REMEMORY | an uncanny collision or bumping into things in potent
places, as spatial-temporal rupturing and ungrounded seething,
waiting for recognition, knowing and reckoning for what always was
and always will be
(Harkin N., Haunting. Archival-Poetics 2, p. 7)
*Informiamo i lettori che in questo articolo mostro delle immagini storiche di persone Aborigene che sono decedute
Quando ho cominciato il mio dottorato di ricerca nel 2020, avevo alle spalle un decennio di attività in istituzioni culturali australiane in cui mi sono occupata di diversi progetti per facilitare l’accesso ad archivi australiani da parte delle popolazioni aborigene dalle quali proviene questo materiale (sia fisico sia da remoto), e successivamente per supportare comunità e organizzazioni aborigene nel creare i loro archivi comunitari e keeping places [1]. Nonostante il mio interesse per iniziative che supportino cambiamenti strutturali nelle istituzioni culturali nella gestione del patrimonio e la responsabilità dei professionisti che vi lavorano [2], mi sono costantemente trovata faccia a faccia con la più grande problematica che sta alla base dei processi di decolonizzazione delle istituzioni culturali: semplicemente, la maggior parte delle persone aborigene (inclusi i professionisti indigeni che vi lavorano) ignora l’esistenza di questo materiale proveniente dalle loro stesse comunità. Se questa situazione è già di per sé complessa in Australia, si ingarbuglia ulteriormente quando queste informazioni sono disseminate in disparate istituzioni europee che presentano barriere linguistiche, culturali e logistiche spesso insormontabili. L’attivista aborigena Henrietta Fourmile (Yidinji) scriveva già nel 1989 che gli Aborigeni erano “prigionieri degli archivi” (Captives of the Archives) e che le informazioni “collezionate” e accumulate sulle persone aborigene erano «semplicemente controllate da qualcun altro» (Fourmile, 1989, p. 4). Ma nonostante l’importanza transnazionale di queste testimonianze, cosa sappiamo delle storie “prigioniere” di questi archivi in Italia? E soprattutto: cosa sappiamo delle opinioni e dei punti di vista aborigeni su questa documentazione?
In questo intervento rifletto sul concetto di restituzione digitale di archivi coloniali che contengono informazioni relative ad Aborigeni australiani, parte del mio dottorato di ricerca Archivi aborigeni in Italia. Uno spazio per collaborazioni reciproche [3], focalizzandomi sulla relazione con il Castello D’Albertis Museo delle culture del mondo di Genova. Questa collaborazione è stata ispirata da questi principi condivisi e dal desiderio di utilizzare le collezioni australiane come un’ulteriore occasione per interrogarci sulle loro pratiche partecipative.
Il “diritto di sapere”
Esiste un legame imprescindibile tra l’espressione della propria identità e della propria cultura, e il diritto di accedere alla propria conoscenza disseminata in istituzioni culturali. A livello generale, per persone e comunità indigene questo diritto è fondamentale sia per le informazioni che non sono state tramandate a causa del colonialismo (Russell, 2005, p. 162), sia per affermare la propria autodeterminazione, come nel caso dei recenti movimenti di data sovereignity (Maiam Nayri Wingara, n.d.). Come ribadisce l’accademica Jennifer O’Neal (Tribù Confederate di Grand Ronde in Oregon, USA) utilizzando il principio dell’attivista Vine Deloria, Jr (Standing Rock Sioux), uno dei pilastri dell’autodeterminazione indigena è il diritto di sapere dove sono contenute le proprie informazioni (O’Neal, 2015, p. 2), diritto sancito anche nell’articolo 11 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni. Come noto, l’attivismo per il controllo sulla propria eredità culturale non è un fenomeno recente e ha accomunato popolazioni indigene di tutto il mondo. Negli ultimi anni movimenti come Black Lives Matter hanno avuto risonanza anche in Australia e creato terreno fertile per la rimessa in discussione del ruolo delle istituzioni culturali, specialmente per quanto riguarda il ruolo degli archivi. In un articolo per l’Indigenous Archives Collective (2020) l’archivista aborigena Rose Barrowcliffe (Butchulla) scrive: «The current events have also fueled discussions across the cultural sector about how to bear witness and advocate for change. Archives are uniquely placed to do both, but foundational structures of white supremacy, discrimination and colonialism in the archival tradition present a substantial barrier to engaging in social justice work» (Barrowcliffe, 2020, n.d.).
