Introduzione
In questo contributo si intende prendere in considerazione la trasmissione e divulgazione di memorie personali e familiari.
Si prenderanno pertanto in esame le attività di due associazioni culturali che a ciò si dedicano da alcuni anni.
La prima: Progetto Memoria, gruppo creato nel 2003 dal Centro di Cultura ebraica di Roma e dalla Fondazione CDEC di Milano, con il preciso scopo di assistere i reduci e i testimoni negli interventi nelle scuole.
La seconda: Arte in Memoria che dal 2010 ha portato in Italia il progetto artistico delle pietre d’inciampo ideate dall’artista Gunter Demnig.
La memoria della Shoah e delle persecuzioni antiebraiche in Italia è rimasta spesso confinata alle pareti domestiche; ne è in parte uscita con l’istituzione per legge del Giorno della Memoria e la conseguente organizzazione di manifestazioni nelle scuole.
Rifuggendo da vuote celebrazioni, l’attività di Progetto Memoria ha riguardato anche la trasmissione di memorie familiari alle seconde e terze generazioni, coinvolgendo quindi figli e nipoti di testimoni, non solo reduci dai Lager, ma soprattutto coloro che si sono salvati. Le testimonianze sono spesso integrate da documenti familiari, fotografie, diari. Andare a raccontare nelle scuole significa instillare consapevolezza e suscitare interesse nella condivisione di storie di vita.
L’opera dell’associazione Arte in Memoria si sviluppa in un perfetto intreccio tra memoria privata e memoria pubblica: la richiesta di installare le pietre d’inciampo, definite da Adachiara Zevi (presidente dell’associazione) “monumenti per difetto”, parte infatti, nella maggior parte dei casi dai parenti dei deportati. Si tratta di qualcosa di unico rispetto a monumenti e memoriali, per discrezione e assenza di retorica; vi si inciampa casualmente e si è stimolati a riflettere e interrogarsi su ciò che è stato. Allo stesso tempo, una volta installate, le pietre d’inciampo diventano parte integrante del tessuto urbano e patrimonio pubblico insieme alle storie di vita dei deportati che sono ricordate dai familiari e infine raccolte nel sito web di Arte in memoria.
Nell’operato di entrambe le associazioni, ciò che costituiva oggetto di una memoria e di un dolore privati diviene quindi patrimonio della collettività.
L’introduzione per legge del Giorno della memoria [1] e l’invito ad organizzare eventi e celebrazioni ha dato considerevole impulso ad un fenomeno che già dagli anni ’90 stava prendendo terreno, in particolare per fare fronte ad episodi di antisemitismo e affermazioni di negazionismo e cioè l’incontro con gli alunni delle scuole. «La ricorrenza [del 27 gennaio] è stata apprezzata e si è radicata, costruendosi uno spazio autonomo rispetto alle feste civili nazionali e marcando una vitalità diffusa, superiore a quella di molti “giorni memoriali” successivamente istituiti» (Sarfatti, 2022, p.13).
Molto, fino a quel momento era rimasto decisamente relegato all’interno della memoria familiare, dischiuso solo gradualmente a partire dagli anni ’80, per molte famiglie che avevano subito perdite inaffrontabili.
Inoltre, «l’esperienza di chi era passato attraverso il lager non era simile a nessun’altra e il peso della memoria era difficile da sostenere; ancor più da trasformare in un possibile racconto o elaborare in una lezione di storia e di vita civile» (Barberis, 2019, p.10). Al contrario di quello che era accaduto per la Resistenza, la cui celebrazione portava gli ebrei a riappropriarsi di quell’essere italiani che era stato loro espropriato, prima attraverso la persecuzione dei diritti, con l’emanazione, il moltiplicarsi e il protrarsi delle leggi antiebraiche fasciste e poi con la persecuzione delle vite dopo l’occupazione nazista.
Sentirsi uguali e ricostruire, buttandosi alle spalle quello che era stato, a volte senza sapere, neanche poter immaginare cosa fosse stato dei loro cari, cercati per molti anni ancora dopo la fine della guerra. Questo fu il sentire comune di molte famiglie, accompagnato comunque dalla pubblicazione di libri e diari, basti citare solo Se questo è un uomo di Primo Levi o il diario di Anne Frank e le sue riduzioni teatrale e cinematografica.
L’elaborazione della memoria di questi avvenimenti in Italia e i percorsi culturali e intellettuali che l’hanno accompagnata sono ben descritti da Robert Gordon nel suo libro del 2010, Scolpitelo nei cuori, con un’analisi puntuale degli sviluppi politici e sociali che hanno caratterizzato oltre mezzo secolo di vita italiana.
