L’articolo parte dalla seguente tesi: “non esiste relazione didattica che non passi attraverso la costruzione di un corpo collettivo”. A scuola sono tre i segmenti di questo corpo: corpo docente, spazio di condivisione e corpo discente. Inoltre, Il corpo del sapere è irrequieto, in fermento, dinamico e desideroso di contatto per sua stessa natura. Sapere è aprire spazi a partire da dentro per poter trovare l’altro e fare, quindi, corpo critico.
Come continuare a tessere questo copro critico nel distanziamento sociale, durante la didattica a distanza e nella scuola post-pandemia?
Qui raccogliamo la cronaca di riconfigurazioni didattiche svolte durante laboratori e in scuole superiori di primo e secondo grado, in presenza e in didattica a distanza (DaD).
Facciamo inoltre alcune ipotesi e proponiamo alcune questioni per la scuola che verrà. Immaginiamo infine il lavoro da fare per un’ulteriore riconfigurazione della relazione docente-corpo-discente nell’orizzonte di uno scenario post-pandemico. Dal corpo-ferito al corpo-aperto al corpo-ospitante.
La scuola l’ho sempre subita con molta tolleranza.
Gli insegnanti demoliti di oggi sono gli studenti demolitori di ieri.
Carmelo Bene
La scuola come corpo collettivo
Partiamo quindi dalla tesi: non esiste relazione didattica che non passi attraverso la costruzione di un corpo collettivo. Le regole del distanziamento sociale, l’obbligo della didattica a distanza, il volto negato dalle mascherine, insomma, le codificazioni imposte dalla pandemia globale, hanno reso difficile questo compito. Già risultava difficile nello spazio ipersegmentato, rigido e regolamentato dei sistemi educativi pre-pandemia, in una burocratizzazione del tempo condiviso e nelle pratiche amministrative imposte al corpo insegnante di ogni ordine e grado (cfr. Illich 1971, Foucault 1975).
L’ultimo report dell’INDIRE-Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (2020), rileva come i docenti abbiano sostanzialmente trasposto una didattica tradizionale e frontale nella modalità DaD. L’ambiente che avrebbe dovuto integrare il processo formativo “in presenza”, nella stragrande maggioranza dei casi si è ridotto a un utilizzo da videocitofono. Il questionario somministrato agli operatori di settore, inoltre, non prende minimamente in considerazione le questioni legate al corpo e al suo uso, foss’anche individuale, men che meno collettivo. Il corpo del singolo a scuola è sempre più oggetto di disciplina, quello collettivo invece è un rimosso. A causa della pandemia entrambi rischiano di diventare un fantasma.
D’altronde, la negazione di una parte considerevole del volto spinge inesorabilmente l’intera società versouna situazione di mancato riconoscimento e schiavitù, come affermavano i greci, già nell’utilizzo dei termini sôma (corpo) e aproposon (senza volto), per indicare coloro che erano in condizione di schiavitù (Agamben 2021). Dai foucaultiani “corpi docili” siamo precipitati a rotta di collo, attraverso la “liquidità assoluta” della nostra società (Bauman 2005) e una “aggregazione da sciame” (Byung-chul 2014), in un isolamento inumano e degradante. Oltretutto, le innumerevoli ricerche neuroscientifiche dimostrano sperimentalmente come l’apprendimento sia un processo embodied, pre-linguistico, legato alle funzioni senso-motorie dei corpi condivisi (cfr. Perrone, Palumbo 2021).
Queste sono, oggi, le condizioni: che fare?
Lo spazio di condivisione
Il corpo docente e quello discente hanno la necessità di uno spazio d’incontro. Questo spazio, malgrado tutte le falle dell’edilizia scolastica e svariati tentativi di applicare sistemi di videosorveglianza, rimaneva pubblico. La DaD, in un batter d’occhio, è riuscita a privatizzarlo. Anche noi docenti, seppur consapevoli dell’abisso intrinseco al capitalismo della sorveglianza (Zuboff 2018) ci siamo in qualche modo docilmente adattati (siamo in emergenza…). Intanto Google & Co. hanno radicato i tentacoli nello spazio della scuola pubblica, e poche sono le voci critiche[1].