In questo contesto di movimenti indigeni di protesta che stanno prendendo piede a livello globale, l’idea del progetto di dottorato Archivi Aborigeni in Italia. Uno spazio per collaborazioni reciproche nasce per rispondere all’interesse manifestato sia da parte di persone e archivisti aborigeni, sia di alcune istituzioni italiane interessate a costruire uno spazio di dialogo per incrementare l’accesso alle loro collezioni archivistiche. Quando parlo di archivi coloniali, intendo quella fetta di documentazione ufficiale, note personali, fotografie, disegni, mappe prodotte da figure italiane (come per esempio, esploratori, scienziati e missionari) che descrivevano l’altro Aborigeno nei loro viaggi oltreoceano e che sono tuttora disseminati tra varie istituzioni culturali, istituzioni religiose, fondazioni, università e raccolte private. Queste collezioni, come quelle conservate nel Castello D’Albertis, custodiscono frammenti di storie, voci e immagini relativi ad Aborigeni australiani e abitanti dello stretto di Torres. Tutte raccontano di incontri e storie complesse, che si intrecciano in un passato coloniale violento e recente che non ha mai smesso di ripercuotersi sulla società australiana odierna. Uno degli obiettivi principali di questo progetto è di rendere visibili queste risorse per le persone e gli archivisti aborigeni connessi a queste storie, incoraggiando il dialogo e l’aggiunta di molteplici narrative tramite l’utilizzo di un prototipo di archivio digitale da cui accedere alle collezioni del Castello D’Albertis e di altre organizzazioni italiane. In questa prospettiva, l’archivio non è solamente uno strumento utilizzato per la restituzione digitale delle informazioni, ma è impiegato come parte di un processo più ampio per stabilire uno spazio di dialogo transnazionale sul futuro di questi archivi coloniali. L’importanza del concetto di ‘relazionalità’ (Wilson, 2008) sta alla base di questo processo, che attinge a metodologie indigene e decoloniali applicate al mondo del settore culturale e alla creazione e alla gestione del sapere, privilegiando epistemologie, voci e narrazioni aborigene contemporanee. Citando le parole dell’accademica Maori Ngāti Awa, Ngāti Porou Linda Tuhiwai Smith (1999), «La condivisione della conoscenza è una strategia critica per decolonizzare le maniere in cui le istituzioni culturali sanciscono regole e creano norme su aspetti come la traduzione della ricerca o il suo impatto […]. Da questo punto di vista la condivisione del sapere è una delle maniere in cui si possono smembrare queste relazioni di potere, non ‘parlando al potere’ ma ‘discutendo attraverso il potere’, incrementando connessioni e relazioni» (Smith et al, 2019, pag. 2).
Quando ho contattato il Museo D’Albertis per proporre una collaborazione dedicata alle fotografie che Capitano D’Albertis scattò in Australia durante i suoi viaggi intorno al mondo, ero al corrente dell’impegno decennale con alcune comunità di Genova, ma anche delle numerose collaborazioni con le comunità italiane e internazionali rappresentate nelle collezioni. Qualche anno prima, ricordo di aver intervistato la Direttrice del museo, Maria Camilla De Palma, e di essere stata stimolata dalle attività di rimpatrio e restituzione. Mi colpì in particolare il racconto del ritorno di 4000 oggetti archeologici restituiti alla Repubblica dell’Ecuador, in un momento storico in cui il concetto di “rimpatrio” di collezioni aborigene era ampiamente discusso a livello mondiale, ma visto con sospetto da molte istituzioni culturali (vedi, per esempio, Favole, 2003; Pinna, 2011; UNESCO, 2018). Avevo toccato con mano questa diffidenza quando, in uno dei primi progetti a cui ho lavorato dopo essermi trasferita in Australia nel 2010, ho cominciato a contattare varie organizzazioni per creare una prima mappatura delle collezioni aborigene conservate nel nostro paese. Lungi dall’essere una prerogativa unicamente italiana, il difficile accesso alla propria eredità culturale è una condizione che accomuna un numero indefinito di popolazioni indigene, sia per quanto riguarda quella conservata in istituzioni europee, sia quella nei paesi coloniali stessi.