Una delle traiettorie a lunga gittata delineate da questo libro è la diffusione, irregolare e discontinua, della consapevolezza dell’Olocausto in Italia, partita dalle vittime, dai familiari e dalle loro associazioni per poi estendersi verso la cultura e la società in senso lato.
Questo passaggio da una conoscenza di prima mano a una di seconda mano, da coloro che videro a coloro che potevano solamente immaginare, è una delle dinamiche fondamentali – e in continuo rinnovamento – all’interno del campo della cultura dell’Olocausto nel corso di numerose generazioni del dopoguerra. E lungo i percorsi di questa storia di trasferimento dinamico, i significati, le forme e gli utilizzi dei discorsi sull’Olocausto passano attraverso profondi cambiamenti (Gordon, 2013, p. 161).
Le scuole sono state parte integrante e fondamentale di questo processo, in quanto luoghi di elezione per iniziative di vario genere, le più rilevanti delle quali hanno riguardato proprio gli incontri con i testimoni e i sopravvissuti ai Lager, che hanno “aperto” a bambini e adolescenti i loro ricordi, a volte facendoli letteralmente scorrere come fiumi in piena verso coloro che finalmente erano disponibili ad ascoltarli. E hanno così contribuito in modo determinante al passaggio della memoria, non solo attraverso le generazioni, ma dalla dimensione privata e familiare a quella pubblica e mediatica.
Osservatori utili a comprendere e analizzare i cambiamenti avvenuti nel ventennio trascorso dall’istituzione del Giorno della Memoria sono state due associazioni, o meglio due gruppi di lavoro, Progetto Memoria e Arte in memoria, che condividono non a caso la parola memoria e hanno avuto più occasioni di condivisione, pur con modalità e intenti che possono sembrare diversi.
Progetto Memoria
L’idea di un ufficio che desse supporto agli ex deportati negli incontri con gli studenti, per fare fronte alle richieste che si prospettavano già numerose, era nata all’inizio degli anni 2000, da Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz ed Enrico Modigliani, molto attivo nelle istituzioni ebraiche.
L’intento era quello di rilevare, soprattutto per Roma e Centro-sud, il lavoro già avviato dal Centro di Cultura ebraica di Roma e dalla Fondazione CDEC di Milano, inserendosi nel movimento creato dall’emanazione della legge sul GdM e a partire dal gruppo che faceva capo proprio al Centro di Cultura.
Se pure enti locali o associazioni come l’ANED avevano già organizzato viaggi ad Auschwitz– Birkenau già negli anni ’90 ed era per esempio uscito il documentario “Memoria” di Ruggero Gabbai [2], in cui deportati ebrei italiani raccontavano la loro storia, proprio a partire dal 2003, anno di fondazione di PM, la richiesta di ascolto di racconti e memorie era aumentata vertiginosamente. Molte sono state allora le persone che si sono attivate, portando alla luce il proprio bagaglio di memorie familiari, per trasmetterlo e tramandarlo soprattutto agli alunni delle scuole.
L’attività di Progetto Memoria, che ha potuto contare attraverso gli anni su oltre quaranta volontari, che hanno percorso l’Italia, fino alle località più sperdute e distanti, in particolare al Sud, si è mossa lungo due linee convergenti: l’attività dei testimoni e la collaborazione con il mondo della scuola. Di anno in anno, c’è stato l’apporto di persone diverse, non solo di Roma, ma il nucleo portante del gruppo è rimasto per molti anni sostanzialmente lo stesso, costituito sia da sopravvissuti ai Lager, che da coloro che si erano salvati dalla deportazione, ma avevano comunque vissuto la persecuzione.
Molto è già stato detto rispetto al fatto che, quando ci si rivolge a un pubblico in ascolto, si stabilisce un sentimento particolare e significativamente emotivo tra chi racconta e chi ascolta. Le dinamiche sono differenti a seconda di dove ci si trova, ma è un dato di fatto che molti dei testimoni, (almeno fino a che è stato possibile), sono stati richiamati di anno in anno negli stessi luoghi e nelle stesse scuole, creando profondi legami e creando una sorta di “appartenenza”.
Ciascuno è andato agli incontri portando il proprio bagaglio di memoria, le proprie inclinazioni, la propria impostazione. Sono stati anni densi, interessanti, coinvolgenti, pieni di incontri, scambi, di esperienze, scoperte di realtà lontane e poco conosciute, viaggi, (a volte avventurosi), durante i quali i contatti e gli interventi nelle scuole si sono moltiplicati fino a raggiungere la cifra di circa 30.000 persone coinvolte ogni anno. Questo è durato fino all’epidemia da Covid-19, quando comunque la tecnologia ha potuto fornire mezzi idonei per proseguire l’attività.
