Se la tradizione di fondere l’arte al potere per fissare i caratteri della italianità affonda le proprie radici nei secoli incidendo il profilo estetico (e non solo) del paesaggio italiano, durante il Ventennio fascista questa mission fu incentivata dal duce con straordinario fervore, toccando ogni campo della produzione culturale. L’abbondante letteratura storico-artistica esistente racconta come, nelle sue mani, l’architettura, le arti visive e le mostre furono strumenti privilegiati e funzionali a forgiare «l’uomo nuovo» all’indomani dell’unità nazionale.1 Con la proclamazione dell’Impero,2 poi, la mission fascista si arricchì di nuovi toni e ambizioni, e ri-affermò la mostra come quella formula che poteva risultare coinvolgente più di ogni altra conoscenza libresca o pubblicistica.3
Un esemplare fortemente incisivo e significativo ai fini della costruzione del discorso sull’identità nazionale è la Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare di Napoli, considerata come «il culmine del percorso di sviluppo nel campo delle mostre coloniali […]; l’ultimo e forse il più efficace esempio dell’evoluzione delle rappresentazioni coloniali italiane» (McLaren 2011, 28-29). I testi redatti dai suoi organizzatori e promotori descrivono l’impresa come «la più importante realizzazione imperiale dell’Anno XVIII»: un’operazione strategica volta a «rappresentare, in una sintesi panoramica completa, i risultati che, attraverso un’opera millenaria di civiltà, hanno coronato gli sforzi compiuti dal genio, dal valore e dal lavoro italiano nelle terre d’oltremare»; tesa a «illustrare gli aspetti storici, geografici, economici dei nostri possedimenti, nonché il complesso delle attività politiche, sociali, culturali che l’Italia fascista assiduamente svolge per il potenziamento totalitario del suo Impero» (AA.VV. 1940, 9). Per ricordarla con le parole di chi la vide nei giorni dell’inaugurazione (9 maggio del ’40) si trattò di una «Esposizione a quartieri di città: il quartiere delle arti, quello della zona archeologica nella quale trovate un criptoportico e terme romane, un acquedotto romano e scavi e un Museo degli scavi, una strada romana e un tempietto votivo romano[…]» (Biancale 1940, 55).
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Immagine 1: Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare. Plastico dell’impianto originale. In primo piano il Padiglione dell’Africa Orientale Italiana, con Cubo d’Oro e i “villaggi indigeni” attorno al Lago di Fasilides (all’interno del quale è tuttora presente il Castello di Gondar). Oltre il Viale delle Palme, il Padiglione della Libia. Foto Alessandra Ferlito. 2014.
Immagine 2: Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare. Plastico dell’impianto originale. Veduta dall’ingresso principale, con il Padiglione delle Repubbliche Marinare (sinistra), la Torre del PNF, il Teatro Mediterraneo (centro) e il Teatro all’aperto (destra). Foto: Alessandra Ferlito. 2014.
Immagine 3: Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Panoramica ingresso principale_Teatro Mediterraneo e Torre del Partito Nazionale Fascista. Foto: Alessandra Ferlito. 2014.
Immagine 4: Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Settore Geografico – Africa Orientale Italiana – Cubo d’Oro. Foto: Alessandra Ferlito. 2014.
Con questa configurazione, la prima Triennale d’Oltremare riuscì a colpire positivamente per avere messo in scena «l’espansione, la prassi di governo e delle terre colonizzate con una complessa articolazione e coerenza testuale, con ricchezza di mezzi finanziari e modernità di tecniche espositive che non ebbe uguali durante il fascismo» (Dore 1992, 48-49). Allo stesso tempo, a partire dagli esiti prodotti dalla maggior parte degli studi esistenti (dedicati più che altro agli aspetti prettamente tecnico-stilistici), essa può essere interrogata quale corpo di un più ampio sistema di «manifestazioni della manipolazione e del controllo delle popolazioni poste sotto l’egida del colonialismo.» (McLaren 2011, 30).
Quale estratto di uno studio più ampio e ancora in corso, personalmente elaborato nell’ambito di una ricerca dottorale, questo articolo attinge agli studi esistenti con l’intento di registrare il modo in cui, attraverso il format dell’esposizione, il concetto di italianità ha preso forma mediante la creazione della differenza tra noi (italiani) e gli altri non occidentali. Quale materializzazione dello ‘spirito’ imperialista, l’esemplare partenopeo non solo segnò una tappa fondamentale del percorso di costruzione del discorso sull’Altro, ma costituì quel momento in cui la costruzione dell’oggetto coloniale potè coincidere con la costruzione del soggetto colonizzatore. La Mostra d’Oltremare è, dunque, autrice di una narrazione identitaria che, sotto la lente critica del “postcoloniale”, appare necessariamente falsificata, inventata o immaginata. Detto altrimenti, assumendo il colonialismo come una struttura di potere, è possibile leggere nella italianità un’etichetta prodotta attraverso manipolazioni, distorsioni e forzature troppo spesso ignorate.5 Per dirla con Stuart Hall – il colonialismo «è sempre stato anche un modo di rappresentare o narrare una storia, e il suo valore descrittivo è sempre stato contenuto entro uno specifico paradigma definitorio e teoretico.» (1997, 311). Un paradigma che ha trovato nella rappresentazione la sua arma disciplinante e nella produzione artistica e culturale un campo di sperimentazione legittimante. L’evento del ‘40, in sostanza, si presta ad essere problematizzato all’interno di quel discorso che vede nel colonialismo uno dei fenomeni alla radice della modernità italiana, oltre che europea. Si può inoltre asserire che se da una parte la Mostra proveniva da relazioni di squilibrio, dall’altra, ne produsse di ulteriori che finirono per investire le memorie, gli immaginari, le branche del sapere.