Oltre la restituzione. Tecnologia come spazio di negoziazione
Sulla scia dei dibattiti internazionali relativi al rimpatrio fisico di eredità culturale indigena che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni, la pratica della “restituzione” di copie digitali è stata largamente adottata per facilitare l’accesso a questo materiale per comunità nazionali e internazionali rappresentate in queste istituzioni (non necessariamente indigene). Ma nell’ambito di questi progetti, è stata messa in discussione la neutralità dei sistemi digitali utilizzati perché possono perpetuare epistemologie eurocentriche e coloniali nel modo in cui sono concepiti, strutturati e impiegati durante i processi collaborativi (Caswell, 2017; Duff et al., 2013; Gilliland & McKemmish, 2004). Infatti, in molti casi, la restituzione digitale rimane una delle molteplici pratiche partecipative contemporanee stimolate da discorsi sulla decolonizzazione delle istituzioni culturali, ma non produce cambiamenti concreti nel modo in cui queste collezioni vengono gestite. Le strutture semantiche tipiche del colonialismo basate su visioni del mondo eurocentriche transitano dalle mura dell’istituzione a quelle digitali. La scelta della piattaforma da utilizzare in questi processi si rivela, dunque, di fondamentale importanza per dimostrare impegno nel decentrare il potere su questi materiali e per priorizzare le epistemologie delle comunità che sono parte del processo di restituzione. Ma la restituzione digitale è solamente un punto di partenza per riflessioni cruciali per musei, archivi e altre istituzioni culturali interessate a progetti partecipativi, perché sollecitano la messa in discussione dei propri paradigmi epistemologici e spingono a soffermarsi sulle complessità e la lentezza che questo processo richiede.
Il prototipo dell’archivio digitale utilizzato per il mio progetto di dottorato è costruito partendo da un software open-source creato appositamente per l’accesso e la gestione etica di contenuti indigeni chiamato Mukurtu [MOOK-oo-too linkare a https://mukurtu.org/]. È una piattaforma creata per replicare nel digitale visioni del mondo indigene, pur mantenendo alcune funzioni specifiche dedicate ai bisogni delle istituzioni (Christen, 2019). Si differenzia da altri sistemi comunemente utilizzati nel settore culturale per l’accesso di copie digitali per la presenza di funzionalità specifiche, tra cui l’applicazione di protocolli culturali e lo spazio dedicato a diverse narrative sulle collezioni. Ho lavorato con Mukurtu ed altri sistemi simili per alcuni anni e toccato con mano le loro potenzialità e limitazioni, specialmente nell’ambito della gestione locale di informazioni quando non supportata da adeguati investimenti per l’impiego e la formazione di staff qualificato per il suo utilizzo [5], ma ho sperimentato come possono comunque rappresentare un’opportunità per riflettere sulle pratiche istituzionali nella gestione delle collezioni. Infatti, in questo progetto, Mukurtu è utilizzato come uno strumento per creare e mantenere relazioni a lungo termine. È nato come un prototipo in continua evoluzione che muta a seconda delle idee e delle critiche ricevute dai professionisti aborigeni impiegati nel settore culturale con i quali ho l’opportunità di confrontarmi e le istituzioni italiane impegnate in questo progetto. È anche adoperato come uno spazio di conflitto e negoziazione su quegli aspetti spesso inesplorati degli archivi coloniali, che vanno ad intaccare il diritto e l’autorità dell’istituzione culturale verso questo patrimonio per aprire le porte a un possibile spazio di decolonialita’ critica sulla gestione di questi documenti. Ad esempio, ponendo domande quali: come sono state collezionate queste testimonianze? Come sono attualmente conservate nel museo? A chi appartiene la loro proprietà intellettuale? Cosa significa ‘comunità di origine’ e a chi appartengono le immagini che non possono essere identificate? Che responsabilità ha il museo circa le modalità con le quali vengono mostrate al pubblico italiano? Per fare un esempio pratico delle maniere in cui utilizziamo questa piattaforma per invertire l’ordine delle cose (Foucault, 1994) e riflettere sulla violenza epistemica che alcuni di questi progetti di restituzione possono perpetuare, stiamo riflettendo sulla maniera in cui le collezioni del Castello D’Albertis sono state catalogate. Questo processo ha lo scopo di facilitare la ricerca digitale di questi documenti, ma tramite nomenclature culturalmente rispettose per le persone aborigene che si vedono rappresentate in questi archivi (e che quindi evitano di includere parole di ricerca che possono essere considerate offensive e/o razziste nel contesto odierno).