Non demonizziamo gli spazi di condivisione virtuali, ma la loro privatizzazione. In tal senso, l’ipotetica condizione di libertà del web è un’irresistibile esca dal punto di vista delle potenzialità, ma il risultato di una smisurata opportunità di confronto a distanza azzera i connotati di un reale rapporto con l’altro, e quindi di una relazione coinvolgente e al tempo stesso impegnativa. «Internet è lo strumento privilegiato di questa fase di addomesticazione perché consente un’operazione su vasta scala di “recinzione mentale” delle popolazioni umane: viene a costituirsi una sovra-sedentarizzazione, a causa della quale l’essere umano raggiunge la pianta, l’animale, la foresta o la crosta terrestre nel novero delle “risorse” materiali da sfruttare» (Bourriaud 2020, p. 8.).
La libertà in questi contesti parzialmente pubblici è messa a repentaglio da una struttura di controllo che sta lavorando per ordinare il futuro dei sistemi formativi, ma soprattutto degli esseri umani. Afferma Deleuze in una delle sue lezioni su Spinoza confluite nella pubblicazione Cosa può un corpo: «Cosa significa divenire liberi, una volta detto che la libertà non è un attributo essenziale della natura dell’uomo? Non si nasce liberi, non si nasce razionali. Si è completamente immersi negli incontri, ossia: siamo completamente in balia delle decomposizioni» (Deleuze 1978, p. 16). Emerge quindi una necessità di movimento verso l’altro, nel rischio che un incontro possa scomporre i nostri rapporti ecomporne di nuovi. Il tutto però deve avvenire in un contesto di corpo e di indipendenza da sistemi organizzati per disporre, offrire e garantire spazi di libertà e di processi formativi.
Come ri-organizzare, spazialmente, i tempi, le strutture e le dinamiche dello spazio di condivisione?
Il corpo del sapere
Il sapere, a scuola, è organizzato, principalmente, intorno al cogito. È l’eco della dottrina cartesiana, che fa coincidere l’essere con il pensiero (Cartesio, 1644). La pandemia, con le regole del distanziamento sociale, ha ipertrofizzato questa visione. Al contrario, riteniamo che «non c’è altra conoscenza al di là della composizione dei corpi. Ho conoscenza di me stesso dall’azione che gli altri corpi esercitano su di me e dalla combinazione che ne conseguono» (Deleuze, 1978, p. 53). Il sapere passa attraverso lo spazio “depensato” dei corpi congiunti nella stessa cornice spazio-tempo.
La scuola dovrebbe essere in grado di scavalcare la mera aderenza con lo spazio dove si organizza e si subordina il corpo del sapere. Il lemma ‘scuola’ proviene dal greco σχολή (scholé), ossia ‘ozio’, ‘riposo’. Il corpo ozioso è un corpo gioioso e attento, aperto all’ascolto, al ragionamento, allo studio, al pensiero, allo stare insieme. Insomma, niente a che vedere con uno spazio di detenzione carceraria (alcuni istituti in Italia erano stati edificati con tale finalità per poi essere riconvertiti in edilizia scolastica) e nemmeno con una sorta di baby sitting garantito. Quando trattiamo di “scuola”, aggiungendo l’indicazione necessaria e straordinaria di “pubblica”, dovremmo considerare sempre che abbiamo a che fare con una dinamica, con una distanza netta dal negotium, ossia dal lavoro, dagli affari, e trattiamo per l’appunto con le inclinazioni e con il dubbio. La domanda è la chiave prima e ultima della scuola. La domanda, e non le risposte. E anche qui, a scanso di dubbi, la domanda non riguarda l’ennesima verifica, ma è vita, relazione, dubbio e, perché no, fallimento, in quanto essere ed essere insieme. Il corpo del sapere, a scuola, è la collettivizzazione di uno spazio per l’inoperosità [2].
