Quando ho chiesto alla coreografa uruguayana Tamara Cubas quanto il suo lavoro fosse influenzato dalla colonizzazione europea, mi ha risposto che non esiste un Uruguay non influenzato dall’Europa. Così come non esiste una storia precoloniale, poiché tutto ciò che c’era prima è stato annientato, a eccezione di pochi racconti frammentati che alimentano un immaginario fantasioso su un passato andato perduto. Mi sorgono a questo punto alcune domande: Come restituire un qualcosa che non esiste più? Cosa restituire di quel passato? Chi deve restituire a chi? Finché resistono dei frammenti e questi frammenti alimentano un immaginario, allora il passato non è davvero perduto. Si tratta di trovare un modo (non necessariamente razionale) per recuperarlo, rielaboralo, restituirlo al mondo, per farlo riemergere e galleggiare in superficie. Come fare?
C’è qualcosa che inevitabilmente è sintomo di quel passato, pur se nascosto sotto strati e strati di regole, giudizi, addomesticamenti: il corpo. Un corpo che appartiene al presente ma che inevitabilmente dialoga con il passato nonostante sia stato razionalmente e volutamente dimenticato. Ogni corpo è un corpo archiviale. Racchiude in sé la storia, inconsapevolmente incorpora e stratifica pezzi di esistenza: nella gestualità, nelle abitudini, nell’estetica, nel ragionamento, nel pensiero, nel suo modo di abitare il presente. Il corpo è archivio vivente, e in quanto tale è un «sistema che trasforma simultaneamente passato, presente e futuro – vale a dire, un sistema per ricreare un’economia totale della temporalità» (Lepecki, 2016: 3). È Andrè Lepecki a teorizzare un corpo che non si distingue più dall’archivio, perché «il corpo è archivio e l’archivio un corpo» (Lepecki, 2016: 5). Questo lo rende facile vittima del dispositivo archiviale, un dispositivo foucaultiano che prescrive cosa «sia degno di avere un posto al suo interno e cosa debba essere escluso da esso, determinando cosa debba essere appropriatamente catalogato e cosa (deliberatamente o inavvertitamente) debba essere ‘smarrito’ in esso» (Lepecki, 2016: 4). Allo stesso tempo però, il corpo è il più precario degli archivi, il più instabile, il meno burocraticamente efficiente, ed è qui che risiede la sua capacità in potenza di sfuggire alla norma coloniale.
In queste righe non mi occupo di restituzione materiale, né simbolica; parlo piuttosto della riappropriazione da parte dei corpi della consapevolezza del loro intrinseco potere decolonizzatore. E tramite essi, della riemersione di passati cancellati. La restituzione che fa l’oggetto di questo articolo ha a che vedere con il sapere originario, l’intuito, la libertà dagli stereotipi che incatenano a etichette prestabilite. La restituzione della coscienza che loro, i corpi, sono ed esistono al di là dell’addomesticamento e dell’indottrinamento che hanno ricevuto e continuano a ricevere. Per farlo, presento come caso studio la performance di danza contemporanea Puto Gallo Conquistador di Tamara Cubas e mi appoggio alla teorizzazione del knowing-body della filosofa brasiliana Suely Rolnik.
In Puto Gallo Conquistador [1] lo sconosciuto passato precoloniale viene chiamato in causa attraverso una cornice benjaminiana che guarda alle rovine della storia più che ai monumenti riconosciuti dall’ufficialità e che tenta di costruire narrazioni critiche non egemoniche sul passato, alimentando il presente attraverso una pratica contemporanea della memoria. La coreografa, insieme agli artisti creatori dell’opera, si appropria del diritto di esercitare la memoria, di immaginare e di riproporre i simboli di un passato nazionale poco conosciuto a partire dai corpi del presente. Il discorso sul corpo è una questione profonda e delicata quando si parla di colonialismo; le politiche invasive e dominanti hanno influito nel corso della storia – e continuano a farlo nel presente – macro e microscopicamente nella costruzione di soggettività e corporalità standardizzate organizzate secondo un ordine gerarchico invalicabile. A titolo d’esempio, basti pensare alla cattura di corpi umani al fine di convertirli in macchine produttive messe al lavoro nelle piantagioni, ma come spesso accade è il condizionamento invisibile a essere il più pericoloso e longevo, quello che Rolnik chiama «the unconscious repression of the knowing-body» (Rolnik, 2013) riferendosi ai processi di oppressione coloniale e capitalistica che, imprigionando la forza vitale, riducono la soggettività a un soggetto che la filosofa chiama zombie.