Nel lavoro con il Museo D’Albertis queste riflessioni si sono protratte fuori dallo spazio digitale, sino a espandersi nello spazio fisico del museo con la piccola sezione della mostra temporanea Colazione a Melbourne e pranzo a Yokohama (linkare a https://aboriginalprojectitaly.com/it/exhibition-at-dalbertis-castle-genova/). Sviluppato con la scrittrice e curatrice Marika Duczynski (aborigena, del gruppo Gamilaraay) in veste di consulente culturale, il lavoro su questa parte della mostra ha messo in discussione la maniera in cui questi materiali sono stati esposti e le storie che raccontano al visitatore. In questo spazio, la voce di D’Albertis è stata messa da parte per creare uno spazio di riflessione sul perché le fotografie, gli scritti e la documentazione contenuta in istituzioni australiane ed europee possono rivelarsi importanti per persone e comunità aborigene oggi con lo scopo di supportare autodeterminazione, giustizia sociale e diverse narrazioni della storia. Per sviluppare il concetto di questa sala ho adottato i principi sviluppati dall’accademica aborigena Terri Janke (2021), che mi hanno guidato nel presentare questi concetti riconoscendo e mettendo in evidenza valori importanti nei sistemi di conoscenza Indigeni, tra cui l’importanza del rispetto, dello stabilire relazioni a lungo termine con le persone e comunità connesse a queste storie, del riconoscimento della proprietà intellettuale indigena, della condivisione dei benefici di questo tipo di progetti. Questo lavoro aveva anche l’intento di presentare al pubblico degli esempi pratici su come mostrare immagini di persone aborigene in maniere culturalmente rispettose in un contesto così lontano come quello italiano. Per esempio, attraverso la scrittura di un ‘acknowledgment of country’ in italiano, tramite l’inclusione di materiale archivistico conservato in Australia e che racconta storie della famiglia di Marika, o come all’inizio di questo scritto, mostrando rispetto informando i visitatori che le immagini che andranno a vedere mostrano persone aborigene che sono decedute (poiché nelle culture aborigene i protocolli per il lutto possono variare ma è pratica comune sopprimere le foto pubbliche del defunto per un periodo di tempo deciso dalle comunità stesse).
La curatrice Aborigena Marika Duczynski (Gamilaraay) riflette sull’importanza degli archivi nell’ambito delle collezioni del Museo D’Albertis. Video e filmati di Chris Duczynski. Proprietà Intellettuale di Marika Duczynski.
Note
[1] Quando parlo di “comunità d’origine” di questo materiale mi riferisco ai discendenti delle persone Aborigene che sono rappresentate nel materiale archivistico, nonché alle altre persone/comunità legate alle collezioni attraverso la loro storia e pratiche culturali. In questa definizione includo anche organizzazioni o gruppi Aborigeni (tra i quali, per esempio, centri culturali o land councils) che possono essere interessati al materiale per la ricostruzione della storia locale.