Il corpo critico
Il corpo troppo spesso viene relegato alla sua spazialità “immobile”, quando invece è anche e soprattutto risonanza, interazione, prossimità, riconoscimento, forza emittente. Gesti, segni, odori, sguardi, suoni compongono e scompongono i corpi, dando spessore ma al contempo sciogliendo la solidità claustrofobica della materia che occupa uno spazio. Afferma il critico d’arte Pietro Gaglianò: «La lingua è un luogo originario molto più duttile e personale di quanto non siano i luoghi, le norme, le regole che istruiscono la vita dell’individuo; e rimane una dimora anche oltre lo sradicamento delle storie soggettive e la violenza e l’insensatezza della Storia» (2020, p. 185). Ed è nel cercare il corpo dell’altro nel proprio, e viceversa, che si dà lo spazio d’azione del sapere, del giusto ritmo, dello scambio, della complicità, della crescita e quindi della critica costruttiva. La voce (che noi consideriamo come risonanza generativa), come afferma Steven Connor, «non è una condizione e neppure un attributo, ma un evento» (2000, p. 20). Questi corpi mobili e irrequieti permettono la formazione, in perpetuo divenire, del corpo critico.
Inoltre, l’unico possibile corpo critico è plasmato, didatticamente e spazialmente, nella “comunità degli eguali”, dal “maestro ignorante”. Nessuna spiegazione: «La spiegazione non è necessaria per rimediare a un’incapacità di comprendere. È al contrario tale incapacità la finzione che struttura la concezione del mondo fondata sulla spiegazione. È colui che spiega ad aver bisogno dell’incapace, e non l’inverso, è cioè lui che costituisce l’incapace come tale» (Rancière 1987, p. 39). Una visione di una didassi non trasmissiva quindi, dove il maestro non detiene il potere delle conoscenza ma crea le condizioni, struttura il ritmo, coordina i flussi di una conoscenza immanente e in fieri.
Solo in questo modo possiamo creare le condizioni di libertà critica, dove le idee non devono conformarsi a un modello di sapere aprioristico e gerarchicamente predisposto.
Le valutazioni, i voti, i giudizi non servono proprio a nulla. Che i corpi siano liberi di fare, di dire, di errare, di esprimersi. Mano a mano «l’ignorante […] non verificherà ciò che ha trovato l’allievo, verificherà che questi abbia davvero cercato. Giudicherà se abbia fatto attenzione» (ivi, p. 59). In questo senso sperimentare l’intreccio fra fare artistico e azione educativa può avere frutti meravigliosi (cfr. Sossai 2017).
Docente-corpo-discente
Esperienze in pandemia
Nell’ambito delle pratiche sviluppate e messe in opera nel biennio 2019-20 l’urgenza di riconnettere i tessuti connettivi del corpo collettivo ci ha condotto a scelte talvolta estreme, ma necessarie per ri-contestualizzare e rendere efficace il rapporto educativo-formativo con i rispettivi discenti.
Tracciamo brevemente quattro cronache in forma dialogica di riconfigurazioni didattiche svolte e svolgentesi in risposta alla pandemia, in DaD e in presenza.
L’ora di socialità
Durante il primo lockdown, nelle griglie allora ignote della DaD, in qualità di docente di sostegno di due discenti presso una classe seconda di una scuola secondaria di primo grado della periferia romana, ho subito avvertito la necessità di istituire, come pratica curricolare, un’ora a settimana dedicata alla socialità.
Ma quanto peso ha avuto negli ultimi anni la socialità nell’esperienza formativo-didattica?
È stato molto difficile. Pur avendo il supporto dei genitori e la voglia degli alunni, l’istituzione e i colleghi hanno remato contro. Il dirigente scolastico constatava il pericolo che l’ora di socialità potesse aprire la strada a un “modello” ed essere un “precedente”. I colleghi, che togliesse tempo alle attività curriculare e che fosse “un caos”.
Il caos è l’imbarazzo di una libertà che spaventa in un sistema eccessivamente rigido e ripetitivo?
Una battaglia di due mesi contro i pregiudizi, attraverso estenuanti procedure burocratiche, mi ha permesso di instaurare un’ora di socialità a settimana per un mese, attraverso la seguente proposta al consiglio di classe e al dirigente scolastico:
– Favorire l’inclusione di tutti i discenti alle attività didattiche, specie per gli alunni e le alunne BES, DSA e ADHD (con bisogni educativi speciali, con disturbi specifici dell’apprendimento, con sindrome da iperattività).
Ho sempre trovato in qualche modo svilente l’etichettatura dei singoli componenti di un gruppo classe[3].
– Generare coesione e dialogo;
– Far emergere e discutere problematiche e richieste;
– Creare uno spazio espressivo libero e non giudicante;
Molto spesso si dovrebbe anche lavorare per sciogliere i pregiudizi che ci portiamo inconsapevolmente dentro.
