Tra i giochi d’infanzia d’ispirazione montessoriana, uno dei più conosciuti è la torre, composta da 10 cubi colorati decrescenti, il cui lato passa da 10 cm del più grande, a 1 cm del più piccolo. Una volta impilati, i cubi compongono una torre alta 55 cm.
La logica alla base dell’esperienza è quella di favorire l’accesso a una serie di concetti astratti: “grande-piccolo”, “pesante-leggero” e “vuoto-pieno”. È attraverso questi tipi di stimolo cognitivo, offerti dai giochi cosiddetti a “nidificazione”, che si apprende la relazione tra gli elementi, che se ne osservano le differenze. Giochi che permettono di sperimentare la disposizione degli elementi nello spazio, di ordinarli e classificarli: uno sopra l’altro, uno dentro l’altro.
E infine, è di fronte al pezzo mancante, andato perduto con il suo significato e il suo posto che l’individuazione della relazione funzionale tra gli elementi, la logica dell’ordinamento appare più complessa, impossibile e così il gioco risulta compromesso, rotto.
I differenti elementi superstiti appaiono allora insufficienti, incapaci per ricostituire uno tra i differenti modelli di organizzazione conosciuti, legittimi.
Per quanto si possa tentare di addomesticarli e ordinarli, il caos percepito, il vuoto, l’impossibilità di ristabilire relazioni significative, nuovi equilibri, determinano un sistema indesiderabile, uno scarto.
Così come i cubi della torre che una volta caduti a terra chiedono al bambino di fare ricorso a concetti astratti appresi o ancora da sperimentare, così un luogo abitato, un paese, una città, una comunità, con le sue stratificazioni relazionali, funzionali e simboliche, per sfuggire ai crolli e riparare le crepe provocate dai cataclismi (naturali o sociali), deve fare ricorso a nuove parole, nuovi punti di vista, nuove astrazioni.
Tra agosto 2016 e gennaio 2017, una serie di terremoti devastanti ha colpito un territorio molto ampio del Centro Italia: interi paesi con i loro abitanti, sistemi socio-economici, abitativi e relazionali sono stati rasi al suolo. Per le comunità colpite, superstiti, il disastro ha rappresentato la rottura tra il prima e il dopo terremoto.
A partire da quel momento si è imposta una nuova cronometria della temporaneità, legata all’emergenza, alla distanza, al ritorno, all’attesa della ricostruzione: un tempo non quantificato, spesso mistificato che, ancora oggi, tiene in ostaggio esistenze e progetti di vita di più di una generazione.
Nell’arco di questi sette anni, la popolazione ha sperimentato processi di infantilizzazione e di passivizzazione, di spoliazione della voice in cui la protesta è stata silenziata a vantaggio di narrazioni estetizzanti, funzionali a modelli di investimento predatori e da processi di victim blaming.
Il tempo sospeso, dilatato, ha rappresentato il tratto determinante della condizione degli abitanti, delle comunità, dei territori. Il presupposto di un accudimento paternalistico, calato dall’alto, imposto, ha influenzato tanto le traiettorie di vita degli abitanti quanto le effettive opportunità di guarigione dei luoghi e delle loro funzioni.
Le comunità sono state frazionate, implicitamente selezionate in base a profili anagrafici, condizioni di salute, caratteristiche economiche e lavorative, livello culturale, capacità di fare astrazione degli scenari futuri.
Le modalità di gestione dell’emergenza, l’assenza di attori intermedi, di percorsi di coinvolgimento della popolazione e di un patto tra istituzioni e comunità hanno agito come un setaccio sul capitale umano, amplificando vulnerabilità, allargando la forbice delle disuguaglianze preesistenti e alimentando nuove conflittualità e ostilità tra gruppi per la competizione nell’accesso alle risorse (economiche e materiali), non riuscendo a scongiurare le dinamiche di defezione e abbandono.
La retorica della “resilienza”, così come quella ancor più tossica del “rimboccarsi le maniche”, legata a presunti tratti di orgoglio attribuiti alla “gente di montagna”, ha oscurato i diversi profili di bisogno e la necessità e l’urgenza di interventi che mettessero le persone, le comunità e i luoghi al riparo.