I soggetti zombie sono normalizzati e accecati da un mondo luccicante che qualcuno ha preparato per loro, un mondo che catalizza il loro desiderio senza mai lasciarli varcare la soglia. Jean-Paul Sartre scriveva qualche decennio prima in prefazione a Frantz Fanon: «L’élite europea prese a fabbricare un indigenato scelto; si selezionavano gli adolescenti, gli si stampavano in fronte, col ferro incandescente, i principi della cultura occidentale, gli si cacciavano in bocca bavagli sonori, parole grosse glutinose che si appiccicavano ai denti; dopo un breve soggiorno in metropoli, li si rimandava a casa, contraffatti» (Sartre, 1962; 1), trasformati in «menzogne viventi che non avevano più niente da dire ai loro fratelli», diventando per loro come una madre distaccata, amata e ammirata dai suoi figli di un amore e ammirazione non ricambiati. E aggiungeva, dando voce al colonizzato: «voi fate di noi dei mostri, il vostro umanesimo ci pretende universali e le vostre pratiche razziste ci particolarizzano» (Sartre, 1962; 1-2). Dei mostri disposti a tutto pur di una concessione di integrazione che non avverrà mai completamente, ma «basterà […] tener loro davanti agli occhi quella carota: galopperanno» (Sartre, 1962; 2). Rolnik ci racconta come funzionano questi principi della cultura occidentale e, soprattutto, che forma assume la carota che tanto fa galoppare. Così la filosofa descrive il capitalismo culturale: «Una religión monoteísta […]: existe un Dios todopoderoso que promete el paraíso, con la diferencia de que el capital está en la función de Dios y el paraíso que promete está en esta vida y no más allá de ella. Los seres glamorosos de los mundos de la propaganda y del entretenimiento cultural de masas, con su garantido glamour, son los santos de un panteón comercial: ‘superestrellas’ que brillan en el cielo-imagen por encima de las cabezas de cada uno, anunciando la posibilidad de unirse a ellos» (Rolnik, 2005).
Puto Gallo Conquistador, concept e regia di Tamara Cubas. Debutto:14-16 luglio 2014 presso Teatro Solìs, Montevideo (UY).
Puto Gallo Conquistador rompe con questa normalizzazione e va alla ricerca di soggetti che siano desideranti, soggetti decoloniali. L’intera opera si costruisce tramite il recupero organico di corpi che scavano tra gli scaffali e si disfano di tutto ciò che è stato aggiunto; corpi che hanno archiviato per anni regole, comportamenti e desideri indotti, ma che ancora custodiscono, nei meandri più profondi e sotto strati di polvere, il proprio bagaglio archivistico che appartiene al passato precoloniale. Un archivio che non rispetta le leggi espositive e catalogatrici degli archivi museali, ma che produce una conoscenza intuitiva e vitale, impossibile da etichettare, che rende padroni del proprio desiderio. Rolnik teorizza l’urgenza del ritorno del knowing-body, definendo la sua repressione come la più grande violenza dell’impresa coloniale dal punto di vista della micropolitica. Interessante notare che sceglie di usare la parola ritorno e non restituzione.
Mi soffermo su una delle domande iniziali: Chi deve restituire a chi? La scelta del termine ritorno suggerisce che la restituzione non avviene dall’esterno, ma da una riemersione operata dallo stesso corpo di qualcosa che già c’era e che è scomparso per un certo periodo di tempo. Non è chi detiene il potere, quindi, a dover restituire, ma sono gli stessi colonizzati a dover agire per riattivare ciò che da sempre gli appartiene. Non si tratta della restituzione di qualcosa che è stato sottratto, come avviene in moltissimi casi con il patrimonio materiale rubato o preso con la violenza dai territori di appartenenza. È esattamente il contrario: in questo caso si tratta di un riempimento del territorio corpo, di un affollamento che è arrivato a mettere a tacere un sapere corporeo che esiste da sempre e che deve trovare la strada per riemergere. Parliamo quindi di ritorno del sapere corporeo e di riappropriazione della memoria di un passato in cui questo corpo è stato il protagonista. Il colonizzatore ha avuto un ruolo attivo nella soppressione violenta, il colonizzato ha la responsabilità verso sé stesso di agire per quanto in suo potere, senza attendere che sia nuovamente il carnefice a decidere che è arrivato il momento di restituire. Con questo non voglio assolutamente dire che l’Europa di oggi se ne possa lavare le mani, sostengo piuttosto che si tratti di una responsabilità condivisa e che nella ricerca del proprio knowing-body risiede un potere slegato, delinked (Mignolo, 2007), dalle magre concessioni del potere occidentale.