– Disegnare un campo di relazione interpersonale;
– Formare un luogo di co-creazione simpoietica;
– Produrre segmenti affettivi in un ambiente di ascolto e confronto;
– Disporre una circolazione orizzontale e spiraliforme di saperi e pratiche;
– Portare a compimento gli obiettivi del PEI (Piano Educativo Individualizzato).
Quanto riescono i PEI ad essere funzionali alle necessità effettive di un apprendimento dinamico e libero? [4]
Diverse sono state le attività. Dal passare oggetti “invisibili” nel mosaico dei video sullo schermo, a sezioni di coordinamento di gesti e movimenti, all’ascolto e condivisione di brani musicali, di sogni, paure, mancanze e incertezze.
L’autoritratto speculativo
Nell’ambito dell’anno scolastico 2020-21, in qualità di docente di Lettere e Storia presso il Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze, ho ideato e realizzato un progetto laboratoriale sulla percezione e sull’esperienza dell’auto-rappresentazione speculativa.
Riprendendo l’idea di “abitare il proprio nome” di cui parla Édouard Glissant nella sua Poetica della Relazione, ritenevo interessante provare a coinvolgere la classe in un’esperienza abitativa della propria identità percepita, diffusa nel tempo e nello spazio, condivisa e messa in discussione.
A che cosa serve lavorare sull’identità? [5]
Il laboratorio ha avuto un momento frontale nel quale è stato affrontato l’autoritratto nell’arte figurativa e in letteratura, soprattutto in poesia. Il percorso convergeva sul Futurismo e sul lavoro di Corrado Govoni, in cui scrittura e disegno si fondono in un volto stilizzato e simbolico. Il passaggio successivo ha coinvolto i ragazzi in un’elaborazione e realizzazione di un autoritratto che liberamente mescolasse immagini e parole. L’opportunità di osservarsi ed esternare una condizione di grande sofferenza/reattività rispetto alla condizione pandemica ha permesso all’intera classe di affrontare alcune tensioni represse e silenziose. Nei giorni seguenti, con il mio supporto e con quello della collega di sostegno, sono state affrontate tutte le tematiche e le questioni emerse dai lavori. A distanza di un paio di mesi i lavori sono stati riproposti alla classe, invitando i singoli ad esprimere il loro parere sul proprio autoritratto, a dire se lo ritenessero ancora attuale e se a distanza di tempo lo avrebbero realizzato differentemente.
Perché non lavorare anche sul ritratto? [6]
Nell’ambito del confronto sono emersi spunti di riflessione sull’idea stessa di identità, di rappresentazione, di punto di vista, di condizione e percezione temporale e spaziale e di modelli di intervento sulla percezione del singolo e del collettivo.
La grande mutazione
Appena concluso il primo lockdown ho elaborato un laboratorio mitopoietico [7] per elaborare, visualizzare, condividere e commentare una mutazione individuale e collettiva.
La mutazione potrebbe essere in effetti la condizione più adatta all’accettazione, al confronto e alla condivisione di saperi? [8]
Attraverso l’intreccio di pratiche proveniente dalle esperienze di Sgorbio – Laboratorio Atecnico per l’Immagine Nuova e dalla metodica di arteterapia L.A.C.E.R.V.A. (cfr. Natoli 2019), ho condotto decine di laboratori in presenza, con bambini e adulti, in contesti informali e istituzionali in Italia e all’estero. Centinaia di esseri e non esseri mutanti hanno abitato il nostro immaginario, disegnato corpi nuovi, animato comunità impossibili, espresso neo-lingue e reagito al distanziamento sociale. Fare corpo collettivo, dopo la ferita dell’isolamento, attraverso il paradigma della metamorfosi e della mutazione.
Il nostro corpo è il vero primo maestro
Nell’ambito della trattazione delle tematiche connesse al teatro delle origini, ho ideato e strutturato un processo che potesse, partendo dallo studio di alcune opere peculiari dei tre sommi tragediografi greci (Eschilo, Sofocle ed Euripide), riportare l’attenzione sul corpo e sulle sue dinamiche relazionali, soprattutto in tempi di distanziamento e di negazione della prossimità. Essere stranieri nel proprio corpo è una condizione che in tempi di crisi – che si tratti di pandemia, di adolescenza o della drammatica coincidenza di entrambe – può offrire un’ottima occasione per ripartire proprio dal gesto, dal respiro, dallo sguardo, dalla considerazione di un’appartenenza alla proprie radici e dei dispositivi relazionali che ci connettono agli altri. Come essere stranieri nel proprio corpo senza perdersi?