Ancora oggi il percorso di ricostruzione vede la coesistenza di strutture abitative di emergenza, strutture temporanee per attività commerciali e servizi pubblici, cantieri e “zone rosse”, vere e proprie zone di esclusione in cui l’accesso alla popolazione è vietato e che, in alcuni paesi, rappresentano più della metà della superficie precedentemente abitata, attraversata.
La riconfigurazione degli spazi agibili, vivibili e funzionali ha seguito dinamiche molto differenziate tra un paese e l’altro, sia in ragione del differente livello di danneggiamento che della scarsa disponibilità di suolo, seguendo processi non sempre pianificati, molto spesso esito di un compromesso tra disponibilità, salubrità e sicurezza del suolo, esigenze di residenzialità della popolazione e interessi di pochi.
Buona parte dei servizi essenziali, delle attività commerciali superstiti (sopravvissute alla selezione determinata dai tempi di ripristino e dalle scelte imprenditoriali dei privati), i luoghi di culto e di socialità sono stati delocalizzati, ridefinendo sia le pratiche di fruizione degli spazi e dei luoghi che le dinamiche di incontro e relazione tra la popolazione, escludendo in molti casi i giovani, i più fragili e gli anziani.
Le piazze, le vie e i luoghi di incontro sono stati sostituiti da “spazi imprevisti”, interstizi che la popolazione non è ancora riuscita a risignificare e rifunzionalizzare simbolicamente.
La periferizzazione e l’anonimizzazione delle abitazioni, gli spazi lasciati vuoti e le demolizioni, hanno aggravato il senso di spaesamento e la perdita di appartenenza ai luoghi, determinando il forte rischio di ulteriori abbandoni, soprattutto da parte delle nuove generazioni.
L’impatto del terremoto e la grande variabilità delle traiettorie intraprese dalle persone nei propri percorsi di vita sono stati quindi l’esito ancora una volta imprevisto, ma forse prevedibile, dell’interazione tra queste variabili: il livello di danneggiamento, le caratteristiche demografiche della popolazione residente, la struttura socio-economica, l’allocazione delle dotazioni territoriali dei servizi essenziali ma anche di caratteri più strettamente socio-culturali, simbolici e affettivi come l’attaccamento ai luoghi, le reti di solidarietà, l’assenza di processi partecipativi che hanno aggravato dinamiche sociali già in atto nei territori colpiti (spopolamento, conflittualità, disaffiliazione, segmentazione) con le modalità standardizzate, e a volte ciniche, di gestione dell’emergenza e del processo di recovery.
La Sibillini Summer School è una iniziativa che nasce qui, in seguito al sisma e alle sue conseguenze, sui territori di quell’area che è stata da subito definita “cratere”. Uno spazio che necessita di essere curato e rimarginato più come una ferita che non disordinatamente riempito come una buca, una voragine.
Ed è per innescare questo processo di cicatrizzazione che il progetto (alla sua seconda edizione) si è rivolto ai più giovani, residenti e non residenti nei territori marchigiani, chiedendo loro di stimolare la produzione del tessuto connettivo necessario a collegare e sostenere altre parti sane del tessuto sociale, culturale ed economico, anche al di là delle tradizionali delimitazioni amministrative. Reinventare relazioni nuove e, come nell’opera di Maria Lai, “legarsi alla montagna”.
Cinquanta giovani persone – architetti, agronomi, sociologi, economisti, biologi, antropologi, artigiani, operai, contadini, falegnami, scrittori, grafici, illustratori, narratori, diplomati, neet, disillusi o sognatori in cerca di un’occasione per esprimersi, contribuire, progettare – che hanno trascorso intere settimane di residenza, attraversando boschi, paesi, storie, persone, fragilità, casette d’emergenza e “zone rosse”. Un’incursione di occhi, sguardi e sensibilità differenti per individuare le traiettorie di un territorio del quale si è parte, o si è stati parte per un tempo limitato, per trasfigurare percorsi già tracciati, troppo spesso da distanze siderali e per individuare percorsi che siano resistenti ai mutamenti rapidi degli interessi speculativi, senza l’ambizione però di essere strategia, soluzione o miracolo.