A partire da queste premesse, il discorso sull’italianità definito all’interno di quella colossale struttura di potere viene qui estrapolato dal suo assetto complessivo. Ovvero, come propone Viviana Gravano in un recente studio dedicato alla Expo 2015 di Milano, piuttosto che avanzare un’analisi esaustiva e ‘puramente’ estetica dei singoli progetti espositivi presentati nel ‘40, questo articolo si sofferma sull’approccio teorico e ideologico di cui l’impero si servì per «fare gli italiani» e imprimere la loro presunta «superiorità» rispetto agli altri abitanti dell’Oltremare assoggettato.5 Allo stesso tempo, è importante rimarcare il ruolo privilegiato che le immagini e le arti visive assunsero non solo all’interno dei padiglioni deputati all’arte ma in ogni Settore della Triennale, facendo della proposta mussoliniana una sorta di ‘opera d’arte totale’ volta alla celebrazione assoluta dell’italianità, delle sue origini «gloriose» e del suo destino promettente.6 Nel contesto della Triennale l’arte diventò una delle lingue privilegiate attraverso cui auto-definirsi nel confronto con il «subalterno», e di definire quest’ultimo nell’atto di rappresentarlo. Parafrasando Iain Chambers, essa servì a etichettare e marginalizzare l’altro assoggettandolo ai propri bisogni e alle proprie categorie.7
Un primo elemento da registrare ai fini della tesi in corso risiede nel fatto stesso che l’intera operazione fu fortemente voluta da Mussolini, che in qualità di supervisore e revisore, dettò le linee generali servendosi del contributo di diversi istituti colonialisti: «veri costruttori di ideologia coloniale e di un senso comune etnografico» (Dore 1992, 50). Come era successo nel 1931, quando l’Italia ancora priva del suo impero era presente all’esposizione coloniale di Parigi, agli organi direttivi e collegiali della Mostra collaborarono «quei professionisti […] che rappresentavano a Napoli le punte più impegnate, e quindi politicamente compromesse, sia del potere accademico che degli organi professionali controllati dal regime» (Grimellini 1997, 54). Questo assetto si rivelò chiaramente determinante in seno alle politiche ed estetiche della rappresentazione del sé e dell’altro.
Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Padiglione della Sanità e Razza e della Cultura – Mostra della razza-
statua di Giulio Cesare, ritratto di Mussolini, giovani delle colonie estive. Archivio Patellani.
http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0010480/
Mostra Triennale delle Terre d’oltremare. Inaugurazione dell’esposizione -1940 –
Gruppo di visitatori nella zona che riproduce un villaggio africano. Archivio Patellani.
http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0014859/
Oltre che per i considerevoli investimenti economici, la Mostra si distingue, quindi, per l’immenso impiego di energie professionali e intellettuali, nonché per le modalità adottate in fase di ‘reclutamento’ di queste competenze. Se le esposizioni coloniali fasciste servirono proprio a enunciare i principi essenziali della visione personale del duce, in occasione della Triennale quest’ultimo fu in un certo senso committente e allo stesso tempo autore e curatore, perché ogni scelta formale fu elaborata a partire dalla sua concezione del presente e dalle sue ambizioni sul futuro dell’Impero appena proclamato. Posto al vertice di una struttura molto estesa e gerarchicamente organizzata, Mussolini autorizzò i progetti sulla base della loro capacità di tradurre la mission principale. Così, a comporre le commissioni valutatrici degli artisti da coinvolgere per la realizzazione della Mostra furono esclusivamente quelle figure che aderirono al piano mussoliniano, coloniale e imperiale, senza condizioni.8 Un esempio emblematico, in questo senso, si può individuare nella partecipazione di Alberto Calza Bini, architetto romano che, insieme all’autore del progetto generale Marcello Canino, fece parte del comitato tecnico della Triennale. Calza Bini aveva fondato il Sindacato fascista architetti (1923), e ne era stato Segretario nazionale fino al ‘36; ma soprattutto, nel periodo di progettazione dell’impianto flegreo era anche preside della Facoltà di Architettura di Napoli che, pure, aveva fondato nel ‘35. Secondo alcuni studi successivi, l’intera Mostra finì per essere una emanazione delle sue proposte, incentrate sull’idea dell’«architetto integrale», capace di una combinazione di arte e scienza.9 Essa diventò, cioè, una sorta di «immenso cantiere-scuola» in cui i talenti dei giovani architetti e artisti, così come i saperi e tecnico-artigianali delle botteghe d’arte, vennero piegati alle richieste della propaganda coloniale.