L’atto del proteggere, la condizione del non vedente, le gestualità familiari, le reazioni e le tensioni dei rapporti profondi e nevralgici della nostra esistenza sono condensate nell’alfabeto gestuale dell’essere umano. L’indagare e l’agire l’esperienza del gesto quotidiano, sotto la lente d’ingrandimento del proprio vissuto, ma allo stesso tempo della condivisione con il gruppo classe, si rivela un nuovo modello analitico dei linguaggi non verbali e delle emozioni potenzialmente più dolorose ma allo stesso tempo più catartiche.
L’orizzonte post-pandemico
Il presente e il futuro della didassi è un’opera di tessitura, di trama e d’ordito, da svolgersi nello spazio pubblico attraverso un ritmicità spiraliforme dei corpi e dei saperi, per riconfigurare una nuova relazione docente-corpo-discente.
Dal corpo ferito
per una didattica curativa
Il trauma è una componente inevitabile e al tempo stesso imprescindibile dello stare al mondo, parimenti uno dei traumi per eccellenza è proprio l’obbligo, l’imposizione. Attraverso una coercizione educativa il corpo non può che essere la prima vittima. In effetti l’obbligatorietà della scuola risale all’epoca napoleonica, e si sviluppa con le leggi Casati del 1859 e Coppino del 1877, sino alla riforma Gentile del 1923, che innalzò l’obbligo scolastico all’età di 14 anni. Oggi l’obbligo è fissato a 16 anni attraverso l’art. 1 comma 622 della 27 dicembre 2006 n. 296. Ma la questione non è la durata dell’obbligatorietà, ma l’obbligo in quanto tale. In una conformazione forzata, monopolistica e capitalista, l’istruzione si trasforma in un mero strumento di indottrinamento, di competizione e di confinamento del patrimonio educativo dell’essere umano, all’interno di strutture e pianificazioni obsolete e restrittive.
La parità sociale, le opportunità orizzontali, la formazione, anch’essa obbligatoria, di tutti i comparti dell’Istituzione scolastica, la promessa del ponte scuola-lavoro in prossimità dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado si rivelano in fin dei conti strumenti non sempre efficaci. Ed è proprio per questo che una didattica conviviale e aperta è l’unica alternativa sociale a un ordine impositivo che non può mai incarnare il valore del bene comune, del piacere e dello studio, inteso soprattutto come riconoscimento e soddisfazione nel processo di apprendimento e costruzione del proprio futuro nel rispetto degli altri e in relazione con la comunità, qualsiasi essa sia.
La scuola, in tutte le sue gradazioni, dovrà essere lo spazio pubblico della cura post-pandemica. Il corpo docente e quello discente, attraversati dalla ferita, sapranno riconoscerla senza vergogna. In un’atmosfera seriamente giocosa, priva di giudizio, dovremo imparare ad ascoltare le nostre ferite. Rimarginate, faremo mostra delle nostre cicatrici, che mescolandosi saranno arabeschi collettivi come soglie di un nuovo corpo aperto.
Al corpo aperto, Per una didattica multispecie
Il corpo aperto configura l’insegnamento come «atto performativo», come «pratica di libertà», attraverso una «pedagogia anticoloniale, critica e femminista», per una «comunità di apprendimento» multiculturale (hooks, 2020). Il corpo aperto non trasmette il sapere ma crea le condizioni per farlo emergere. Rinuncia al giudizio, alla cattedra, al potere del sapere depositato. Inoltre, attiva processi simpoetici [9] e collettivi integrando alterità non-umane (animali, piante, funghi, minerali, stelle, virus, intelligenze artificiali etc.). Si proietta in spazi e visioni non esclusivamente antropocentriche, capaci di porre in crisi il sapere e la cultura che ci ha cullato e cresciuto, sperimentando il sapere situato a partire dai flussi desideranti. Il corpo aperto può trasformare l’incontro in un’opera d’arte capace di «convocare altre voci, incorporare svariati agenti, essere attraversata da diversi punti di vista. Essa può allora venire qualificate come “corale”: forma un campo di soggettivazione» (Bourriaud, 2020, p. 80).