Arriviamo quindi al titolo dell’opera che a prima vista ci sembra posizionare il lavoro secondo una prospettiva di parte abbastanza chiara, che vede il colonizzatore come un gallo conquistatore del cazzo. Cubas però smentisce questa interpretazione, e in occasione di un’intervista avvenuta nel maggio 2020 mi offre un’altra lettura: «Si, me constituyo, me pienso como país colonizado y eso si es lo que me interesa indagar, de un pensamiento desde el sur, de un país colonizado. […] Pero no identificarnos con los que se oponen al norte, a los países colonizadores, si no en realidad en relación a los otros países colonizados, lo que tenemos una historia parecida. Me refiero a Brasil, Argentina y también otros paises del sur como Africa» (Cubas, intervista del 4 maggio 2020).
La coreografa afferma di non volersi identificare in opposizione ai paesi colonizzatori, quantopiuttosto in relazione agli altri paesi colonizzati, dimostrandosi d’accordo con Fanon quando scrive: «L’Europa ha fatto quel che doveva fare e tutto sommato lo ha fatto bene; smettiamo di accusarla, ma diciamole fermamente che non deve più continuare a far tanto rumore» (Fanon, 1962; 216). Il titolo della performance non è un’accusa, ma la denuncia della necessità del colonizzato di riferirsi al colonizzatore in modo insultante, consuetudine che non fa altro che confermare la sua condizione, vittima di una gerarchia che rimane insediata nel pensiero di chi si sente inferiore.
Cubas, forte della teoria decoloniale proposta da Walter Mignolo (Mignolo, 2007), tenta di mettere in atto uno degli aspetti che egli propone come concetti chiave della grammatica della decolonialità: imparare a disimparare. Dis-archiviare l’archivio corporeo. Liberare il corpo dai traumi.
Afferma ancora Rolnik: «Today, the toxic effects of this unconscious repression have reached their limit, generating the vast crisis in which we are immersed. To create the conditions for a return of the knowing-body – free from the effects of its traumas – becomes, thus, an unavoidable task in the resistance to the actual state of things. It’s not a matter of futurology: signs of this return are creeping in throughout the “Global South”; a South that is multiple, and whose borders are not geographically limited. These are blasts of oxygen at the points where thought is asphyxiated in contemporaneity, tirelessly redrawing its landscapes, in an endless work. Wouldn’t this be, precisely, the real political potency of art?» (Rolnik, 2013).
La coreografa si fa responsabile dell’ultima domanda provocatoria e ricerca con i suoi danzatori ilcorpo cosciente, risvegliato e vivo andando a scavare tra quegli istinti corporei che oggi chiamerei in modo semplicistico primitivi.
Prima dell’arrivo degli spagnoli, l’Uruguay era popolato dai charrúa, popolazione che è stata sterminata e progressivamente integrata nella società coloniale. I danzatori Natalia Viroga, Javier Olivera, Santiago Turenne, Maite Santibañez, Sergio Muñóz e Carlos Borthagaray ricercano quella conoscenza del corpo-che-sa provando a scoprire come sarebbero senza il condizionamento coloniale, sperimentano «the bodily power to listen to the diagram of the forces of the present» (Rolnik, 2013), e tramite esso trasformano e aumentano i loro poteri di esistenza attraverso la differenziazione. Differenziazione al posto di normalizzazione: il risultato nell’opera di Cubas è un universo barbaro, gutturale, semplice, dove è l’intensità dei corpi in scena a costruire la drammaturgia. A noi, spettatori figli del buon gusto civilizzato, tale evocazione istintuale incute il timore di chi sa che non sta assistendo a un tentativo di innocuo ritorno alla “naturalezza primitiva”. Siamo testimoni di una vera e propria rivoluzione che irrompe impetuosamente nel presente. È ancora Sartre nella suaprefazione a Fanon a classificare – parlando nello specifico del continente africano ma riferendosi a tutte le forme di colonialismo – il mito del ritorno al passato remoto della cultura africana un’alienazione altrettanto pericolosa del mito della cultura occidentale, sostenendo che «la vera cultura è la Rivoluzione» (Sartre, 1962; 4). Tornare indietro ormai non è possibile. Riappropriarsi del passato significa restituire, o forse dovremmo dire restituirsi, la possibilità di ricostruire oggi a partire dalle fondamenta, non fermarsi alle fondamenta. Inutile la nostalgia per i charrúa, una popolazione che di fatto non esiste più: ciò che invece è urgente è ricordarsi di loro, riconoscerli nel corpo e a partire da esso chiedersi chi sianogli uruguayani di oggi.