Il processo di definizione dell’italianità conobbe quindi diversi meccanismi di inclusione/esclusione, messi in moto e resi operativi a tutti i livelli: l’esclusione dell’altro non riguardò soltanto il colonizzato, ma ogni voce potenzialmente scomoda e dissidente. Quanto appena affermato può essere chiarito richiamando brevemente la querelle artistica che preparò il terreno alla realizzazione della Triennale: «di natura più ideologica e teorica[…], ma dai risvolti fondamentali sul piano di un’estetica nazionale, cui paradossalmente concorrono in misura maggiore esponenti di una cultura irregolare, antiaccademica, che il contrario.» La querelle in questione, sollevata dalla storica dell’arte Martina Corgnati, risale agli anni Venti, con la reinvenzione di una dimensione identitaria italiana che il fascismo, attraverso l’arte, operò non senza contraddizioni e incoerenze.10 Nella sua fase iniziale, infatti, il duce si legò e sfruttò l’attività del gruppo denominato “Novecento”, promosso dalla giornalista e critica d’arte Margherita Sarfatti – ideologa di un linguaggio artistico «nazionalisticamente eccellente», retto dall’obbiettivo estetico di ripensare la classicità, intesa in un’accezione rinascimentale e plastica.11 Negli stessi anni fu fondamentale il legame con la rivista “Critica fascista” (fondata da Giuseppe Bottai nel 1923 e chiusa nel 1943), all’interno della quale l’italianità ritornava come uno dei temi portanti dell’inchiesta sull’arte. Parallelamente, il regime trovò il modo di legarsi ai Futuristi, per mezzo dei quali la questione identitaria e la necessità di forgiare una nuova idea di italianità tornò in auge in una chiave radicalmente diversa da quella proposta dal gruppo “Novecento”: «l’Italia futurista avrebbe fatto a meno delle zavorre costituite dalla tradizione, dalla lingua, da usi e costumi ancora ottocenteschi, in nome di un violento espansionismo, colonialista anche sul piano della cultura.» Il futurismo, in sostanza, voleva «sbarazzarsi di tutta la mediocrità nazionale in nome di un solare, dirompente attivismo internazionalista.» (Corgnati 2011). Nel complesso degli anni Trenta, mentre l’astro di Sarfatti era in declino, il movimento futurista continuava a interpretare le posizioni meno nazionaliste e in assoluto più moderniste-avanguardiste. Se i suoi esponenti si ponevano in maniera polemica nei confronti delle istituzioni quali le scuole e i musei, ostili verso la chiesa e il mondo cattolico, altre intelligenze del regime, quali la figura di Ardengo Soffici, stavano definendo i tratti di un’arte rispondente ai principi fondamentali del fascismo nei seguenti termini: ideale di Patria e di Nazione; spirito di religione (cattolicesimo); tradizionalismo, ritrovamento dei caratteri del popolo italiano dalla latinità al cattolicesimo; salute morale; equilibrio intellettuale; probità; saggezza; realismo; ruralità.12 La querelle appena accennata, complessa quanto controversa, assume rilievo non tanto in relazione all’interesse strategico a utilizzare l’arte per allargare e irrobustire la base del consenso, né l’adesione dei movimenti artistici alle direttive del regime. Più che altro, risulta significativo l’approccio sistematicamente manipolatore grazie al quale visioni antitetiche e contrastanti poterono conciliarsi nel contesto della rappresentazione espositiva.
Ancora a titolo di esempio, è interessante ricordare che per la realizzazione degli edifici che assumevano un particolare valore di testimonianza dell’operato del regime (es. il Padiglione dell’Africa Orientale Italiana o la Torre del Partito Nazionale Fascista) vennero banditi specifici concorsi di progettazione. I risultati di questi ultimi, però, vennero «viziati sin dall’inizio in quanto i progettisti, per poter sperare in un esito favorevole, dovevano per forza assumere come riferimento le proposte fissate […]» dai principi generali. (Grimellini 1997). Nel complesso, tuttavia, a guidare i progettisti della Mostra fu soprattutto «la tradizione di immaginazione e invenzione» consolidatasi con le esposizioni coloniali nazionali e universali. (Dore 1992, 60).13 Una tradizione che prevedeva l’utilizzo di ogni stratagemma utile all’accaparramento del consenso popolare e che si poté cavalcare solo grazie all’assoggettamento totale di qualsiasi voce potenzialmente dissonante.14 In altre parole, nel contesto della Triennale d’Oltremare prese avvio un concorso di ambizioni, costrizioni, compromessi e aspettative che motivarono e agitarono l’esecuzione dello spartito imperiale quale affermazione di un canone che segnerà a fondo l’immaginario e le produzioni estetiche delle generazioni a venire. Come rilevato dagli studi storici sul colonialismo italiano, sulla falsariga di molte altre esperienze precedenti, realizzate sul territorio italiano ma anche all’estero, «il coinvolgimento dell’Altro, la sua soggettività, appaiono sostanzialmente annullati e l’alterità trasformata […] in differenza». Nelle sue diverse forme rappresentative, l’altro viene «tradotto come pura fisicità, ridotto alla sua corporeità, fatta di nudità, di individualità negata […]». Gli altri, in sostanza, sono solo «oggetti antropologici privi di identità […]; anonimi rappresentanti, veri o presunti, di un gruppo etnico.»; utili solo alla «riduzione dell’alterità africana in tipi razziali da collocare scientificamente nella scala evolutiva del genere umano»: indispensabili per la scrittura di un «nuovo ordinamento del mondo che funge da fondamento e da giustificazione al dominio coloniale». (Palma 2000, 187 ss). Allo stesso tempo, l’immagine dell’italianità è tutta improntata sui tratti ereditati dal passato glorioso della Roma imperiale, e allo stesso tempo proiettata verso un futuro di sviluppo, progresso e prosperità.
