Pellegrinaggio
Fai un viaggio, vai in giro.
Vai nelle città da poco bombardate
per vedere quel che resta nelle macerie,
frammenti bruciacchiati e cose ancora intatte.
Statue, cortili, uno strato di colore,
piazze dove la gente è bruciata o passeggia ancora,
mosaici, reliquie nelle cripte,
sacrari, biblioteche, manoscritti illuminati.
Vai a Baghdad e guarda cosa resta
degli albori della civiltà,
a Bamiyan per ricomporre nella tua testa
i buddha giganteschi di arenaria
dai cui bozzoli vuoti
volavano le farfalle dello spirito.
Vai a Madrid dove Goya ancora accusa,
guarda le torri abbattute di New York,
Mogadiscio e Beirut devastate.
Poi se ti riesce fa un viaggio a ritroso nel tempo
nell’antica Bisanzio e ad Alessandria.
Attraversa i deserti dei boscimani e i tumuli aztechi
tra il mormorio dei ricordi nel sole.
Sempre più vicino, finché qualcuno ancora ricorda i dettagli,
vai fino a Coventry, Varsavia, Dresda,
Amburgo e Hiroshima,
poggia i piedi sulle impronte dei morti.
E poi avanti veloce con in mano una guida
verso città non distrutte.
Vai subito. In luoghi che respirano
ancora cumuli di amore e di potere,
dove la linea di un disegno,
lo scorcio di luce su un edificio,
la pressione di una parola su una pagina
il suono creato dallo sfregamento,
cose fatte a mano, ricostruite dall’occhio e dall’orecchio,
ancora non sono state dimenticate, cancellate.
Pilgrimage
Take a trip, take a tour.
Go to newly bombed cities
to see what remains in the rubble,
scorched fragments or things saved whole.
Statues, courtyards, a wash of painting,
piazzas where people burned or still stroll,
mosaics, reliquaries in crypts,
holy sites, libraries, illuminated scrolls.
Visit Baghdad to scan what’s left
of the beginnings of civilization,
Bamiyan to reassemble in your mind
giant sandstone Buddhas
from whose empty cocoons
flew the butterflies of the spirit.
See Madrid where Goya still accuses,
view the flattened towers of New York City,
ravaged Mogadishu and Beirut.
Then if you have time make a backward journey
to ancient Byzantium and Alexandria.
Traverse Bushman deserts and Aztec mounds
where memories hum in the sun.
Closer and closer, while some still remember the detail,
travel to Coventry, Warsaw, Dresden,
Hamburg and Hiroshima,
place your feet in the prints of the dead
And then fast forward with your guide book
to cities undestroyed.
Go now. To still breathing
places of accumulated love and power,
where the line of a drawing,
an angle of light on a building,
a word’s gravid pressure on a page
the sound of a ribbed instrument,
things made by hand, remade by eye or ear,
have not yet been been forgotten, razed.
Offerta votiva
Al crepuscolo
le ombre della strada
sono alte e sottili e restano in silenzio.
I venditori della città sono tornati a casa.
E adesso sono diventati
solo mariti e mogli,
finiti gli scambi di danaro.
Le ombre di Volterra
sbattono leggere
nella lieve brezza primaverile.
Le avranno viste forse
i mercanti etruschi che si affrettavano a casa,
specialmente quello che scolpì
il bronzo Ombra della sera
con la sua misteriosa immaginazione.
Al museo ci dicono
che la figura potrebbe essere un dio,
che forse prometteva
fertilità e covoni di frumento
alla flotta di Scipione.
Oppure era solo un amico di famiglia,
umile protettore del focolare.
Ora composta e silenziosa
in una teca di vetro,
muta sul suo significato
la sua forma allungata
ancora infesta le strade,
gettando un’ombra al crepuscolo,
e sgombra la mente, riempiendola
della pesante tristezza di una storia lacunosa.
Votive offering
As twilight falls
the shadows in the street
are long and slender and do not speak.
The town’s vendors have gone home.
Changelings themselves,
they are now husbands and wives
and no money changes hands.
The shadows of Volterra
whip themselves lightly
in the slight spring breeze.
They might have been seen
by Etruscan traders hurrying home,
especially the one who shaped
bronze Ombra della sera
to his cryptic imagination.
In the museum we are told
the figure may have been a god,
may have promised
fertility and sheaves of wheat
to the Scipio fleet.
Or simply was a household friend,
humble protector of the hearth.
Now poised and silent
in a glass case,
mute about its meaning,
its elongated form
still haunts the streets,
casts a shadow at twilight,
and empties the mind, fills it
with reticent history’s iron sadness.
Casa Rembrandt, Amsterdam
Incisione a punta secca: cane che dorme
Come previsto, autoritratti,
volti solenni e turbanti.
Anche da giovane, il suo sguardo interiore
posseduto da luce e ombra.
Altri borghesi corpulenti,
più di un Giacobbe che lotta,
e scale, tetti di paglia, salici potati,
verticalità in un paesaggio piatto.
Ma imprevisto in un angolo buio,
questo cucciolo addormentato
ai piedi di una scala o di un letto.
La fedeltà incisa nella fiducia animale,
la forma raccolta del cane, il suo respiro leggero,
i sogni di un cucciolo vecchio di quattrocento anni.
At the Rembrandt House, Amsterdam
Dry-point etching: slee ping dog
As expected, self-portraits,
magisterial brows and turbans.
Even when young, his inward gaze
possessed by light and shadow.
Other fleshy burghers,
several struggling Jacobs,
and ladders, thatch, pollarded willows,
height in a flat landscape.
