§Memorie Sottopelle
che cosa sa un corpo
Raising Voices.
Progetto di voci a Weimar
di Lucia Pievani

Voci

Domenica 9 aprile 1939. È la domenica di Pasqua.

Quell’anno la cantante Marian Anderson è scelta per le celebrazioni istituzionali statunitensi, e quel giorno la sua voce risuona nello spazio aperto davanti al Lincoln Memorial di Washington.

L’antefatto a questa esibizione vede l’interprete lirica afroamericana al centro di un dibattito nazionale:

le Daughters of the American Revolution (DAR) le avevano infatti negato il permesso di esibirsi nel DAR Constitutional Hall, in risposta alle lamentele di alcuni membri dell’organizzazione riguardo ai “posti a sedere misti”, poiché il pubblico, data la presenza di Anderson, sarebbe stato probabilmente etnicamente diversificato.

Il rifiuto delle DAR suscita una grande indignazione nell’opinione pubblica americana, tanto che la stessa Eleanor Roosevelt, allora First Lady, rassegna le dimissioni dall’organizzazione in segno di protesta.

Su richiesta di quest’ultima, si organizza dunque un concerto all’aperto sui gradini del Lincoln Memorial, durante il quale Anderson esegue l’inno America (My Country, ‘Tis of Thee). Davanti a lei si raduna una folla di oltre 75.000 persone, a cui si aggiunge un pubblico radiofonico nazionale di milioni di persone.

Raising Voices, card del progetto. Particolare del volto di Marian Anderson, tratto dall’opera Of Thee We Sing (2023) di Vanessa German. Disegno digitale di Lucia Pievani.

Venerdì 8 marzo 2024. È la giornata internazionale della donna.

L’urlo di una ragazza irrompe improvviso durante il convegno «Sostenibilità sostantivo femminile» nella sala stampa della Protomoteca in Campidoglio a Roma. Il grido si alza tra file di spettatori ed è subito seguito da un secondo urlo, di un’altra giovane donna: l’azione provoca spavento e sconcerto tra i composti spettatori dell’evento ufficiale che viene bruscamente interrotto fino all’allontanamento delle cause di disturbo.
Le voci appartengono al giovane movimento femminista Bruciamo tutto, che in quella giornata simbolica ha scelto di urlare il proprio dolore contro l’invisibilità sistematica dei femminicidi in Italia. Fino a quella data, infatti, se ne contavano diciotto nel tempo trascorso da quello di Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre 2023.
Una violenza di genere che è rimasta celata alla società dalla comunicazione e dal Potere, rei di spettacolarizzare la cronaca quando scelgono di narrarla e di portarla all’attenzione pubblica una tantum, spesso riducendola ad una questione privata (Butler, 2017).
Per queste ragioni il movimento Bruciamo tutto adotta il proprio urlo in segno di una dichiarata disobbedienza civile nonviolenta.
Due voci. Quella di Marian Anderson, lontana decenni da oggi, in un altro continente, e quella di alcune giovani donne, pochi mesi fa, in una sede politica italiana.
Due diversi tipi di espressione vocale: un canto e un grido, entrambi alti e passionali, consapevoli e spontanei. La preparazione, la tecnica e il padroneggiamento della propria portata canora da una parte, l’improvvisazione della potenza scatenata senza briglie delle corde vocali dall’altra.
Entrambi sono atti di potere e politici, perché si impossessano della forza e del volume necessari per denunciare in spazi pubblici questioni accomunate dal fatto di passare inosservate, di essere state silenziate (Irigaray, 1975).
Rompendo quel silenzio imposto dalle strutture di Potere, quelle due voci si trasformano in affermazioni di esistenza.

Nei confronti del Potere

Mi è difficile rimanere indifferente.
Vedendo donne che si impossessano di luoghi condivisi da tuttx, simboli per la rispettiva società, e che riescono nell’impresa di spingersi ben oltre ciò che il potere avrebbe loro consentito di esprimere in primis.