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Immagine 7: Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Settore Geografico. Padiglione Libia – Caffè Arabo. 1940. Archivio storico Mostra d’Oltremare S.p.A.
Immagine 8: Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – esterno del padiglione dell’Africa Orientale Italiana – 1940 – gruppo scultoreo “La fraternità delle armi e del lavoro nella conquista dell’Impero” di Vittorio Di Colbertaldo (opera distrutta). http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0010446
Immagine9: Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Settore Produzione e Lavoro – Padiglione Elettrotecnica, con parete decorata da Enrico Prampolini. Archivio Storico Mostra d’Oltremare S.p.A.
Immagine 10: Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Padiglione delle Conquiste – “Battaglia abissina” di Giulio di Girolamo; pittura murale. 1940. Foto: Federico Patellani; in Archivio Federico Patellani. http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0010424/.
Immagine 11: Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Settore Geografico – Cubo d’Oro – Salone dell’Impero, con affresco di Giovanni Brancaccio. 1940. Foto: Alessandra Ferlito 2015.
Come si può dedurre dalla summa dei suoi elementi formali, quella Triennale non fu semplicemente una struttura espositiva, ma una vera e propria ‘opera-evento’ dell’invenzione coloniale. L’atteggiamento che guidò i costruttori/esecutori del progetto imperiale nell’individuare le mosse da compiere emerge con disinvoltura in una recente conversazione tra Vincenzo Trione, storico dell’arte e curatore napoletano, Alfredo Maria Sbriziolo e Cherubino Gambardella, architetti che lavorarono alla progettazione e ai restauri successivi dell’impianto flegreo. A proposito dei riferimenti progettuali e delle modalità che ispirarono la colossale «invenzione» (è lo stesso Trione a utilizzare questo termine), sollecitato dallo storico dell’arte, l’architetto Sbriziolo (tra i progettisti del Padiglione del Lavoro italiano in America Latina) ricorda che «Eravamo molto giovani, avevamo una passioncella per i primi razionalisti: Terragni, Figini e Pollini; …però ci influenzò molto proprio l’aria, il verde…». E continua, poi, ammettendo che «Alle volte si disegna senza pensare tanto al dialogo con quello che c’è attorno. L’intento era di non creare qualcosa che potesse fare contrasto, ma poi, insomma, ognuno progettava un po’ come voleva…».15
Volgendo lo sguardo agli aspetti formali, dalla comparazione tra le fonti d’archivio e gli studi più recentemente prodotti è possibile trarre che l’ultima «etno-esposizione vivente» della storia italiana era concepita come «un testo complesso, con diversi livelli di comunicazione e di lettura.» (Dore 1992, 52). La rappresentazione della coscienza coloniale venne proposta attraverso una precisa strategia comunicativa che agiva mediante l’uso combinato di elementi testuali e verbali, visivi e sonori. Dal punto di vista stilistico e concettuale, le direttive centrali prevedevano che il ‘collettivo’ di progettisti e artisti attivi nel contesto della Mostra si ispirasse principalmente a due tendenze architettoniche apparentemente opposte: una di stampo tradizionalista e conservatrice, riferita al classicismo romano; una più «moderna» e innovatrice, di matrice razionalista. Il disegno dell’impianto complessivo, poi, prese forma a partire da alcuni «assi ideologici» dai quali fu impossibile prescindere:
la messa in scena della antica vocazione espansionistica e civilizzatrice dell’Italia, la continuità tra la Roma imperiale e il colonialismo fascista, l’antinomia tecnologia/arretratezza e civiltà/barbarie, la comparazione contrastiva sistematica […] tra il vecchio precoloniale e il nuovo realizzato dal fascismo. (Dore 1992, 52)
Una sintesi visiva di questa fusione si trova in una delle immagini maggiormente commentate, ovvero quella del manifesto ufficiale di promozione dell’evento, opera di Corrado Mancioli e Ugo Giammusso, riprodotta anche in ceramica, nonché utilizzata come copertina del Documentario che accompagna la Mostra e come immagine promozionale in moltissimi contesti diversi che vanno dal francobollo alla bolletta della Società Elettrica della Campania.
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Immagine 12: Prima Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Manifesto ufficiale; grafica di Corrado Mancioli, Ugo Giammusso. 1940. Archivio Biblioteca Wolfsoniana http://www.wolfsonian.org/explore/collections/triennale-doltremare-napoli-1940-xviii
Immagine 13/14: Immagine ufficiale della Mostra d’Oltremare riprodotta in francobollo e all’interno di una bolletta della Società elettrica della Campania. 1940.
Immagine 15: Ritratto con dedica di Benito Mussolini presente nel Documentario che accompagna la Mostra. 1940. Foto: Alessandra Ferlito. 2016.
Immagine 16: Documentario della Mostra – 1940 – immagine di propaganda_Foto A.Ferlito 2016.
Immagine 17: Documentario della Mostra – 1940 -Mario Sironi -Pubblicità Fiat – Foto A.Ferlito 2016.
