di modalità che vadano veramente verso una direzione di equità, tralasciando “tokenismi” e sensi di colpa occidentali.
Nota
Tutte le battute di Anders Sunna e Tomas Colbengtson riportate qui di seguito sono frutto delle interviste realizzate in occasione della mia tesi di laurea.
Bibliografia
Bourriaud N., Inclusioni. Estetica del capitalocene. Milano, Postmedia Srl, 2020.
Clifford J., Returns. Becoming Indigenous in the Twenty-First Century. London, Harvard University Press, 2013.
Grechi G., Decolonizzare il museo. Milano, Mimesis, 2021.
Guermandi M. P., Decolonizzare il patrimonio: l’Europa, l’Italia e un passato che non passa. Roma, Castelvecchi, 2021.
Martini F., Vittoria F., Just Another Exhibition. Storie e politiche delle biennali. Milano, Postmedia, 2011.
Meneguzzo M. Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze). Milano, Johan & Levi Editore, 2012.
Pinto R., Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione. Milano, Postmedia Srl, 2012.
Articoli
Horsberg Hansen H., Beauty and Truth, Dialogues between Sami Art and Historical Research, Orkana Akademisk, 2014.
Johnson R., Venice Biennale dedicates space for Indigenous art with Sámi Pavilion, in «CBC» 2022, accessibile al LINK
Kallio A. A. Länsman H., Sámi Re-Imaginings of Equality in/through Extracurricular Arts Education in Finland. International Journal of Education & the Arts, Vol.19 No.7, 2018.
Kraft E., Sami indigenous spirituality: Religion and Nation building in Norvegian Sápmi. In Temenos, Vol.45 no.2, 2009, 179-206.
MTL Collective, From Institutional Critique to Institutional Liberation? A Decolonial Perspective on the Crises of Contemporary Art. October Magazine, Ltd and Massachusetts Institute of Technology, Vol.165, 2018, 192-227.
Ruokonen I. Eldrige L., Being Sami is my strength: Contemporary Sami Artists. International Journal of Education & the Arts, Vol.18 No.17, 2017.
Martina Marini nasce nella provincia di Brescia nel 1995. Si diploma al DAMS, indirizzo Arti Visive. Successivamente, decide di cercare un approccio più pratico alla materia iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti. Qui conclude gli studi con una tesi sul processo di decolonizzazione delle istituzioni culturali prendendo come caso studio l’arte Sámi. Durante gli anni di studio, fa lunghi viaggi e soggiorni all’estero, in particolare in Scandinavia, nei Baltici e in Est Europa. Dal 2022 gestisce il blog tRAMA dove scrive di cultura, sci-fi, media e politica. È parte del collettivo e progetto curatoriale online FlashGallery.2020.