Fino al corpo ospitante. Per una didattica pneumatologica
Il corpo ospitante è il corpo che respira e che condivide il respiro. Gli schermi e una didattica algoritmica ipersemiotizzata non permettono la piena condivisione del respiro. Compito dell’educatore è, e sarà, ritessere questo respiro collettivo. «Quando c’è vita, il contenente riposa nel contenuto (e quindi è da esso contenuto) e viceversa. Il paradigma di questo intreccio reciproco è quel che gli antichi chiamavano respiro (pnéuma)» (Coccia 2016, p. 20). Se il respiro è poi divenuto vettore di morte, e non più di vita, necessita di essere rifondato e praticato in profondità reciproche (cfr. Nestor 2020). “I can’t breathe” urlano le lotte mondiali innescate dai movimenti Black Lives Matter (cfr. Bifo 2019). Dobbiamo immaginare e praticare una didattica strutturata pneumatologicamente per ricongiungerci atmosfericamente in quanto «l’atmosfera è il nostro primo mondo, l’ambiente in cui siamo integralmente immersi: la sfera del respiro. Essa è il media assoluto» (Coccia, op. cit., p. 64). Tramite il respiro possiamo quindi formare il corpo ospitante per definire un corpo collettivo come «essenza originaria di ciò che i greci chiamavano lógos» (ivi p. 67). Uno spazio privato del phone e immerso nella phonè (cfr. Bene 1995), ovvero nello spazio di congiuntura dei nostri interni-interni-interni, intimità condivisa dello spazio interiore respirante, modo e moto per fare corpo collettivo, potenziale educante, traiettoria politica trasformativa.
Note
[1] Tra le poche, la Rete Bessa: «La cieca fiducia che il ministero ripone in piattaforme come Google, Microsoft, Amazon è quantomeno allarmante. Tali piattaforme non solo non offrono alcuna garanzia rispetto all’uso dei dati personali, ma lucrano sul loro utilizzo. Non è un caso che in altri stati del mondo il loro utilizzo venga proibito a scuola. Vogliamo essere liber* rispetto allo strumento didattico da utilizzare. Chiediamo che per l’anno venturo si predispongano tutti i provvedimenti che garantiscano la libertà dell’insegnamento e la tutela di insegnanti e student*.»
[2] L’inoperosità e la contemplazione sono «gli operatori antropogenetici, che […] rendono il vivente disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare «politica» e «arte» (Agamben, 2018, p. 1279). Riteniamo che la scuola possa e debba essere lo spazio inoperoso per eccellenza, dove svolgere il lavorìo incessante dell’arte e della politica.
[3] Sì. L’emergere di tali sigle – che fanno ormai della classe una ordinata scaffalatura di etichette, rispecchiano a pieno l’ideologia della scuola-azienda, dove il “diverso” è marchiato, quindi biasimato, compreso e compresso. Queste sigle inoltre, sono marcatori semantici che allontanano riflessioni empatiche e non permettono di percepire la classe come corpo collettivo. Stelle di David cucite sulla pelle che segmentano, dividono, escludono: normale e anormale, bravo e cattivo, intelligente e stupido…così il docente può evitare lo sforzo di costruire un gruppo classe come un’unità organica dialogante, formato di singolarità che eccedono categorie e definizioni. Queste sigle sono utili al potere costituito e costituente. Conoscendo i meccanismi di tale potere, sono state qui usate come “arma di accettazione”, ovvero parlare il linguaggio dell’istituzione per sabotarla dall’interno.
[4] Il PEI può essere utile come traccia del lavoro svolto per l’insegnante di sostegno che verrà, visto che quasi sempre i docenti di sostegno sono precari, assunti di anno in anno. Anche qui, per eludere il potere bisogna saper parlare la sua lingua: essere accomodanti nelle griglie burocratiche e sabotarlo poi in classe. Aggiungo che, ho rinunciato ad insegnare nella scuola pubblica nell’anno 2020-21, proprio perché lo spazio della DaD non permette infiltrazioni. Lo struttura alfanumerica dei pixel, degli schermi, rende quasi impossibile qualsiasi opera di sabotaggio, rendendo la mia attività didattica inattuabile, inefficace, infelice.