Nella prima edizione della Sibillini Summer School, la lana e il legno sono stati gli elementi di partenza attraverso i quali costruire un’alternativa, un rifugio, certamente più simbolico che funzionale, ma espressione di una forza di germinazione vitale che si interroga sulla relazione tra gli elementi della natura e dell’umanità immersa nella natura, alla ricerca di un equilibrio possibile e sostenibile che non sia il risultato di una classificazione gerarchica, verticale ma di una visione orizzontale, in cui umani, animali e vegetali possano ristabilire qui, tra le crepe delle case e della terra, un’alternativa non competitiva ma cooperativa.
Nella seconda edizione ci siamo invece concentrati sugli spazi domestici, sui luoghi della comunità e sugli spazi naturali per tentare di delineazione di un modello di welfare di prossimità, di vicinanza, che faccia della permeabilità e delle connessioni tra i luoghi gli strumenti per ricostituire una relazione simbiotica di cura tra l’umanità e la natura.
In ogni edizione della Summer School, un gruppo di studenti si è dedicato alla realizzazione di “Naviganti d’Appennino”, una rivista edita da Hacca edizioni e nata dalla necessità di raccontare un territorio immaginandone i futuri possibili, distaccandosi dalla sola narrazione storica o antropologica per sconfinare nella visione. Attraverso racconti finzionali, reportage narrativi, fumetti, illustrazioni, fotografia, la rivista è una ibridazione tra diverse forme narrative per trasfigurare l’Appennino e costruire una mappa del territorio, non più cartografica ma semmai psico-geografica, sociale emotiva.
Il primo numero è Chirocene e rappresenta il tentativo di nominare un’epoca e un tempo sospeso attraverso narrazioni magiche e fantastiche per provare a contrastare la paralisi della catastrofe. Storie individuali che diventano il punto di partenza per ricominciare a ragionare come collettività.
Carezza è il titolo del secondo numero, a breve in uscita in libreria, e illustra le storie, le fragilità ma anche i desideri e le aspirazioni di Silvana, Delia, Gabriella, Fernando e Irminio: cinque persone, cinque abitanti, cinque biografie ricostruite per interrogarsi su come vivere bene nelle aree interne e montane, anche quando l’età avanza e gli eventi della vita ci pongono di fronte a sfide inattese. La scelta stilistica e grafica di Carezza scaturisce dalla necessità di ridurre il “rumore” generato dalle narrazioni estetizzanti e spesso stereotipate che riguardano la montagna, le aree interne, i suoi paesi e i suoi residenti. Parole d’ordine che lasciano poco spazio ai bisogni, ai desideri e alle aspirazioni di quante e quanti, per volontà o necessità, in questi luoghi vivono, sperano e amano.
Una rivista in due colori che, attraverso un gioco d’infanzia, una piccola magia, conserva il blu delle vite, delle comunità e elimina le “zone rosse” che scomparendo suggeriscono una strategia per restare e essere pienamente cittadini. Una prospettiva sinestetica della cura delle comunità, dei luoghi e del territorio, arricchita dalla possibilità di affidarsi all’ascolto delle voci raccolte in una serie di 32 podcast dal titolo “Voci Sibilline. Fatti, storie e altri suoni raccolti sui Monti Sibillini” e 5 puntate speciali “Le cinque carezze” curate dai partecipanti della scuola con la guida di Valerio Millefoglie.
Il caso del pulmino – “Voci Sibilline. Fatti, storie e altri suoni raccolti sui Monti Sibillini”
Carezza Fernando – Voci Sibilline. Fatti, storie e altri suoni raccolti sui Monti Sibillini”
Sibillini Summer School è stata e speriamo sarà ancora, in futuro, quell’occasione per guardare ai pezzi della torre, ora a terra, scomposti, alcuni persi per sempre, per immaginare nuove forme di costruzione e sperimentare classificazioni il cui senso non appaia più per contrasto ma attraverso l’individuazione di legami di risonanza, in cui i soggetti entrando in contatto si influenzano e trasformano reciprocamente.
Sibillini Summer School 2021 #pillola5
Sibillini Summer School 2021 #pillola1
Sibillini Summer School 2023 #pillola2
Sibillini Summer School 2023 #pillola1
Sibillini Summer School è un’iniziativa promossa da COOSS Cooperativa Sociale in collaborazione con Scacco Matto Onlus, Bosco di Mambrica, Radeche Fonne, Ambito Territoriale Sociale 17, Ambito territoriale sociale 16 e Ambito Territoriale Sociale 18. Il progetto è finanziato dalla Regione Marche e dal Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio Civile Universale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.