In realtà, è l’intero volume a omaggiare il ruolo delle immagini, oltre che dei testi. Nella mente di chi lo ha concepito, il Documentario doveva costituire una sorta di opera tra le opere; una traduzione in forma cartacea di quella che sarebbe stata l’esperienza della fruizione fisica degli ambienti allestiti.17 Parallelamente, al suo interno si trovano numerosi inserti pubblicitari e promozionali delle aziende italiane attive nei territori delle colonie, caratterizzate da una iconografia strettamente riferita all’ideologia imperiale. Il linguaggio delle immagini ricalcava i toni accesi e appassionati dell’impero: semplice, diretto, immediato, capace di un forte impatto emotivo. Stesso dicorso vale per i testi che servirono a promuovere la Mostra, a spiegarne i contenuti e a documentarla. Al di là dei toni ammiccanti che connotano le descrizioni, o della frequenza ‘battente’ di certi termini o espressioni, già nelle prime pagine di questo corposo testo sono espliciti i modi auto-celebrativi e gli scopi propagandistici che l’evento materializza attraverso il gesto del mettere in mostra. Come nei testi che avevano promosso la partecipazione italiana all’evento parigino del ‘31, anche qui possiamo notare «la contaminazione tra linguaggio ufficiale esotista e stereotipico dei paesi colonizzatori, […] mescolato però alle parole tipiche del modernismo futurista.» (Gravano 2016).
Per quanto la Triennale non fosse un luogo esclusivamente deputato all’arte (come accade, invece, con la Biennale di Venezia), è indubbio che entro questo campo il regime poté sperimentare liberamente metodi e forme, dare sfogo a bisogni e desideri. All’interno di qusta kermesse dell’esotismo nazionale, l’arte «non è utilizzata solo per realizzare le usuali esposizioni, ma svolge un ruolo fondamentale nella attuazione di un vastissimo progetto di fusione della cultura di massa con la cultura alta, con molteplici soluzioni tecniche e stilistiche.» (Arena 2011:89). Una fusione che, per la sua efficacia, viene ricordata con entusiasmo nei decenni a seguire.18
Gli studi condotti confermano quanto tutto l’impianto sia stato pianificato secondo un «criterio di unità delle arti come presupposto fondamentale alla costituzione dell’immagine dell’Esposizione stessa.» Quali strumenti di potere, opere e spazi espositivi, artisti e architetti, camminavano di pari passo nella progettazione della Mostra, si integravano e completavano a vicenda. Le arti, da quelle figurative a quelle plastiche o decorative, si sono inserite «organicamente nelle costruzioni architettoniche, definendone i caratteri principali»; assumendo «una funzione architettonica e comunicativa di primo piano.» (Arena 2012, 13-14). Alla pittura, «nella varietà grandissima dei nomi degli artisti che l’hanno praticata», viene restituita «la sua funzione vera di decorare lo spazio»;19 Nel complesso, pittura, scultura e architettura furono un trinomio imprescindibile per la «estetizzazione della politica imperiale del regime», i cui elementi dialettici trainanti, secondo Giovanni Arena, furono le opere decorative a carattere monumentale (2011, 95). Un ruolo significativo, riconosciuto più recentemente, fu ricoperto anche dai decoratori, provenienti dalle scuole di mestiere (Scuola d’Arte per la Tàrsia e l’Ebanisteria di Sorrento), dalle industrie vietresi (come la MACS di Melamerson per il Caffè Arabo del Padiglione Libia), o dalle «piccole ma fertili botteghe artigiane», come quelle della ceramica di Posillipo, «più libere nello stile e nelle iconografie rispetto alla retorica della plastica monumentale dominante» (Salvatori 2008, 81).
Come rilevato da diversi studi, gli organizzatori dell’evento, con il supporto del Sindacato Fascista delle Belle Arti, si avvalsero di una moltitudine di artisti il cui impiego si collocò su due livelli: quello della presenza diffusa nei diversi settori della mostra, come parte integrante della metodologia espositiva, come mezzo tecnico e soluzione comunicativa (gli artisti assolsero a un ruolo importante nella produzione e interpretazione simbolica dei temi dell’ideologia coloniale e dell’immaginario etnografico). E quello della loro presenza come fatto specifico, all’interno del Settore Storico (“L’Italia e l’Oriente”) e nella sezione Cultura (una mostra di pittura orientalista e una di arte coloniale).20
Per comprendere in che modo l’estetizzazione del messaggio politico riuscì a espletare la sua funzione persuasiva ed educatrice si ricorda che a partire dal 1934, con l’occasione della seconda Mostra coloniale di Napoli (allestita presso il Maschio Angioino) il governo fece di tutto affinché tra gli artisti si creasse una «coscienza coloniale»; questi ultimi, infatti, vennero puntualmente inviati «a dipingere in vari punti delle colonie italiane, in una presa di contatto diretta con una realtà differente da quella abituale.» (Biancale 1940: 54), Ed è proprio in virtù della nuova credibilità che investì l’attività di queste figure che l’evento partenopeo dedica all’arte il suo spazio specifico, presentando una Mostra d’arte Retrospettiva su “Le terre d’ Oltremare e l’ arte italiana dal Quattrocento all’ Ottocento” e una Mostra d’Arte Contemporanea. Nel primo caso – testimonia Michele Biancale – l’esperimento del ‘40 seguì «passo a passo quella precedente di Castelnovo […], con qualche apporto nuovo dovuto alla centuplicata importanza della Triennale d’Oltremare che ha permesso ricerche maggiori nel campo antico e recente.»