[5] …a smarrirla e ritrovarla per poterla smarrire ancora.
[6] Ritratto etimologicamente significa ricavare l’effige di qualcuno, ma allo stesso tempo è una condizione di “retrocessione”, una distanza presa. Nell’autoritratto, questa posizione di distacco dalla propria effige è una condizione ottima per tornare a lavorare sul concetto stesso di effige.
[7] «La mitopoiesi è quel rapporto sociale che fonda le stesse immagini con cui esso si media» (Vazquez 2010, p. 52).
[8] Sì, mutare, costantemente, l’un l’altr* per l’altr* con l’altr* in un intreccio organico e disorganico delle diversità attuali, inattuali, attuabili. Mutazione come orizzonte immaginativo del possibile, come moto non binario, come campo estessivo di corpi in divenire.
[9] «Nel 1998, una giovane ricercatrice canadese in Scienze ambientali, M. Beth Dempster, ha suggerito il termine simpoiesi per indicare “sistemi che producono in maniera collettiva, che non hanno confini spaziali e temporali autodefiniti. L’informazione e il controllo sono distribuiti tra i componenti. Sistemi evolutivi che possono generare cambiamenti sorprendenti”» (Haraway 2016, p. 92)
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INDIRE, Report integrativo Indire sulle pratiche didattiche durante il Lockdown, 2020
Rete Bessa, Campagna per la riconquista della scuola, l’universo e tutto quanto, 2020
[ultimo accesso a tutti i siti: 25 giugno 2021]
Fabrizio Ajello ringrazia le classi 2C e 2G del Liceo Artistico di Porta Romana per il lavoro svolto e condiviso, nonostante tutte le difficoltà, durante il biennio 2020-2021.
Fabrizio Ajello è artista, docente e scrittore. Nel biennio 2005/2006 ha fondato insieme alle curatrici Costanza Meli, Barbara D’Ambrosio e l’artista Christian Costa il progetto di arte pubblica Progetto Isole, a cui ha partecipato anche in qualità di artista. Nel 2008 fonda, insieme all’artista Christian Costa, il progetto Spazi Docili, basato a Firenze, che ha prodotto indagini sul territorio, interventi, workshop e talk presso istituzioni pubbliche e private, mostre e residenze artistiche internazionali. Ha inoltre esposto in gallerie e musei italiani e internazionali e ha preso parte a diversi eventi quali: Berlin Biennale 7, Break 2.4 Festival a Ljubljana, in Slovenia, Synthetic Zero al BronxArtSpace di New York, Moving Sculpture In The Public Realm a Cardiff, Hosted in Athens ad Atene, The Entropy of Art a Wroclaw, in Polonia. Da anni interviene in Istituzioni pubbliche con metodologie laboratoriali interdisciplinari e di collaborative learning. Collabora attualmente con alcuni magazine come MEMECULT e MADE IN MIND. É docente presso il Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze.
Jacopo Natoli è artista e docente. Da vent’anni ricerca le intersezioni tra arte e didattica. È stato docente di Arte e Immagine, Storia del Cinema e del Video, nonché insegnante di sostegno. Negli ultimi dieci anni ha fondato e cofondato diversi gruppi e progetti tra i quali: Numero Cromatico, Nodes Journal, Questo è il Nostro Nome Solo per Questo Concerto, ESSA!, Sgorbio, D.A.P.A., Juda Magazine, Just Art, Kamikaze, Libero Untore, Disegnatori a tempo perso, l’Edicola del Villaggio. Tra le sue recenti opere: The artist is cycling (performance, Concordia II, Milano 2021); Esci quando vuoi (video, Edicola Radetzky, Milano 2021); Che cosa m’insegni? (mostra, ViaFarini, Milano 2021); The multiple author (laboratorio, AIR space, Lviv 2020); I’m where I’m fine (residenza, Jam Factory Art Center, Lviv 2020); Lightbox + Cabina. Doppia Transpersonale (mostra, casa+cabina, Roma 2020); Manifesto Ergo Vivo (laboratorio, Palazzo Strozzi, Parco Vivo 2020); Fare Foresta (ambiente, Zoom 2020), Tullio de Mauro Zine (fanzine, IIA, Roma 2019-20); Fairwatching (performance, Artissima, Torino 2019).