Internet ha inoltre contribuito a moltiplicare la diffusione a dismisura di video di incontri nelle scuole. Il problema che si pone, però, ormai da alcuni anni riguarda la “fisiologica” scomparsa dei testimoni e la domanda alla quale rispondere con urgenza è se la trasmissione della memoria familiare a figli e nipoti sia ancora in grado di suscitare e mantenere interazione ed emozione e in che misura.
Memorie d’inciampo a Roma
Il progetto artistico delle pietre d’inciampo (Stolpersteine) dell’artista tedesco Gunter Demnig è arrivato in Italia nel 2010, a opera dell’associazione Arte in memoria, che fa capo ad Adachiara Zevi, ideatrice e curatrice della omonima biennale di arte contemporanea, che si svolge presso le rovine della sinagoga di Ostia Antica.
Denominato Memorie d’inciampo a Roma, si svolge tutti gli anni a gennaio, ma implica un grande lavoro organizzativo e di ricerca nel corso dei mesi precedenti.
Le pietre d’inciampo, sampietrini di ottone in memoria di tutte le vittime del nazifascismo, sono un esempio di “monumenti per difetto”, come definiti dalla stessa Zevi (2014) e costituiscono allo stesso tempo un perfetto intreccio tra individuo e collettività, tra memoria privata e memoria pubblica. Infatti, «la richiesta di installare i sampietrini parte dai parenti dei deportati; il costo della realizzazione è a loro carico. A installazione avvenuta però, ciò che costituiva oggetto di una memoria e di un dolore privati diviene patrimonio della collettività».
«Gli Stolpersteine sono tutti uguali. Come le lastre tombali al Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, additano un tragico destino comune. Ma gli Stolpersteine sono anche tutti diversi, perché dedicati ai singoli deportati. Restituiscono dignità di persona a chi è stato ridotto a numero, offrono un luogo dove ricordare chi è finito in cenere o in una fossa comune» [3].
Non è un caso che tra le prime pietre installate a Roma ci siano state quelle richieste, per i loro familiari scomparsi, da due instancabili testimoni, Piero Terracina e Alberta Levi Temin [4]: le loro memorie, divenute già da anni pubbliche e condivise, sono così entrate anche “fisicamente” nel tessuto cittadino. Hanno riportato “a casa” coloro che ne erano stati brutalmente allontanati per non farvi più ritorno, per citare le parole della stessa Alberta.
Il progetto di Demnig si è quindi diffuso in tutta Italia, letteralmente propagandosi da Roma a nord e a sud, e le pietre, nel caso in cui non ci fossero familiari, sono state anche commissionate da associazioni come l’ANED, l’ANPI, l’ANEI, da istituti storici e culturali, da scuole, da semplici vicini di casa.
Piccole cerimonie spontanee hanno avuto luogo in occasione delle pose, con il coinvolgimento delle istituzioni e grande partecipazione delle scolaresche, momenti musicali e letture, ma quello che ha creato maggiore emozione sono stati gli interventi dei familiari, che, se è stato possibile, hanno ricostruito storie di vita, ritrovato fotografie e documenti, condividendoli con i partecipanti e mettendoli a disposizione di Arte in memoria per la pubblicazione nel sito web. In alcune occasioni è stato molto significativo che fossero presenti più generazioni.
Tutti gli anni, gli studenti dell’Istituto Cine-TV “Roberto Rossellini” di Roma hanno realizzato una ricca e pregevole documentazione fotografica in parte inserita nel sito di Arte in memoria.
È successo che gli Stolpersteine siano stati imbrattati, profanati o addirittura divelti, ma la risposta dei cittadini romani e delle istituzioni è stata ferma, tempestiva e di massa, con presidi e manifestazioni che hanno raccolto centinaia di persone, a testimoniare come le pietre – certo – ma soprattutto i nomi e le vite che esse rappresentano siano parte fondamentale dei quartieri e della città.
Per concludere
Per definire quanto accaduto agli ebrei in Europa nella persecuzione nazifascista ci è voluta una parola, Shoah, che già esisteva ed era utilizzata nella lingua ebraica, ma che negli ultimi decenni ha soppiantato, almeno nell’italiano, l’inadeguata Olocausto.