[5] La Retrospettiva, organizzata da Bruno Molajoli e Giorgio Rosi, presentava più di 60 opere di artisti celebri della tradizione italiana. Una sezione specifica era, poi, dedicata agli “orientalisti” dell’Ottocento, tra i quali si trovano Cesare Biseo, Alberto Pasini, Stefano Ussi, Michele Cammarano, Giovanni Fattori, Domenico Morelli. L’orientalismo – osserva Dore –, concettualmente distinguibile dalla pittura coloniale, veniva rappresentato da oltre 300 dipinti e disegni, a dimostrazione delle «più o meno latenti tendenze espansionistiche dell’Italia.» (1992, 56). Il catalogo di questa mostra documenta la maggiore ricchezza di artisti e opere rispetto all’esperienza del ‘34.21 Su questo aspetto, le righe più interessanti del testo di Biancale sono quelle in cui si legge che all’esposizione del ‘40 furono ammesse «opere che non figurarono nell’altra Mostra [del 1934] perché forse si pensò che esse, eccetto per alcune […] fossero d’un oriente arbitrario.» (Biancale 1940, 54). Nella Mostra di arte contemporanea coordinata da Ugo Ortona, invece, comparivano affreschi dei più grandi artisti contemporanei italiani (restaurati) ma anche grandi affreschi dell’arte etiopica (Teatro civico), nonché una collezione di artisti moderni etiopi (Sezione Esercito).22
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Immagine 18: Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Settore Storico – Padiglione dell’espansione italiana in Oriente – Loggia dei bassorilievi. 1940. Archivio storico Mostra d’Oltremare S.p.A.
Immagine 19: “Ritmi africani”, scultura polimaterica di Enrico Prampolini; materiali vari. 1940 – Ristorante della Piscina. Foto: Alessandra Ferlito 2015.
Immagine 20: Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare – Torre del Partito Nazionale Fascista – Basamento – Decorazione scultorea ad altorilievo di Pasquale Monaco e Vincenzo Meconio (particolare); Foto: Federico Patellani; in Archivio Federico Patellani http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3g010-0014810/
Ulteriori testimonianze indiscutibili del ruolo e della funzione assunti dal’’arte nella costruzione dell’italianità sono rintracciabili nel Settore Geografico. Qui, insieme alla Mostra dell’Africa Orientale Italiana, come parte del Padiglione dell’Espansione Italiana in Oriente (progettato da Giorgio Calza Bini, fratello del commissario tecnico pocanzi citato) si trovavano la Sala delle Sculture e la Loggia dei Bassorilievi, dove a prevalere era il richiamo alla tradizione iconografica della Roma imperiale e l’evocazione del dispaly dell’archeologia occidentale. Nel Settore Storico, ad emergere per il forte impatto scenico è il cortile interno al Padiglione delle Conquiste coloniali, dove la visione di una scultura monumentale che omaggia la “Vittoria”, opera di Antonio De Vall, si sovrappone a quella dell’affresco di Oscar Grottini, di ispirazione futurista. Nel Settore Produzione e Lavoro, ancora, un enorme pannello espositivo accoglieva l’opera di Enrico Prampolini, il cui stile “avanguardista” risultò rispondere alle esigenze comunicative del Padiglione dedicato all’Elettrotecnica. Lo stesso artista, poi, fu impegnato nella realizzazione di un’altra decorazione “polimaterica” di grandi dimensioni: i “Ritmi africani” ancora visibili sulla facciata esterna del Ristorante della Piscina.23 Come aveva fatto nel Padiglione futurista della Esposizione di Parigi (1931), anche qui Prampolini riprende, «alla maniera dinamica e sintetica tipica del movimento futurista, delle figure che si richiamano agli elementi basici architettonici, mescolate a forme astratte e irregolari.». A queste figure e forme si sommano i «diversi cenni all’esotismo del tempo, con figure umane africane rappresentate con la tipica immagine stereotipica del black face.» (Gravano 2016). Nello stesso Settore, il Padiglione della Sanità, Razza e Cultura è decorato esternamente da Tommaso Cascella e internamente dagli affreschi di Vincenzo Ciardo e dalle sculture di Gaetano Chiaramonte (statue di “Minerva” e “Esculapio” nel portico d’ingresso). Stesso discorso vale per gli spazi al di fuori dei padiglioni e dei tre Settori principali. La Torre del P.N.F. progettata da Venturino Ventura, ad esempio, si reggeva su un basamento di laterizio decorato dagli altrorilievi degli artisti Pasquale Monaco e Vincenzo Meconio, autori anche della statua che omaggiava la “Vittoria fascista” – ornamento monumentale di una delle quattro facce della Torre. In generale, dunque, prese corpo in maniera massiccia l’utilizzo delle tecniche, la ripresa degli stili e l’adozione dei linguaggi che creavano un rimando immediato al passato glorioso della «stirpe italiana», o che presagivano un futuro di sviluppo e progresso.