È possibile tagliare il cordone ombelicale con la matrigna Europa, con il puto gallo conquistador? Ci provano i cinque danzatori. Il risultato? Dei corpi senza volto, forme anonime, talvolta mostruose, senza luogo e senza tempo, se non il tempo del mito di un passato studiato tra i banchi di scuola impastato con l’immaginazione di «lo que nos gustaria que fuera» (Cubas, 2014). È la volontà della memoria charrúa che li guida alla ricerca di origini amputate, dimenticate e talvolta rifiutate, perché è preferibile identificarsi con i lontani parenti europei piuttosto che con la cultura che tali parenti hanno oppresso. Ma, come suggerisce Lucia Naser, «colonización es también y sobre todo sigue siendo, la narración mediante la que construimos nuestro pasado y nuestro presente» (Naser, 2014), ragion per cui trovare una narrazione propria è di fondamentale importanza.
Puto Gallo Conquistador narra di cinque corpi, unici sopravvissuti alla catastrofe civilizzatrice, che tremano, ruggiscono, si cercano. La performance si sviluppa con un’inoperosa e continua ricerca di nuovi modelli di movimento che non perdurano, si trasformano costantemente in altro mentre la negoziazione tra singolarità e contagio collettivo è costante. Nulla è stabile: grandi teli bianchi coprono l’intera superficie del palco, i danzatori se li trascinano dietro modificando la conformazione del terreno che si fa sempre più disordinato fino a ingoiare i suoi abitanti che diventano un tutt’uno con la massa informe e bianca del suolo. Nulla è stabile, nemmeno lo spazio teatrale: cadono le americane e i corpi charrúa spariscono dalla scena per lasciare spazio all’ultimo spiazzante momento dello spettacolo. Nemmeno la condizione alienata a cui abbiamo assistito fino ad ora è stabile: entra un ballerino composto e ben vestito che con un’abilità tecnica sorprendente cancella il passato esibendosi in un malambo argentino.
D’altronde, la stessa Cubas elogia l’instabilità che implica abitare un paese periferico come l’Uruguay. L’instabilità è movimento, e nel movimento risiede la potenza investigativa che apre una via di fuga dal concetto fisso di identità, che come suggerisce Andrè Grau «è certamente una nozione chiave del pensiero occidentale» (Grau, 2011; 229). A Cubas «interesa la potencia del borde, en el sentido de todo lo que se borronea en ese borde donde todo pasa de un lado para el otro, por lo tanto no hay nada que se establece, entonces me interesa mas el movimiento que no lo que se establece como identidad» (Cubas, intervista del 4 maggio 2020).
Note
[1] La performance ha debuttato nel luglio 2014 presso il Teatro Solìs di Montevideo (UY). È stata realizzata con il sostegno di Programa Próximo Futuro/Fundación Gulbenkian, Lisboa, (PT) e Programa de fortalecimiento de las Artes Escénicas, Montevideo (UY).
Bibliografia
Cubas T., Tamara Cubas con una nueva propuesta, intervista a cura di Carlos Reyes, in «El País», Montevideo, 14 luglio 2014
Fanon F., I dannati della terra, traduzione di Carlo Cignetti, Einaudi editore, Torino, 1962
Grau A., Danza, identità e processi di identificazione in un mondo post coloniale, in Franco S., Nordera M., (a cura di) I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca, UTET Università, Torino, 2011
Lepecki A., Il corpo come archivio. Volontà di ri-mettere-in-azione e vita postuma delle danze, traduzione di Alessandro Pontremoli, in «Mimesis journal», 5,1, 2016
Mignolo W., DELINKING The rhetoric of modernity, the logic of coloniality and the grammar of decoloniality, in «Cultural Studies», 21:2-3, 449-514, 3 aprile 2007.
Naser L., Mirarse en la cara del conquistador, in «La Diaria», Montevideo, 20 luglio 2014
Rolnik S., Antropofagia Zombie, traduzione di Carlos R. Ruiz, in «What, How & for Whom», Kollective Kreativitat, Kunsthalle Fridericianum, Kassel, 2005
Rolnik S., presentazione videoconferenza The Return of the Knowing Body, Brasil, 12 gennaio 2013, disponibile al link: https://hemisphericinstitute.org/en/enc13-keynote-lectures/item/2085-enc13-keynote-rolnik.html, visitato in data 22/04/22.
Lara Barzon è attualmente dottoranda in co-tutela tra il Dipartimento di Theatre and Performance Studies della University of Warwick (UK) e il Dipartimento di Social Sciences della University of Ljubljana (SLO), borsista EUTOPIA. Si occupa di pratiche e politiche decoloniali nella danza contemporanea. Proviene da un percorso multidisciplinare sia pratico sia teorico che spazia dalla danza alla regia teatrale e alla curatela per le arti performative contemporanee.