L’esibizione di Marian Anderson nell’aprile del ’39 era stata programmata: le istituzioni statunitensi, con la stessa First Lady in prima linea, avevano cercato il contributo della cantante per l’occasione.
Ciò che il DAR non aveva previsto è che, negandole l’accesso a un luogo chiuso, e dunque esercitando convinzioni razziste, si sarebbe finito per amplificare la voce di Anderson, conferendole una visibilità e un significato completamente diversi da quelli che avrebbe ottenuto cantando davanti a un pubblico limitato di spettatori. Proprio nel tentativo di reprimere, si finisce spesso per amplificare la voce di chi si tenta di silenziare (Foucault, 1975).
Il piazzale antistante il Lincoln Memorial è stato così trasformato, attraverso la sua voce, in un teatro di affermazioni identitarie, alla presenza di un pubblico diversificato e rappresentativo anche della comunità afroamericana.
L’evento ha avuto una tale portata nella coscienza collettiva della comunità nera, che nel 2023 l’artista visuale contemporanea e attivista Vanessa German ha dedicato a quel momento e a quello stesso luogo l’opera Of Thee We Sing. Si tratta di un monumento contemporaneo ricco di simboli, in cui Marian Anderson è innalzata a portavoce della comunità afroamericana e a sua rappresentanza nel luogo pubblico.

Vanessa German, Of Thee We Sing on the Lincoln Memorial Plaza. Photo by Steve Weinik, 2023.

Bruciamo tutto sposa, come nel caso precedente, una causa strettamente connessa all’attualità nazionale dei soggetti, ma la sua affermazione si situa in un contesto di rapporto con il potere ben diverso.

L’occasione dell’azione combacia proprio con un convegno per pochi, in una sala istituzionale, dove l’intervento delle attiviste non è atteso: il loro urlo interrompe e disturba il palinsesto dell’occasione ufficiale, per questo vengono scortate immediatamente e con insistenza all’uscita.

La non accoglienza del Campidoglio non si limita al rifiuto della presenza fisica delle attiviste, ma comprende anche l’inammissibilità del messaggio stesso dell’azione, e quindi un tentativo di silenziare pubblicamente la questione di fondo: la denuncia dei femminicidi.

Il potere, in questo caso, è stato costretto ad ascoltare un’affermazione non preventivamente approvata e mal accolta. Quello di Bruciamo tutto è stato un gesto di pochi minuti, che poteva passare inosservato, ma che i social media hanno poi amplificato, portando il messaggio fuori dalle mura del Campidoglio.

Attraverso un breve video sul profilo Instagram di Repubblica, anch’io assisto alla rivendicazione di Bruciamo tutto, e trovo in quell’urlo qualcosa di profondamente giusto.

Il volto di Marian Anderson diventa ai miei occhi il simbolo di tutte quelle narrazioni che faticano ad emergere all’attenzione collettiva e che sono successivamente da essa riconosciute e avvalorate. L’urlo di Bruciamo tutto è testimonianza concretizzata e acuta del fatto che nei nostri giorni c’è del dolore e che vuole essere ascoltato da tuttx, socialmente.

 

Progetto Raising Voices

I due eventi raccontati finora hanno offerto lo spunto per riflettere sugli spazi pubblici come archivi viventi della memoria collettiva.

Ciò che occupa lo spazio pubblico spesso passa inosservato a chi lo abita quotidianamente. Eppure, ogni elemento – dall’architettura degli edifici ai monumenti, dai nomi delle piazze e delle strade – contribuisce alla costruzione visiva e narrativa della storia e della cultura di un luogo, plasmando l’identità della comunità che lo popola. Per questo lo spazio pubblico non è mai neutro, ma palcoscenico per la manifestazione del Potere e di determinate ideologie (Lefebvre, 2023).

In questo contesto, i monumenti si ergono come materializzazioni visive di idee precise, diventando essi stessi abitanti delle città, incarnando simboli e valori umani, spesso monumentali e perenni nei materiali, ma non per questo immuni al cambiamento.

Questa riflessione ha coinciso con la mia partecipazione alla Spring School 2024 (marzo) presso la Bauhaus-Universität Weimar, in Germania, dove, come studentessa universitaria in visita, ho frequentato il corso Opening the Archive: Hidden Narratives Reinterpreted Creatively, tenuto dalle docenti Sophie Foster e Maria Paula Maldonado.