But unexpected in a dark corner,
this sleeping puppy
at the foot of the stairs or bed.
Tender fidelity etched into animal trust,
the dog’s curled form, his soft breathing,
his puppy dreams four hundred years old.
Ridateci le statue
Nessuno abita più a Verwoerdburg e a Triomf.*
Sono cambiati i nomi,
le statue dei capi del passato
spostate altrove o vendute agli stranieri.
Ricordate il fiato mozzo, la gioia perfetta:
(nel film della memoria in bianco e nero)
l’architetto dell’apartheid che pende
in cima a un verricello su una gru?
Ci dicono che è stato trasferito
in un garage di Bloemfontein
dove le statue scheggiate dei suoi amici
lo guardano sconsolate.
Com’è facile, dopo tutto
eliminare un mondo,
cancellare una linea storta
e cominciare da capo.
Ma il ricordo di un poliziotto in divisa,
i baffi come un cane al guinzaglio –
non perdiamolo, o cominceremo a credere
che le guglie della DRC fossero aghi da rammendo**.
E non dimentichiamo i cancelli delle ville, il ringhiare dei cani,
la doppia entrata degli uffici postali e della rivendita di liquori.
Se mettiamo all’asta i bottoni delle statue
potremmo dimenticare il cappotto monumentale.
Rimettiamo a posto Verwoerd
all’angolo di una strada come una vescica sulle labbra;
passiamogli accanto, lui e il suo cappello in forma,
lasciamo che il traffico gli passi tra le gambe
sue e dei suoi compari di pietra e acciaio.
*Triomf, quartiere residenziale per soli bianchi alla periferia di Johannesburg, creato dal governo dell’apartheid negli anni sessanta sull’area rasa al suolo della township di Sophiatown.
Verwoerdburg, ex-township tra Pretoria e Johannesburg, così rinominata dopo l’assassinio del Primo ministro Hendrik Verwoerd, l’architetto dell’apartheid, nel 1967. Dal 1995 il nome della città è cambiato in Centurion.
** Sigla della Dutch Reformed Church, che aveva sostenuto il governo dell’apartheid.
Bring the statues back
Nobody lives in Verwoerdsburg or Triomf anymore.
Names have changed,
some chiseled leaders of the past
now relocated or sold to foreigners.
Remember the gasp, the sheer delight:
(in memory filmed in black and white)
apartheid’s architect a dangling man
at the end of a winch on a crane?
We hear he then was moved
to a garage in Bloemfontein
where his chipped statue friends
gaze at him disconsolately.
How easy, after all
to remove a world,
to erase a crooked line
and start again.
But the memory of a belted policeman,
his moustache like a dog on a leash –
let’s not lose that, or we’ll begin to believe
DRC church spires were darning needles.
And let’s not forget suburban gates, dogs barking,
the duplicity of post-office and liquor store.
If we auction the statue’s buttons
we might forget the monumental overcoat.
Let’s put Verwoerd back
on a public corner like a blister on the lips;
let’s walk past him and his molded hat,
direct traffic through his legs,
and the legs of his cronies of steel and stone.
Ingrid de Kok nata nel 1951 a Stilfontein, nei pressi di Johannesburg, studia all’Università di Cape Town e partecipa attivamente al movimento anti-apartheid. Dopo la laurea si trasferisce in Canada, dove consegue un dottorato in letteratura inglese e vive anni importanti per la sua formazione artistica e intellettuale. Ma il ritorno in Sudafrica diventa a un certo punto necessario: le manca il suo ambiente naturale e le manca il lavoro politico. Si stabilisce a Cape Town, dove dirige un programma di educazione per adulti presso l’università, e dove tuttora vive. Nel 1988 comincia a pubblicare poesia, cinque raccolte nell’arco di trent’anni.
Giustamente famosa per le poesie dedicate alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC), istituita dal vescovo Desmond Tutu e da Nelson Mandela per denunciare le ripetute violazioni dei diritti umani sotto l’apartheid, Ingrid de Kok ha tuttavia nelle sue corde un’ampia gamma espressiva che non si esaurisce con la voce ‘civile’. A conferma della sua opera come testimonianza lirica tra le più significative della poesia sudafricana in lingua inglese, il volume antologico Seasonal Fires, pubblicato nel 2006, con un’ampia scelta dalle raccolte precedenti, che mostra una grande ricchezza di forme e temi, tra cui spiccano l’osservazione della natura e del paesaggio, l’attenzione ai bambini e agli animali, la riflessione sulla poesia e l’arte.
Nel 2008 è apparsa la prima traduzione italiana, Mappe del corpo (a cura di Paola Splendore, Donzelli), da cui sono tratte le poesie ‘Ridateci le statue’ e ‘Pellegrinaggio’, mentre ‘Offerta votiva’ e ‘Casa Rembrandt, Amsterdam’ appartengono alla raccolta ancora inedita in Italia, Other Signs (Kwela 2011).
Paola Splendore ha insegnato letteratura inglese nelle Università “L’Orientale” di Napoli, l’Università di Viterbo e di Roma Tre. Ha curato e tradotto molte antologie di poeti contemporanei, tra cui Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana (con Jane Wilkinson, Le Lettere 2011) e per la collana di poesia dell’editore Donzelli: Sujata Bhatt, Il colore della solitudine (2005), Ingrid de Kok, Mappe del corpo (2008), Karen Press, Pietre per le mie tasche (2012), Moniza Alvi, Un mondo diviso (2014), e Philip Schultz, Il dio della solitudine (2018).