Catastrofe/tempesta che ha coinvolto tutte le famiglie ebraiche, in misura maggiore o minore, ma senza esclusione e, come per tutte le catastrofi, molto tempo è stato necessario per la sua narrazione e molto tempo ancora perché si cominciasse a considerare la sua memoria un valore della società civile, al di là della negazione o diminuzione. Soprattutto, perché non rimanesse confinata unicamente tra le pareti di case ebraiche. Piero e Alberta, pilastri di questa memoria e che ci sono particolarmente cari, non ci sono più, ma grazie a tutti quelli come loro, le ultime generazioni di studenti hanno potuto contare su un bagaglio solido, grazie alle loro testimonianze. Quelli che verranno dovranno fare a meno della loro presenza fisica, ma potranno contare su quello che ci hanno lasciato. «[La Shoah] È stato un incidente della storia, la coincidenza fatale di fattori che possiamo credere irripetibili, oppure quella storia è ancora aperta, i pericoli di ricadere nella malattia sono ancora attuali?
Queste domande non sono retoriche. E le risposte obbligano a una diversa considerazione del valore e della efficacia della testimonianza. Se quello è stato un episodio terribile, ma in sé concluso, allora possiamo tenere le testimonianze in un contenitore delle memorie, in una modalità «conservativa», senza chiedere loro di darci di più di quanto ci abbiano già dato in passato.
Se, viceversa, riteniamo […] che quella storia, per quanto eccezionale, sia ancora pericolosamente aperta, allora dobbiamo fare in modo che le testimonianze di quel tempo rimangano in una modalità «attiva»; concorrano, cioè a rifornirci di una conoscenza e di una razionalità che ci consentano di mantenere vive le ragioni della democrazia conto ogni tentazione autoritaria, intollerante e razzista» (Barberis, 2019, pp. 36-37).
Il movimento celebrativo e mediatico che si è creato negli anni recenti, anche grazie alla legge sul GdM – e certamente non da considerare in toto negativo – ha in parecchi casi sovrastato, ecceduto, sfruttato, contribuito a un sovraccarico di immagini, che rischiano fortemente di portare all’assuefazione, se non l’hanno già fatto e magari di riportarci indietro, richiudendo la memoria ancora una volta tra le mura domestiche.
Per questo non dobbiamo disperdere l’eredità che abbiamo ricevuto, giunti ormai quasi alla fine della cosiddetta “era del testimone”. Il piccolo, ma efficace inciampo visivo prodotto dagli Stolpersteine contribuirà certamente a mantenerla viva e partecipata.
Note
[1] Legge 20 Luglio 2000 n. 211 che istituisce il “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
[2] Memoria, regia di Ruggero Gabbai. Autori: Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto. Produzione: Forma International, Italia, 1997. Durata: 90, raccoglie la testimonianza di 93 ebrei italiani sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz- Birkenau.
[3] Entrambe le citazioni sono tratte dal testo di Adachiara Zevi, intenti del progetto Memorie d’inciampo accessibile sul sito Arte In Memoria. La manutenzione e la salvaguardia dei sampietrini spettano alle amministrazioni locali – a Roma ai Municipi – che si occupano del supporto logistico alle installazioni, fornendo, per esempio, le squadre di operai stradali.
[4] Per un maggiore approfondimento consultare le sezioni del sito Arte in Memoria, rispettivamente; sezione installazioni Piazza Rosolino Pilo e sezione installazioni Via Flaminia.
Bibliografia
Barberis W., Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.
Gordon R. S. C., Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010),Bollati Boringhieri, Torino 2013.
Sarfatti M., Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti, in «Domani», 15 gennaio 2022.
Zevi A., Monumenti per difetto, Donzelli, Roma 2014.
Sandra Terracina è nata a Roma. È biologa e dottore di ricerca in Reumatologia sperimentale. Ha lavorato presso il Policlinico Umberto I di Roma fino al 1998.
Dal 2003 si occupa stabilmente di storia e trasmissione della memoria e coordina l’associazione “Progetto Memoria”, che si dedica principalmente all’organizzazione di incontri nelle scuole con testimoni ed esperti della Shoah in Italia. È coautrice del libro Una storia nel secolo breve L’Orfanotrofio israelitico italiano Giuseppe e Violante Pitigliani (Roma 1902-1972), a cura di Micaela Procaccia, Giuntina, Firenze, 2017. È socio fondatore di “Arte in memoria”, associazione culturale presieduta da Adachiara Zevi, che cura le installazioni delle pietre d’inciampo a Roma, dal 2010.
È iscritta alla Memory Studies Association dal 2019, ha partecipato alle conferenze internazionali di Roma, Madrid e Varsavia.