Intento primario del corso è stato quello di visitare e approfondire archivi materiali e digitali sia di Weimar che delle città di origine di ciascun membro della classe, scoprendo e sperimentando modalità creative per raccontarli.

È qui che ho sviluppato e curato il progetto Raising Voices, pensato come momento di creazione e partecipazione collettiva tra condivisione testuale e performance.

La considerazione che ha guidato il progetto è stata la seguente: se la città e lo spazio pubblico sono archivi della memoria collettiva, riusciamo a individuare le narrazioni che la abitano, ma quali invece mancano? Infatti, come ogni archivio in quanto luogo di potere, lo spazio pubblico è anche un luogo di esclusione (Derrida, 1996). Dunque, la sfida è stata chiedersi:

“Cosa è assente nello spazio pubblico che abitiamo? Quale narrazione dovrebbe essere viva e presente nella memoria e nell’attenzione di tuttx? Personalmente, c’è un argomento che mi ferisce, che mi fa arrabbiare, ma che passa ancora inosservato da molti?”

Raising Voices, concepito come un progetto partecipativo, ha posto queste domande ai visitatori degli Open Ateliers di venerdì 22 marzo a Weimar. Chi desiderava partecipare è stato invitato a scrivere su un ritaglio di carta – dai bordi strappati – la narrazione assente che percepiva nello spazio pubblico di provenienza o che aveva in mente.

Durante la durata del progetto si è creato un nuovo archivio, visibile e accessibile a tutti, contenente ventiquattro testimonianze sulle questioni più silenziate dalla collettività.

Raising Voices, foto del progetto. Open Ateliers (22 marzo 2024), Spring School 2024, Bauhaus-Universität Weimar, Weimar, Germania. Foto di Lucia Pievani.
Raising Voices, foto del progetto. Open Ateliers (22 marzo 2024), Spring School 2024, Bauhaus-Universität Weimar, Weimar, Germania. Foto di Lucia Pievani.

È stato interessante notare che, nonostante non fosse richiesta alcuna firma o riferimento esplicito personale, alcuni dei messaggi riportano il nome della Nazione di provenienza dei partecipanti: molti messaggi fanno riferimento alla stessa cittadina di Weimar, ma ci sono anche testimonianze da Grecia, Italia, Azerbaijan, Bulgaria. Ciò suggerisce che le questioni proposte abbiano spinto le persone a riflettere sulla loro realtà più familiare, sul luogo in cui vivono o sono cresciute. Forse sul posto a cui si sentono più profondamente connesse. 

Il progetto ha raccolto testimonianze da diverse società e culture, ma spesso convergenti su tematiche simili. Tra le più ricorrenti, l’essere donna in relazione alla sicurezza negli spazi cittadini e il desiderio di pari dignità tra i sessi.

Altri temi emersi sono stati: il verde e la natura nelle città, il rispetto della dimensione privata, il desiderio di vivere in una comunità più unita, la frustrazione di non essere riconosciuti professionalmente. Le condivisioni erano intrise di profonda partecipazione emotiva, sia quando si trattava di questioni collettive, sia quando toccavano corde personali.

Il piccolo archivio di Raising Voices ha raccolto denunce dell’apatia sociale, trascritto il testo di una canzone. Per una persona è stato anche il luogo per condividere l’esperienza di una malattia cronica e la sofferenza provata nell’incontrare poca sensibilità ed empatia da parte anche dei medici, nei confronti del proprio dolore.

Ogni calligrafia è stata espressione potente di una voce, grazie alla quale, a partire dalla storia di una persona anche l’altrx ha potuto conoscere e in qualche caso riconoscersi. Nella condivisione dell’archivio si è generata infatti una nuova, seppur ristretta, memoria collettiva che ha unito come collante invisibile quel piccolo gruppo sociale le cui voci vivono nel progetto.