[2] Come persona italiana che lavora su questi temi, è indispensabile palesare il mio posizionamento e il mio ruolo in queste relazioni di potere. Ho scritto delle riflessioni sul mio percorso nel blog dell’Indigenous Archives Collective al LINK https://indigenousarchives.net/2019/06/27/my-cultural-competency-journey-an-italian-perspective-of-working-with-aboriginal-and-torres-strait-islander-collections-and-services-in-glam/
[3] Questo progetto è parte del mio dottorato di ricerca al corso di Studi Internazionali e Educazione alla Facoltà di Scienze Sociali, Università Tecnologia di Sydney (UTS) e include collaborazioni con diverse organizzazioni australiane e italiane e specialmente con il Museo etnografico Giovanni Podenzana a La Spezia, la sezione preistorica-etnografica “Luigi Pigorini” del Museo delle Civiltà di Roma e il Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo di Genova. Maggiori informazioni sul progetto, l’archivio digitale e sugli altri partner coinvolti sono disponibili a questo LINK https://aboriginalprojectitaly.com/en_au/
[4] Anti-colonial graffiti painted around sydney in the lead up to 26 January 2017 LINK
[5] Abbiamo scritto alcune riflessioni sulle potenzialità e limitazioni di questo sistema e il suo utilizzo in Australia nell’articolo Thorpe K., Christen K., Booker L., Galassi M., Designing archival information systems through partnerships with Indigenous communities: Developing the Mukurtu Hubs and Spokes Model in Australia, in «Australasian Journal of Information Systems», vol. 25, 2021 accessibile a questo LINK
Bibliografia
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Caswell M., Teaching to dismantle white supremacy in archives, in «The Library Quarterly», vol. 87, no. 3, pp. 222-235, 2017.
Christen K., “The songline is alive in Mukurtu”: Return, reuse, and respect, in L Barwick et al. (eds), Archival returns: Central Australia and beyond, Honolulu & Sydney, University of Hawaii Press & Sydney University Press, pp. 153–172, 2019. http://hdl.handle.net/10125/24882/
Duff W. M., Flinn A., Suurtamm K. E., Wallace D. A.,, Social Justice Impact of Archives: A Preliminary Investigation, in «Archival Science», vol 13, no. 4, pp. 317-348, 2013.
Favole A., Appropriazione, incorporazione, restituzione di resti umani: casi dall’Oceania, in «Antropologia», vol. 3, pp. 121-140, 2003.
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Foucault M., The order of things: An archaeology of the human sciences, Vintage Books, New York 1994.
Gilliland A., McKemmish S., Building an infrastructure for archival research, in «Archival science», vol. 4, no. 3-4, pp. 149-197, 2004.
Janke T., True Tracks. Respecting Indigenous Knowledge and Culture, UNSW Press, Sydney 2021.
Maiam Nayri Wingara, Aboriginal and Torres Strait Islander Data Sovereignty Collective https://www.maiamnayriwingara.org/
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Pinna G., I diritti dei popoli indigeni e la museologia di collaborazione, in «Museologia scientifica», vol. 5, no. 1-2, pp. 28-52, 2011.
Russell L., Indigenous Knowledge and Archives: Accessing Hidden History and Understandings, in «Australian Academic & Research Libraries», vol. 36, no. 2, pp. 161-171. 2005.
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Wilson S., Research Is Ceremony: Indigenous Research Methods, Columbia University Press, New York 2008.
Monica Galassi sta svolgendo un dottorato di ricerca al corso di Studi Internazionali e Educazione (Facoltà di Arti e Scienze Sociali) all’University of Technology, Sydney (UTS), dove è anche ricercatrice al Jumbunna Institute for Indigenous Education and Research. I suoi interessi di ricerca si concentrano sui diritti delle popolazioni indigene, in particolare sull’esercizio della sovranità sulla propria eredità culturale.