Per concludere, l’approccio fortemente incisivo adottato dalla Mostra del ’40, fondato su esercizi di potere e pratiche di appropriazione, assoggettamento, manipolazione, sfruttamento, diventa la cornice teorica di una riflessione critica sul «multiculturalismo» di molte mostre che, ancora oggi, traducono e riducono la questione postcoloniale nella mera inclusione di artisti non occidentali entro il sistema dell’arte ‘internazionale’. In molti casi, seppure in modo inconsapevole, queste non fanno altro che continuare a colonizzare gli altri attraverso strategie che muovono da opposizioni dualistiche (coloniale/postcoloniale, white cube/black box, ecc.), dalle quali trapela il permanere del gusto per l’esotico, per il naïf, per il primitivo; così come la necessità di rintracciare i tratti di una identità autentica, su base nazionale e, quindi, razzializzante.24
1 Cfr. Pratesi, Ciglia & Pirozzi, 2015, pp. 63-68. Sull’argomento si vedano anche: Abbattista 2013, Arena 2011 e 2012, Celant 2004, Corgnati 2011, Gravano 2016, Labanca 1992.
2 La proclamazione dell’impero avviene il 9 maggio 1936, esattamente 4 anni prima dell’inaugurazione della Mostra. Il 5 maggio Benito Mussolini aveva annunciato la vittoria nella guerra d’Etiopia (iniziata il 3 ottobre 1935) con l’occupazione di Addis Abeba, guidata dalle truppe di Badoglio. Con il nuovo Impero nasce l’A.O.I., “Africa Orientale Italiana” comprendente i territori dell’Etiopia, dell’Eritrea e della Somalia, suddivisi in 6 governi: Scioa, Galla e Sidamo, Harar, Eritrea, Somalia e Amara, ciascuno con un Governatore e indipendenti in termini amministrativi. Il titolo di Imperatore d’Etiopia viene assunto per sé e per i suoi successori dal Re d’Italia, Vittorio Emanuele III di Savoia.
3 Cfr. Labanca 1992, pp. 1-6.
4 Il progetto di ricerca è dedicato alle “Prospettive postcoloniali nella curatela italiana” e si sta svolgendo nell’ambito del Dottorato in Studi Internazionali dell’Università di Napoli “L’Orientale”. I primi cenni dell’approccio critico adottato per l’elaborazione della tesi portante si trovano nel seguente articolo: Cianelli, A, Ferrara, B & Ferlito, A 2014, Archivi biologici/Archivi biografici, roots§routes, ANNO IV, n.14, maggio – luglio, https://www.roots-routes.org/?page_id=15890 (consultato il 5.10.2016).
5 Anziché analizzare le «singole opere o le singole architetture, o la bellezza o meno di queste», Gravano ritiene più interessante soffermarsi su «i presupposti teorici e concettuali generali da cui ha preso le mosse la manifestazione, e la loro concretizzazione in un display, che si propone come sospeso tra l’idea di museo, quella di parco divertimenti e quella di arena dei consumi, come era nel XIX secolo.» Cfr. Gravano2016.
6 Particolarmente indicativi sono i padiglioni contenenti le seguenti mostre: Mostra delle Conquiste Coloniali; Mostradella Conquista dell’impero; Mostra del Partito Nazionale Fascista; Mostra del Lavoro italiano in Africa; Mostra dell’Espansione italiana in Oriente; Mostra della Civiltà Cristiana in Africa; Mostra dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica; e ancora: Mostra della Cultura e Propaganda; Mostra della Razza. Stesso discorso vale per gli spazi riservati alle colonie in Africa, parte del Settore Geografio: Mostra dell’Africa Orientale Italiana, con il Cubo d’Oro e i “villaggi indigeni”; Padiglione Libia con Caffè Arabo.
7 Vedi Chambers, I e Curti, L 1997, La questione postcoloniale. Cieli comuni, orizzonti divisi, Liguori, Napoli. Per un approfondimento circa il ruolo che la politica coloniale affidò all’immagine, specie fotografica, si rimanda a: Chiozzi, P 1992, “Le immagini nelle esposizioni coloniali”, in N, Labanca (a cura di), L’ Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia. (a cura di), PAGVS Editore, Treviso, pp. 37-46; e Palma, S 2000, “Immaginario coloniale e pratiche di rappresentazione: alcune riflessioni e indicazioni di metodo, in Studi Piacentini, n. 28/2000, Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Piacenza, Piacenza, pp. 187-201.
8 Questo non significa necessariamente che tutti i soggetti coinvolti erano ufficialmente iscritti al partito fascista. Cfr Arena 2011.
9 Cfr. Salvatori 2008, p. 81.
10 Corgnati argomenta come nella fase di esordio del fascismo, in Italia si affermavano e scontravano «due nozioni opposte di stile e di bellezza.» Da una parte, il cosmopolitismo internazionalista promosso da Lionello Venturi, secondo la cui visione non-nazionale “l’arte non ha frontiere se non quelle poste dalla psiche e dall’anima dell’uomo”. Al polo opposto, il nazionalismo di Margherita Sarfatti: «un’outsider” nella società maschilista del tempo, nonché ebrea, appartenente alla intellighenzia ebraica più avanzata e cosmopolita, capace di veicolare una idea e una dimensione “moderna” senza perdere di vista la forma classica […] italiana per antonomasia.» Se Sarfatti dovette lasciare l’Italia in seguito all’emanazione delle leggi razziali del ‘38, lo storico e critico d’arte Venturi, fra i pochissimi professori a rifiutare di firmare fedeltà al regime, dal 1931 conobbe l’esilio in Francia – dove partecipò alla Resistenza e si occupò degli Archivi dell’impressionismo. Cfr. Corgnati 2011.