 

Raise your Voice

Successivamente, ai partecipanti è stata avanzata una seconda proposta: si è data loro la possibilità, in un contesto di piena consapevolezza, di rompere il silenzio dello spazio dell’aula universitaria con un urlo. L’occasione di gridare è stata offerta come invito a ri-conoscere la propria voce, specialmente nel momento in cui esplicita il proprio sdegno e il proprio dissenso, nella durata e intensità in cui si voleva farlo.
È interessante notare che tutti gli urli siano stati gridati da donne, studentesse e docenti.
Due volte le partecipanti si sono accordate per gridare contemporaneamente: urlare insieme ad un’altra persona, un’amica in entrambi i casi, è stato incoraggiante.
Urlare da sole, invece, è stato percepito come disorientante e ha messo in difficoltà sul momento in cui iniziare, sul tipo di suono che si sarebbe emesso e sulla sua durata.
Anche se l’invito è sempre stato quello di focalizzarsi sul motivo dell’urlo, performare la propria voce nuda è stato un momento di grande vulnerabilità (Cixous, 1975): l’attenzione della stanza ruotava verso il corpo che era fonte del grido, la voce era stata rilasciata con la possibilità di essere udita da tutti.
Allo stesso modo, però, il grido è stato descritto da chi lo ha realizzato come momento potente di liberazione. Ha generato sollievo dalla fatica, coraggio di essersi esposte, felicità e fierezza di aver, con la propria voce, reclamato lo spazio e il diritto di esistere.
In totale, le grida sono state un quarto dei biglietti scritti. Ma l’obiettivo del progetto non era essere il destinatario di quelle urla, quando piuttosto lanciare un invito a esporsi e a far casino per portare alla luce la propria testimonianza, in qualsiasi contesto.
Molti partecipanti hanno preferito così raccogliere una piccola card reminder da tenere con sé con l’impegno di un’occasione futura per esprimere la propria voce, magari in un luogo personalmente significativo. Un lato della carta riporta un disegno, realizzato digitalmente, della bocca di Marian Anderson, porzione della foto utilizzata anche nell’installazione Of Thee We Sing (2023), mentre l’altra facciata del biglietto recita: “Raise Your Voice. We will listen to you.”

Così come, inizialmente, avevo sentito attraverso due donne l’urgenza di una questione, ho voluto creare, tramite questo progetto, uno spazio di esistenza di diverse storie: per altr*
da condividere e conoscere in forma testuale
da vivere come consapevolezza e come sconcerto, in forma di urlo di corpi.

La coscienza che si crea unendo le due sfere, non è solo mentale, di conoscenza e empatia, ma anche fisica. Se alcune narrazioni possono commuovere e smuovere emozioni forti, la potenza di un urlo che si verifica a pochi centimetri dal tuo corpo può penetrare nelle ossa, fino a far vibrare lo sterno.

La potenza della voce che afferma esistenza e desiderio di essere ascoltata genera una propagazione muscolare e scheletrica di compartecipazione nell’altrx.
Una compartecipazione che nasce a livello individuale e che socialmente ha il potenziale di diventare memoria collettiva rinnovata, capace di includere in sé tutte le istanze ancora silenti.
Il risvolto, la versione al negativo, di questa prospettiva, somiglia all’incubo raccontatomi da una partecipante al progetto:

“The fear of not being able to scream is part of many of my nightmares. Sometimes I would wake up in the middle of the night with the feeling that I no longer had a voice.”

Cosa succede nello spazio pubblico se non si urla? Cosa succede quando certe voci sono sistematicamente escluse da questa memoria e non ci si espone per mostrarle?
La mancanza di voce diventa una forma di assoggettamento (Foucault, 1975). Perché se il grido non risuona, lo spazio pubblico rimane sordo, incapace di accogliere la dissidenza.

Bibliografia

Butler J., L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’assemblea, Nottetempo, 2017.
Cixous H., Il riso della Medusa, Scritti per un corpo avvenire, Costa & Nolan, Milano, 1997.
Derrida J., Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, 1996.
Foucault M., Sorvegliare e punire. Einaudi, 1975.
Irigaray L., Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, 1975.
Lefebvre H., La produzione dello spazio, pGreco, 2023.

Lucia Pievani (Bergamo, 1997) si è formata nei suoi studi universitari tra Lettere e Arti Visive. Nel 2022 si è specializzata nel biennio di Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, attualmente sta conseguendo la Laurea Magistrale in Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Bergamo. Dal 2022 ha collaborato con varie realtà artistiche e culturali tra Milano e Bergamo, tra cui ReA!Arte, Contemporary Locus e il museo d’arte contemporanea GAMeC.