11 Sarfatti diventa coordinatrice, teorica e sostenitrice del movimento denominato “Novecento”. Il gruppo viene fondato nell’anno della Marcia su Roma con l’obbiettivo estetico di ripensare la classicità, intesa in un’accezione rinascimentale e plastica, attraverso la nozione stilistica della “sintesi”. Cfr. Corgnati 2011.
12 Cfr. Pratesi 2015.
13 L’approccio ‘finzionale’ e ‘performativo’ che caratterizza la Mostra d’Oltremare proviene da una pratica già sperimentata con i freak shows, ethnic shows e varie altre forme di spettacolo o esposizione che hanno segnato la storia della rappresentazione dell’altro a partire da metà Ottocento. Per un approfondimento si rimanda a: AA.VV. 2003. Zoo Umani. Dalla Venere Ottentotta ai reality show, ombre corte, Verona.
14 A proposito delle condizioni in cui si trovarono a operare gli artisti italiani durante il fascismo si veda De Micheli, M 2000, L’arte sotto le dittature. Feltrinelli, Milano.
15 In Capezzuto, R 2005.
16 Una delle prime descrizioni del percorso espositivo, ad esempio, racconta che “i tronchi scagliosi”, i grandi ventagli di foglie” che “si stagliano contro uno sfondo aperto di cielo, compongono una nobile architettura naturale” negli spazi tra la Mostra dell’Africa Orientale Italiana e quella della Libia. Cfr. AA.VV. 1940, 26.
17 Questo è ciò che avviene, ad esempio, nella “Nota tecnica” di Enrico Tellini, che nel curare un breve profilo storico-artistico della Mostra, sessanta anni dopo la sua costituzione, riconosceva quanto l’ampio insediamento, progettato e costruito dai più rinomati architetti dell’epoca, costituisse «nel suo insieme un’opera monumentale pregevolissima.» (1997, 17).
18 «Nella forma di tempera, di encausto o d’affresco vero e proprio essa ha […] esaurito il periplo dei motivi necessari a illustrare le finalità di tale enorme Mostra. Dalle evocazioni mitiche di Giulio Rosso per il padiglione Roma ai mosaici del Fabricatore per l’Arena è tutta una lunghissima serie di pitture murali che vanno dall’emblematica pura e semplice, dalla interpretazione di motivi notissimi del Quattrocento veneziano, dovuta a Guardascione e a Scorzelli nella sezione delle Repubbliche Marinare sino agli affreschi di Giovanni Brancaccio nei quali si esalta l’Impero di Roma e del Littorio.» Cfr. Biancale 1940, 56.
19 Cfr. Dore 1992, 56.
20 Ibidem.
21 Ortolani, S, Molajoli, B & De Filippis, F 1940 (a cura di), Le terre d’ Oltremare e l’ arte italiana dal Quattrocento all’ Ottocento, Edizioni della Mostra d’Oltremare, Napoli. Si veda anche: Molajoli, B & De Filippis, F 1941 (a cura di), La Mostra d’Arte Retrospettiva alla Triennale d’Oltremare. Catalogo. Edizioni della Mostra d’Oltremare, Napoli (stampato a Milano).
22 Cfr. Dore 1992, 56.
23 Enrico Prampolini (Modena, IT, 1894 – Roma, IT, 1956) aveva precedentemente lavorato alla realizzazione del padiglione futurista per l’Esposizione Internazionale di Torino (1928); all’allestimento e decorazione di alcune sale della Mostra della rivoluzione fascista di Roma (1932); al progetto per il Padiglione italiano della Esposizione di Chicago (1933); al padiglione per la V Triennale di Milano (1933), e a molte altre opere e interventi in Italia e all’estero. Dopo la Mostra d’Oltremare del 1940, è presente anche alla costruzione e progettazione dell’EUR di Roma (1942). Cfr. Crippa, M. A, Gavinelli, C & Loik, M 1993 (a cura di), Architettura del XX secolo. Jaca Book, Milano, p. 379. Tra gli studi storico artistici che commentano gli interventi di Prampolini per la Mostra d’Oltremare si vedano anche: Crispolti, E 1996 (a cura di), Futurismo e Meridione, Catalogo della mostra realizzata a Napoli, Palazzo Reale; dal 18 luglio al 31 ottobre 1996, Electa, Napoli.
24 Lo studio in corso avanzerà una comparazione tra pratiche curatoriali ed espositive contemporanee che si realizzano in Italia, nei circuiti indipendenti come in quelli istituzionali, a partire dalla Biennale di Venezia del 2015, diretta da Okwui Enwezor.
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Bibliografia
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Alessandra Ferlito. Curatrice indipendente e dottoranda in Studi Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”), è attualmente impegnata in uno studio interdisciplinare che unisce ricerca teorica e pratica curatoriale per registrare le Prospettive postcoloniali nella curatela italiana. È membro del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli; co-fondatrice del gruppo di ricerca Dizioni Diasporiche; membro del progetto Scuola Fuorinorma, di canecapovolto.